Il contributo dei cristiani per una società più umana e fraterna

 

L’opzione preferenziale
per i poveri

di Vera Araújo

 

L’autrice di questo articolo è una sociologa brasiliana, che prese parte come perito all’ultima Conferenza dei vescovi latinoamericani a Santo Domingo. Quanto pubblichiamo è la trascrizione di un discorso tenuto ad un gruppo di politici impegnati in vari ambiti della vita sociale. Abbiamo rispettato la spontaneità dello stile parlato.

L

a scelta preferenziale per i poveri è una espressione che fa parte della sostanza stessa del cristianesimo e comporta molte conseguenze anche nel campo politico. Essa affonda le sue radici nella vita stessa del
Cristo ed è presente in tutta la storia del
cristianesimo.

Gesù e i poveri

Agli inizi della sua vita pubblica, in un giorno di sabato, Gesù entrò nella sinagoga della sua città e, invitato dal capo della comunità a leggere il «rotolo», cioè il testo della Legge e a farne un commento, egli lesse la profezia di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19). Dopo aver letto il testo con molta solennità nel silenzio rispettoso della sala, Gesù disse: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi» (Lc 4, 21), come a dire che la profezia si adempiva in lui.

Quando più tardi il Battista, imprigionato da Erode, mandò i suoi discepoli da Gesù a domandare: «Sei tu colui che viene (il Messia) o dobbiamo aspettarne un altro?» (Lc 7, 20), Gesù non rispose: sono io o non sono io, ma disse semplicemente: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano..., e ai poveri è annunciata la buona novella» (Lc 7, 22). Questi sono i segni che il Battista non poteva non capire, perché il Messia era stato presentato dai profeti come colui che avrebbe avuto una particolare predilezione per i poveri.

Gesù, infatti, è venuto per i minimi, per i piccoli, per prendere su di sé la sventura dell’intera umanità. Persino i ricchi di questo mondo, se vogliono far parte del nuovo Regno che il Messia è venuto ad instaurare sulla terra, devono diventare evangelicamente poveri.

I primi discepoli

Questa caratteristica essenziale dell’agire di Gesù, egli la trasmette ai suoi. I cristiani sono tali se nella loro vita fanno questa scelta preferenziale dei poveri. E si può dire che, nonostante i limiti umani, la storia del cristianesimo è stata un’apoteosi, una sinfonia di questo andare incontro alle sofferenze, ai bisogni dell’umanità.

Se guardiamo l’esperienza dei primi secoli, osserviamo che il cristianesimo è riuscito a svilupparsi e a diffondersi in così poco tempo, perché i cristiani erano coloro che facevano quelle cose che gli altri non facevano e non facevano quelle che tutti gli altri facevano: i poveri, gli schiavi, i malati, gli handicappati, questi non avevano voce, né posto nella società dell’epoca, l’avevano invece nella società cristiana, in quel popolo nuovo che stava nascendo.

I Padri della chiesa

Quando si affievolì un po’ l’entusiasmo, la forza di quello «sprint» iniziale, si fece sentire forte la voce dei Padri della chiesa per ricordare a tutti che la credibilità delle comunità cristiane si basava sul valore che esse davano al povero, al bisognoso, al malato.

Giustino, un laico del II secolo, diceva: «Noi, che cercavamo più avidamente degli altri ricchezze e fortune, ora mettiamo in comune i beni che possediamo, dividendoli con tutti i bisognosi»1.

Gregorio Nisseno, vescovo del IV secolo: «Non pensate che tutto quello che possedete sia esclusivamente vostro, dovete farne parte ai poveri che sono gli amici di Dio. Di lui, infatti, che è nostro Padre sono tutte le cose e noi siamo fratelli»2. Ecco come la fratellanza passa attraverso la condivisione.

Basilio, un altro grande Padre della chiesa del IV secolo, fondatore del monachesimo orientale: «Il pane che sprecate è il pane dell’affamato, la tunica appesa nel vostro armadio è di colui che è nudo. Le scarpe che non mettete sono quelle di chi non ne ha. I soldi che tenete nascosti sono quelli del povero. Le opere di carità che non fate sono altrettante ingiustizie che commettete»3.

E poi Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli nel IV secolo, che con le sue parole faceva tremare anche gli uomini e le donne della corte imperiale: «Cristo è consunto dalla fame e tu stai crepando a causa della tua ghiottoneria»4; «ma non si vergognano costoro degli abissi di sensualità in cui vivono mentre Cristo ha fame?»5; «chi ha possibilità di fare elemosina e non lo fa è un assassino dei suoi fratelli, come Caino»6; «vale molto di più nutrire Cristo che ha fame che resuscitare i morti in nome di Gesù»7.

