La nostra vocazione a «buon samaritano»

 

La chiesa che accoglie

di Piero Coda

 

 

Una rilettura in chiave moderna della parabola del buon samaritano ci può aiutare a capire il cammino che la chiesa è chiamata a percorrere per rispondere efficacemente ai segni dei tempi e far avanzare nel mondo la fraternità universale.

1. Chi è Gesù? chi dà Gesù?

Gesù non ha dato una risposta astratta e teorica all’uomo della Legge, né oggi la dà a noi quando gli chiediamo: che cos’è il vangelo della carità? come dobbiamo vivere – in quanto chiesa – il vangelo della carità in questa società?

In questi giorni mi è venuto in aiuto il racconto di un fatto che mi ha ridetto la chiave di questa parabola.

Un sacerdote non più giovane ha fatto visita a un uomo anziano, ammalato gravemente e povero. Consapevole del suo stato e toccato dal gesto e più ancora dall’essere amore di questo fratello, alla fine gli ha detto: «don... ti posso dare un bacio?». «Sì!». «Ho baciato Gesù» – ha poi esclamato. E il prete: «Anch’io, grazie a te!».

Chi è il buon samaritano? chi è il malcapitato? Il buon samaritano è certo figura di Gesù, del discepolo, figura di ogni essere umano quando si fa ciò che è: specchio dell’amore di Dio. Ma anche il malcapitato è Gesù: «Ogni volta che avrete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli minimi, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

E non sappiamo in verità se siamo noi a dare il bacio di Cristo – come singoli e come chiesa – quando viviamo il Vangelo della carità, o se è il «minimo», di qualunque tipo e in qualunque modo, a darci lui il bacio di Gesù, facendoci diventare ciò che egli (il povero) è e ciò che anche noi siamo, nella fede: Gesù, proprio Gesù.

Qui è tutto il mistero della chiesa e la sua missione. Qui è il nostro vivere in Dio e il nostro diventare figli suoi, camminando coi fratelli e le sorelle.

2. I «bisogni»

Facciamo il primo passo che ci è suggerito dalla parabola: «...Un samaritano avendolo visto, ne ebbe compassione...».

Anche oggi occorre saper vedere chi è «spogliato», «coperto di bastonate», «mezzo morto». Non basta guardare facendo finta di non vedere o addirittura volendo non vedere, come fanno il sacerdote e il levita.

Non vale la pena fare qui una semplice rassegna delle forme di povertà, di emarginazione e di disagio esistenziale del nostro oggi. Tutti, più o meno, le conosciamo, e d’altronde il volto di ogni fratello e di ogni sorella che mi sfiora con una sua richiesta di aiuto – detta o non detta – è unico, originale, come lo sguardo d’amore di Cristo per me.

Piuttosto, vorrei richiamare tre livelli diversi – eppure così spesso intrecciantisi l’uno con l’altro – del bisogno di amore vero e concreto che pullula nella nostra società.

 

a) La povertà materiale e il suo nuovo       volto

Quello che cade per primo sotto gli occhi, certo, è il bisogno che nasce dalla povertà materiale.

Oggi, essa non solo è rilevantissima, fino a diventare schiacciante, se si pensa al Sud del mondo; ma ha un volto diverso e inquietante anche in quelle società – come la nostra – che vivono la «terza rivoluzione industriale», quella delle tecnologie dell’informazione. La povertà, infatti, non solo è in continua crescita, ma si presenta come la distanza crescente non più – come in passato – tra chi è «sopra» e chi è «sotto», ma tra chi è «fuori» e chi è «dentro», tra chi è «incluso» e chi è «escluso».

La povertà riguarda oggi fette sempre più ampie di popolazione del Sud come del Nord del mondo e prescinde dal solo parametro del reddito, il quale semmai «fotografa» un risultato, ma non chiarisce un processo.

Per ciò che riguarda il Sud del mondo, basta pensare al fatto – evidentissimo, ad esempio, in Brasile, come segnalano ripetutamente diverse chiese cristiane di quel Paese – che il circuito della produzione e del mercato non solo esclude la gran parte della popolazione, ma è così fatto che per principio la deve escludere per poter sussistere ed incrementarsi.

Da noi in Occidente assistiamo invece a quello che l’economista S. Zamagni ha definito un vero e proprio paradosso, il jobless growth, la crescita senza occupazione: perché oggi, per produrre di più, bisogna eliminare posti di lavoro.