Leggiamo in uno scritto di Gregorio Magno del VI secolo: «Quando diamo ai poveri ciò che è loro necessario, non diamo qualcosa di nostro, ma restituiamo qualcosa che appartiene ad essi. È più, in questo caso, un’opera di giustizia che non di misericordia».

Si può dire che non c’è Padre della chiesa che non abbia preso le difese dei poveri.

Così fino ai nostri giorni

Nella storia del cristianesimo il pensiero dei Padri non è rimasto una bella teoria, ma si è incarnato in opere concrete di carità, di servizio, di condivisione. E questo ininterrottamente fino ad oggi.

Ma quando l’Europa fece la grande svolta culturale moderna, ponendosi su strade che in certo modo escludevano Dio ed emarginavano la chiesa, in quei secoli dove erano i cristiani? Mentre tutti si davano da fare per creare un ordine nuovo, per aprire una nuova via dal punto di vista sociale, politico ed economico – quello che appunto sarà il paradigma della cultura moderna – dov’erano loro? A me è venuta spontanea una risposta: i cristiani erano a servizio dell’umanità, soprattutto di quella porzione di essa che gli altri emarginavano. Mai, come in quei secoli, sono nati tanti «monumenti» di servizio al povero, a coloro che nella nuova grande costruzione non trovavano posto. Vincenzo de’ Paoli, Camillo de Lellis, Francesca Cabrini e, venendo ai più moderni, Giovanni Bosco, il Cottolengo, padre Damiano dell’isola di Molokai, fino ai laici dei nostri giorni, come Albert Schweitzer in Africa e Marcello Candia in Brasile o il sacerdote Zeno Saltini, fondatore di Nomadelfia, per nominare solo alcuni tra i più conosciuti.

Tutto questo non è altro che una concretizzazione di quella scelta dei poveri che Gesù ha fatto ed ha trasmesso ai suoi.

Ai nostri giorni abbiamo dovuto prendere coscienza di nuove povertà, generate dal sistema in cui la società civile si è organizzata; un sistema che, favorendo alcuni, getta nella miseria tanti altri. Per eliminare queste povertà non basta la spinta del cuore, l’aiuto puntuale, la promozione delle persone – anche se questa dimensione dovrà pur sempre rimanere – ma ci vuole anche il coraggio di andare alla radice del male, correggendo o sostituendo il sistema.

Qui l’opzione preferenziale per i poveri acquista un’altra dimensione e la chiesa ha fatto un cammino per poter arrivare alla comprensione di questi nuovi volti della povertà nati con il mondo moderno.

Mentre l’Europa era attanagliata dai conflitti provocati dall’industrializzazione e dalla secolarizzazione – in una parola dalla modernità – moltissimi gruppi di cristiani, pur emarginati, davano vita a delle organizzazioni, a dei circoli di riflessione per comprendere e per eliminare le cause delle nuove povertà e delle nuove oppressioni.

Da questo lavoro svolto in Europa (in Germania, in Belgio, in Francia, in Italia, in Svizzera, e vi erano coinvolti laici, sacerdoti, religiosi e vescovi) è nata la prima enciclica sociale della chiesa, la Rerum Novarum.

Questa enciclica è la raccolta di tutta l’esperienza della chiesa che in quel momento si esprimeva nella voce autorevole di colui che è segno dell’unità dei cristiani. È l’inizio di quella riflessione che esplose in modo forte e incisivo col Vaticano II.

 

Il Concilio Vaticano II

È noto che una delle grandi tematiche del Vaticano II è la chiesa povera e la chiesa dei poveri. Chiesa povera non vuol dire amare la miseria e mantenere sottomessi i poveri di questo mondo con la promessa del paradiso nell’altro; chiesa povera significa che i suoi membri hanno un loro modo di rapportarsi ai beni anche materiali, seguendo lo stile del loro Maestro e della loro migliore tradizione: la comunione. E poi la chiesa dei poveri: vuol dire invitare tutti i cristiani, anche coloro che sono materialmente ricchi, a mettersi dalla parte dei poveri per vedere cosa fare insieme a loro per creare un mondo più giusto e fraterno, dove i beni siano messi sapientemente in comunione.

Il documento conciliare Gaudium et Spes descrive e analizza le strutture di peccato. Nel n. 88 dice: «La miseria della maggior parte del mondo è così grande che ci sembra quasi di intendere nei poveri l’appello del Cristo che reclama la carità dei suoi discepoli. Si eviti questo scandalo: mentre alcune nazioni, i cui abitanti per la maggior parte si dicono cristiani, godono di una grande abbondanza di beni, altre nazioni sono prive del necessario e sono afflitte dalla fame, dalla malattia e da ogni sorta di miserie. Lo spirito di povertà e di amore è infatti la gloria e il  segno della chiesa di Cristo (...). Spetta a tutto il popolo di Dio, dietro la parola e l’esempio dei suoi vescovi, di sollevare, nella misura delle proprie forze, la miseria di questi tempi, dando, secondo l’uso antico della chiesa, non solo del superfluo, ma anche del necessario».

Qui la chiesa guarda, in una prospettiva planetaria, le povertà vicine e lontane e dice qualcosa di molto duro per la cultura egoistica moderna, qualcosa a cui non può rinunciare perché parte essenziale del messaggio evangelico: la necessità di dare ai poveri, non solo del proprio superfluo, ma anche del proprio necessario, secondo il bisogno altrui.

La voce profetica
dell’America Latina

Questa nuova spinta del Vaticano II è stata assunta, approfondita e poi espressa da una chiesa particolare, quella dell’America Latina. Subito dopo il Concilio i vescovi latino-americani radunati nella città di Medellín in Colombia hanno guardato al loro continente, di per sé tanto ricco e pur immerso in una povertà che ha i colori sinistri della tragedia, e si sono domandati come porre in pratica in questo ambiente il Vaticano II.

Da lì è venuto fuori un «manifesto» della chiesa postconciliare, dove lo sguardo di Gesù si posa in modo speciale, come mai era avvenuto in passato, sui poveri del continente.

Questo appello della chiesa latinoamericana si rende ancor più vivo a Puebla nel 1979. Qui è nata la famosa espressione «l’opzione preferenziale per i poveri». Questa opzione significa: capire chi sono i poveri, comprendere le cause della povertà e, come cristiani, assumere impegni concreti per sopprimere tali cause.

Questo esige un impegno non solo sociale ed economico, ma anche e soprattutto politico. I testi di Puebla – ribaditi ultimamente a Santo Domingo – sono chiari ed esigenti, perché prendono posizione di fronte ai sistemi, al modo di vedere l’economia, il conflitto sociale, l’edificazione o la soppressione delle democrazie.

In America Latina si rivive in questo campo l’esperienza dei primi tempi del cristianesimo: non fare quello che gli altri fanno, ma fare cose che gli altri non fanno.

La voce di tutta la chiesa

Questa presa di posizione sofferta ma profonda della chiesa latinoamericana, ad un certo punto, è stata assunta dalla chiesa universale, ed è stata espressa in pieno  dal papa nella Sollicitudo Rei Socialis.

Questa enciclica di Giovanni Paolo II, scritta per commemorare il XX anniversario della Populorum Progressio, affronta per la prima volta i problemi dell’economia e dello sviluppo a livello internazionale.

«Lo sviluppo è il nuovo nome della pace» è la frase che riassume la Populorum Progressio. Giovanni Paolo II,  riprendendo le analisi fatte da Paolo VI sulla ripartizione dei beni nel mondo tra ricchi e poveri, fa notare che la situazione non solo non è migliorata ma è peggiorata. Ed invita all’azione, cominciando all’interno della stessa chiesa.

Ricollegandosi alla grande tradizione della chiesa, il papa scrive, ad esempio: «Fa parte dell’insegnamento e della pratica più antica della chiesa la convinzione di essere tenuta per vocazione – essa stessa, i suoi ministri e ciascuno dei suoi membri – ad alleviare la miseria dei sofferenti vicini e lontani, non solo con il superfluo ma anche col necessario. Di fronte ai casi di bisogno non si possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino; al contrario, potrebbe essere obbligatorio alienare questi beni per dar pane, bevanda, vestiti e casa a chi ne è privo» (n. 31). All’epoca la stampa diede grande rilievo a questo brano.

In un altro testo dice: «Desidero qui segnalare l’opzione o l’amore preferenziale per i poveri. È questa un’opzione o una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana testimoniata da tutta la tradizione della chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica egualmente alle nostre responsabilità sociali e perciò al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l’uso dei beni. Oggi poi, attesa la dimensione mondiale che la questione sociale ha assunto, questo amore preferenziale, con le decisioni che esso ci ispira non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senza tetto, senza assistenza medica e soprattutto senza speranza di un futuro migliore, non si può non prendere atto dell’esistenza di queste realtà. L’ignorarle significherebbe assimilarci al ‘‘ricco Epulone’’ che fingeva di non conoscere Lazzaro, il mendico giacente fuori della sua porta» (n. 42).

Le strutture di peccato

Se questa è una chiamata, una presa di posizione, adesso – dice il papa – andiamo a fondo per analizzare e conoscere le vere cause di tanti mali: le strutture di peccato.

Riassumo con parole mie il pensiero del papa. Il male è sempre un fatto personale, perché nasce nel cuore dell’uomo, ma non rimane circoscritto all’individuo; esso va oltre e si esprime nei rapporti interpersonali, nelle istituzioni e nelle strutture della vita politica, economica e sociale. Queste strutture, invece di essere nella convivenza sociale espressione della solidarietà, del bene comune, possono diventare fonti di mali sociali e causare situazioni legalizzate di oppressione, di miseria, di schiavitù di ogni tipo. Sono le strutture di peccato.