Fenomeni come l’incremento della disoccupazione (il 12,2% in Italia,  il 21% al Sud), la ricerca di lavoro da parte dei giovani (che riguarda in Italia circa 1/3 di giovani), l’immigrazione, l’affollamento del «popolo della strada» senza casa e senza diritti riconosciuti (circa 60.000 in Italia, di cui il 9% sieropositivo, il 29% alcoolista, il 15% tossicomane, il 10% di ex ricoverati in ospedale psichiatrico...) testimoniano tangibilmente di questo trend.

 

b) Il disagio esistenziale e relazionale

Strettamente collegata a questa crescita del bisogno materiale come esclusione è il fenomeno del disagio esistenziale e relazionale, e cioè il bisogno di senso e di rapporti interpersonali e sociali significativi e costruttivi.

Scrive in proposito don Ciotti del «Gruppo Abele» di Torino: «Occorre oggi non dimenticare che si è resi poveri e che si è portati troppo spesso a intendere la povertà semplicemente come un fatto materiale, quando invece, in misura maggiore, essa si presenta come carenza di relazione e di socialità, come privazione di strumenti informativi e culturali, negazione di diritti e anche come perdita di identità e di senso, come smarrimento di valori e punti di riferimento. La solitudine, il consumo massificato di psicofarmaci, i suicidi, il disagio giovanile, la fatica mentale, la perdita di facoltà critiche derivata da un’informazione patinata e omologata, ci parlano di una ‘povertà che viene’ assai più di ogni dato strettamente economico»1.

Forse è proprio questo secondo livello di bisogni quello che maggiormente caratterizza il nostro tempo, perché è legato al tipo di povertà economica di cui prima dicevo. Esso sta venendo sempre più in rilievo. Anche perché non risparmia le fasce più agiate, anzi. È come se anche su di esse si ritorcesse come un boomerang (in termini di crisi esistenziale di senso) la mancanza di relazione e di solidarietà globalmente negata alla fascia meno fortunata dei propri fratelli.

 

c) Il bisogno di salvezza e di Dio

C’è, infine, un terzo livello, forse meno appariscente, ma neppure troppo, specie in questi ultimi tempi. È il bisogno di salvezza e, più in profondità, il bisogno di Dio.

Il bisogno di salvezza talvolta è ambiguo e confuso: può nascere, semplicemente, dal senso di angoscia e di disperazione a livello del senso dell’esistere e dello scacco della propria vita (non si sa più che pesci pigliare!); ma può anche esprimere la consapevolezza che con le nostre forze soltanto non possiamo salvarci, che c’è una realtà che sperimentiamo come peccato – in noi e attorno a noi...

Il fatto è che la morte delle ideologie ci ha resi orfani. Che il venir meno delle grandi utopie della modernità (progresso continuo e illuminato, fiducia quasi assoluta nella ragione, nella scienza, nella tecnica) ci ha lasciati con l’amaro in bocca e con il vuoto dentro.

Ecco allora il successo delle sette, del new age, la ricerca – non solo da parte di persone semplici, ma anche colte – di nuove esperienze religiose e, più in positivo, il riaffiorare della questione di Dio o almeno di un criterio di moralità sicuro per la vita personale e sociale, per far fronte alle frontiere nuove e spesso inquietanti dell’ingegneria genetica, dell’ecologia, dell’etica pubblica, della gestione del futuro...

3. Le cause

Tutto ciò ci spinge a fare un secondo passo. Questi bisogni da dove nascono? quali ne sono le cause?

Chi sono – questa la domanda – i briganti che depredano l’uomo e lo abbandonano mezzo morto? ma dobbiamo chiederci anche: perché il sacerdote e il levita passano oltre? pur scendendo da Gerusalemme, dove probabilmente hanno svolto il loro ministero di culto al Dio che è tre volte Santo, ma proprio per questo è il Dio della misericordia?

Anche qui la risposta si può agevolmente disporre su tre livelli, che corrispondono ai bisogni che abbiamo evidenziato.

 

a) «Mammona» e le strutture di peccato

A un primo livello ci sono certo delle responsabilità politiche ed economiche. «Non potete servire a Dio e  a Mammona» – ci ha avvertiti Gesù. Mammona, la ricchezza e il potere fatti idolo, cui si può e si deve sacrificare tutto.

È la scelta che trapassa, come spada a doppio taglio, il cuore di ogni persona. La tentazione vinta da Gesù, nel deserto e in tutta la sua esistenza.

Nel deserto: «Il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: tutte queste cose io ti dono se, prostrandoti, mi adorerai» (Mt 4, 8-9). Sulla croce: «Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (Mt 27, 40).

Mammona è il predatore e il divisore, e al suo «regno» partecipa chi ad esso si prostra, volendo trovare «salvezza» nel potere e nel denaro.

Dunque, all’origine dell’ingiusta povertà e dell’«iniquo Mammona» – come lo chiama Gesù – c’è sempre una scelta libera, una scelta di campo. Mammona sta di fronte alla mia libertà.

Oggi, però, la chiesa, alla luce dei 2.000 anni di esperienza e facendo tesoro dei risultati delle scienze sociali, non ha più paura di chiamare Mammona anche con un altro nome: strutture di peccato. E cioè quei meccanismi perversi che, messi in moto liberamente, dilagano come un cancro nel tessuto sociale, economico, politico e si vestono dell’apparenza dell’ovvietà, anzi della loro necessità per «salvare» l’uomo.

No. Occorre smascherare le strutture di peccato, per eliminarle e per dare spazio, al loro posto, a strutture di vita.

Né basta puntare il dito in alto o lontano. Occorre vedere anche quanto ciascuno di noi, nel suo piccolo, si compromette con queste strutture di peccato e non lavora in positivo per denunciarle e cambiarle.

 

b) Il giano bifronte della cultura individualista

C’è poi un secondo livello dove individuare le cause del malessere economico e socio-politico, ma anche esistenziale. È il livello etico-culturale.

Dobbiamo riconoscerlo, c’è una cultura – e cioè un modo di proporre e di vivere l’essere uomo –, c’è una concezione della morale, personale e pubblica, che è nata qui in Occidente e che è stata esportata in tutto il mondo.

Sono la cultura e la morale dell’individuo. Non dico che alla radice non vi fosse una spinta positiva: quella di mettere al giusto posto ogni persona come soggetto responsabile delle sue scelte. Ma in fin dei conti ciò che è stato prodotto è  l’individualismo in etica, l’utilitarismo liberista in economia, e l’asservimento a quest’ultima della politica.

Il risultato ce l’abbiamo oggi sotto gli occhi. Qual è il modello culturale di uomo e di donna che domina la scena? Una miscela contraddittoria di soggetto forte – l’uomo e la donna di successo, yuppie, superman e supergirl, rampante... – e di soggetto debole  – senza valori sicuri, concentrato solo sull’immediato, disilluso, scettico, fragile...

Specchio di questo giano bifronte – e maschera che nasconde questo vuoto di umanità – è il mondo del consumo che è sempre più tutt’uno con quello dei mass media.

Col pericolo che la debolezza culturale e morale divenga facile preda di un potere economico e politico forte.

 

c) Sconfitta di Dio o cammino di purificazione e di novità?

Ma Dio dove sta? Ecco il terzo livello.

Non voglio cadere nella banale considerazione: tutto è causato dal secolarismo, dall’aver messo tra parentesi Dio o dall’averLo ricacciato nell’iperuranio.

Ma certo – come c’insegna la Scrittura dal peccato originario della Genesi alla drammatica lotta cosmica dell’Apocalisse – se Mammona trionfa e l’essere umano sembra davvero «mezzo morto», è perché Dio sembra non aver più a che fare con ciò che riguarda in prima persona l’umanità, coi suoi problemi e le sue aspirazioni. Tanto che un noto saggista ha parlato di «sconfitta di Dio» (S. Quinzio).

Dal mio punto di vista mi limito invece a due piccole osservazioni.

Intanto, quella che Giovanni Paolo II ha definito una «notte oscura epocale e collettiva di Dio» che incombe sul nostro tempo e che ricorda – a livello di massa – ciò che un S. Giovanni della Croce ha vissuto a livello personale, non ci dice che abbiamo bisogno di un Dio che sia veramente Dio? Non che quello «di prima» – per dir così – non fosse Dio: ma la sua immagine era parlante per un altro tempo. Nuova evangelizzazione non vuol forse dire che occorre annunciare e testimoniare il volto nuovo del Dio di Gesù Cristo in modo nuovo per il nostro tempo?