L’azione politica del cristiano deve svolgersi, oltre che nel privato, anche nel pubblico. Egli – dice il papa – deve sostituire queste strutture di peccato con strutture di grazia. Così agivano i primi cristiani.

Il papa indica un cammino di conversione, che inizia nel cuore, con una conversione personale, calandoci nella situazione storica che attraversiamo. Dobbiamo renderci conto che viviamo in mezzo a strutture di peccato e che, nella misura in cui siamo conniventi, oppure siamo assenti, noi ci mettiamo in un rapporto non corretto, non giusto con l’amore di Dio e con la salvezza di tutti.

Dall’interdipendenza alla solidarietà

Bisogna inoltre prendere coscienza che gli esseri umani e quindi i popoli sono tra loro interdipendenti. Questo lo capiscono tutti, anche chi non ha il dono della fede, e ci permette di stabilire un dialogo e una collaborazione con tutte le persone di buona volontà. L’interdipendenza, però, può trasformarsi in dominazione e sfruttamento dei più forti sui più deboli, mentre dovrebbe essere la base della solidarietà.

Se siamo interdipendenti, dobbiamo essere solidali, cioè prenderci cura gli uni degli altri, essere un dono gli uni per gli altri. Non si tratta – dice il papa – di un sentimento, ma della determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune, ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti (cf SRS 38).

Questo discorso vale per chiunque, ma poi il papa si rivolge in modo particolare ai cristiani, dicendo che la solidarietà è una virtù che, alla luce della fede, tende a superare se stessa, a rivestire le dimensioni della gratuità totale, del perdono e della riconciliazione. È così che noi diventiamo cristiani in politica, facendo quello che normalmente nessuno fa, praticando la cultura del dare. Il perdono, la riconciliazione e la misericordia sono gli atteggiamenti che i cristiani devono portare in politica.

Il prossimo – continua il papa – non è soltanto un essere umano con i suoi diritti, la sua fondamentale uguaglianza davanti a tutti, ma diventa per noi viva immagine di Dio Padre, riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito. Egli pertanto deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore. E per lui bisogna essere disposti al sacrificio anche supremo: dare la vita per i propri fratelli. Allora, la coscienza che abbiamo un solo Padre e che siamo tutti fratelli, conferirà al nostro sguardo sul mondo un nuovo criterio di interpretazione, che si ispira alla paternità di Dio e alla fratellanza universale. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di Dio in tre persone, è ciò che noi cristiani chiamiamo comunione (cf SRS 40). Quando noi portiamo avanti un’economia di comunione, una politica di comunione, siamo su questa strada.

Lo stato sociale

Nella Centesimus Annus il papa richiama questi principi, già enunciati nella Sollicitudo Rei Socialis, e li applica ad un agire strettamente politico, facendo appello ad un’armonia tra l’economia di mercato e l’azione dello stato.

I cristiani devono impegnarsi nel loro agire politico per uno stato che ricerca il bene comune inteso non come semplice protezione dei beni che ogni cittadino possiede, ma come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» (GS 26), dando a tutti la possibilità di procurarsi col proprio lavoro tutto quello di cui hanno bisogno per crescere in umanità. Dunque, il cristiano che si impegna in politica è per uno stato che, attraverso le leggi, crea le condizioni favorevoli per una crescita dei cittadini, in tutti gli aspetti. Per coloro che hanno i mezzi necessari al proprio sviluppo, lo stato garantisce libertà e pace sociale; ma per coloro che non hanno questi mezzi e corrono il rischio di essere marginalizzati o sono stati già posti al margine, lo stato deve intervenire, creando per loro nuove condizioni di sviluppo.

In uno stato cosiddetto sociale gli amministratori, i delegati della sovranità popolare, devono creare una rete di leggi e un quadro giuridico in cui quelli che sono emarginati per una serie di motivi, spesso originati dall’oppressione, dalle strutture di peccato, abbiano la possibilità di trovare lo spazio in cui svilupparsi.

Conseguentemente un cristiano non può votare a favore di leggi che salvaguardano interessi o rivendicazioni personali o di classe, ma deve avere lo sguardo diretto verso l’insieme della comunità umana, soprattutto verso i più bisognosi: deve fare, anche in politica, l’opzione preferenziale per i poveri.

 

 

Vera Araújo

 

 

1)   I Apol., 14.

2)   De pauperibus amandis, Or. 1.

3)   Parole scolpite sulla porta di un monastero.

4)   In Act., MG 61,179.

5)   In Col., MG 62, 348.

6)   In 1Th., MG 62, 444.

7)   In 2Cor., MG 61, 516.