D’altra parte, il teologo ortodosso O. Clément si domanda: «Come gli uomini nell’epoca moderna, con l’affermarsi dello spirito critico e della libertà, avrebbero potuto accettare un Dio che appare loro peggiore di loro stessi, o almeno inferiore alle più elevate esigenze della loro coscienza, segretamente fecondata dal vangelo?»2. E conclude: «forse l’ateismo contemporaneo, là dove non è ottusità ma ribellione purificatrice, potrebbe essere afferrato e trasformato in un cammino»3 verso la conoscenza, purificata, del vero volto di Dio.

È evidente che tutto ciò c’interpella decisamente come chiesa.

4. Le risorse

Passiamo così al terzo ed ultimo passo. Dai bisogni alle cause, alle risorse.

Chi è il samaritano? Come possiamo diventare come lui, dopo esserci riconosciuti tutti, almeno un po’, nei panni del malcapitato?

 

a) L’umanità, di tutti

La prima cosa da dire è che il samaritano, quasi come necessario preambolo, ci dice che non pagano né la rassegnazione – «è così, è sempre stato così, cosa possiamo fare noi per cambiare?» –; né tantomemo una sottile, e ben camuffata, forma di delirio di onnipotenza – «noi, adesso, come Chiesa, siamo chiamati a...» e poi giù giù una filastrocca di: «occorre, è urgente, è necessario, è indispensabile...».

Il samaritano è un eretico, un peccatore agli occhi dell’establishment politico-religioso cui Gesù si rivolge. Ma, in positivo, e a differenza dei blasonati e riconosciuti sacerdote e levita, «è un uomo che incontra un altro uomo» (G. Rossé).

Dunque, la prima risorsa è l’umanità, di ciascuno, nessuno escluso. Perché nell’umano, quando sa «vedere», «commuoversi», «avvicinarsi a», «prendersi cura di» – tutti atteggiamenti con cui Luca descrive il «farsi prossimo» del samaritano – si realizza l’immagine di Dio. Anzi è Dio stesso che così si fa prossimo.

Non è un caso che per dire lo sguardo di compassione del samaritano, Luca impieghi in greco lo stesso verbo – splanghízo – che nell’Antico Testamento dice il muoversi a misericordia delle viscere materne di JHWH per i deboli e i poveri, e, nel Nuovo Testamento, descrive Gesù quando vede la vedova madre del figlio morto (7, 13) ed è applicato al padre del figliol prodigo quando lo vede tornare da lontano (15, 12s).

L’occhio di Dio Padre è il cuore di Cristo che si commuove: è il cuore del samaritano, cioè di ogni uomo in cui Cristo vive quand’egli si muove a compassione. Che lo sappia o no.

Nella scena matteana del giudizio finale, la domanda che ingiusti e giusti insieme rivolgono al Figlio dell’uomo è la stessa: «Quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? ecc.».

Evidentemente, tra i giusti, qualcuno non lo sa perché ha seguito solo la legge inscritta nel suo cuore (cf Rm 2, 14-15), e qualcun altro – pur conoscendo la legge positiva di Dio compiuta in Cristo – ha agito non per paura o per dovere di legge, ma per puro e gratuito spirito di amore.

Ciò significa che possiamo e dobbiamo dialogare, collaborare, camminare con tutti. Questa è la prima risorsa.

 

b) La Chiesa, comunità dei salvati dall’amore

È anche vero però che come discepoli di Cristo Gesù, piccoli e indegni, siamo stati da Lui convocati come sua comunità, anzi come suo corpo, e cioè sua presenza nella storia.

E per questo dovremmo poter dire: «Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, (...) noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. (...) perché la vostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1, 1.3-4).

Noi siamo chiamati a essere vangelo della carità, perché l’abbiamo conosciuto e sperimentato in prima persona. Perché siamo dei salvati dall’amore.

Noi siamo passati dalla morte alla vita perché Dio ci ha amati per primo, venendoci vicino in Gesù, e perché – di conseguenza – noi abbiamo cominciato ad amare i fratelli (cf 1 Gv). Vedendoli così con l’occhio di Dio Padre che è il cuore di com-passione del Figlio fatto uomo e morto in croce per noi dopo averci raggiunti nella lontananza dell’abbandono: di tutti gli abbandoni, nostri e dei fratelli.

Di amore si muore – perché non c’è amore più grande e più vero del dare la vita per chi si ama; di essere amati si vive – perché è l’amore con cui Dio ci ha amati e ci ama che accende in noi, sempre di nuovo, la scintilla della Vita.

E poi l’amore di Dio in Cristo per noi è un amore che ci perdona, ci risana, ci fa rinascere. Senza questa rinascita dal peccato che è la conversione, non c’è esperienza di vita nuova, né possibilità di testimoniarla e di trasmetterla per rispondere ai bisogni più profondi e più veri dell’uomo di oggi.

«Che cosa è più facile – esclama Gesù – dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua» (Mc 2, 9-11).

Non è che, così facendo, Gesù strumentalizzi la guarigione fisica rispetto alla salvezza spirituale. Egli afferma piuttosto con forza che solo partendo dal cuore, dal rapporto con Dio, l’essere umano può integralmente e definitivamente essere salvato nella storia e per la vita eterna, non da solo ma coi fratelli.

 

c) Due strade maestre

Quali linee di prassi ne scaturiscono per noi come comunità? È l’ultimo punto che vorrei rapidamente almeno accennare.

Mi pare che la Parola di Dio ci indichi con forza e con semplicità due strade maestre.

La prima è quella che ci è descritta dagli Atti degli Apostoli. La riassumerei con uno slogan: dalla dispersione indifferente e conflittiva alla koinonia liberante.

In quanto designa l’essere «un cuor solo e un’anima sola» dei credenti,  la comunione con Dio e tra i fratelli di cui ci parlano gli Atti evidenzia la vita profonda della chiesa, l’effetto fondamentale provocato dal dono dello Spirito, al quale sono ordinati la vita di preghiera, l’ascolto della Parola, la celebrazione dell’Eucaristia, il ministero degli apostoli.

Ne consegue, come segno concreto, la comunione dei beni. Nel sommario del cap. 4, c’è una sottolineatura che rivela l’importanza che Luca (e la chiesa primitiva) annettono a questa prassi: «Nessuno tra loro era bisognoso perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (4, 34-35). È evidente il richiamo, anche letterale, al testo di Deuteronomio 15, 4, che fa riferimento alla vita degli israeliti dopo la liberazione dall’Egitto: «Non ci sarà alcun povero in mezzo a voi».

La comunità della Nuova Alleanza, rinnovata dallo Spirito che trasforma dall’interno i cuori, è lo spazio in cui agisce una socialità nuova (quella della comunità messianica iniziata attorno a Gesù), regolata dall’amore e dalla prassi concreta della condivisione. Il fatto che Luca sottolinei così fortemente questo aspetto, significa che la comunione nell’amore vissuta tra i cristiani deve di conseguenza manifestarsi a livello sociale in un nuovo tipo di relazioni che rifondano dalla radice persino la vita economica.

Dunque, quando si parla di comunione non si parla di un vago affetto spirituale e intimistico, ma di un’esperienza salvifica che tocca e trasforma dal di dentro le condizioni storiche della vita umana.

Da qui la seconda strada che ci è proposta dalla parabola del buon samaritano e che delinea le prospettive di una vera e propria conversione pastorale.

Ne formulerei il cuore in questo slogan: dal primato del fare le cose (anche di Dio!) al primato del farsi prossimo senza fretta e concretamente.

Il bisogno radicale di oggi è la relazione – quella di amore vero – con Dio e tra le persone.

Il teologo moralista A. Autiero parla della necessità del passaggio da un’etica (e da una prassi religiosa, dico io) fondata sui principi, a un’etica del «prendersi cura» dell’altro.

«Il divenire del soggetto è possibile – egli dice – solo in un clima di apertura relazionale. Questo implica l’accoglienza dell’altro come diverso da me (...) è l’ethos dell’agire solidale (...) noi produciamo cura della vita quando, mediante il prenderci cura della vita di un altro, scopriamo che la nostra vita si è trasformata»4.

L’essenziale non è fare le cose, neppure quelle di Dio: il sacerdote e il levita le fanno regolarmente e puntigliosamente... eppure! L’essenziale è prendersi cura dell’altro, come fa il samaritano:

– Mettendo al primo posto il rapporto, e cioè l’altro, e cioè, in definitiva, Gesù Cristo.

– Perdendo tempo (quanto tempo e denaro perde il samaritano!) senza fretta, posponendo i propri progetti fatti di cose da fare che c’impediscono di vedere, di muoverci a compassione, d’interrompere ciò che pensiamo e facciamo, di cambiare, ascoltando la voce dello Spirito.

– Superando la logica delle belle parole e delle buone intenzioni e amando l’altro concretamente e fino in fondo: fasciando le ferite, versandovi sopra olio e vino, facendolo salire sulla propria cavalcatura, trovandogli una casa, e provvedendo per il domani.

5. La «casa-che-tutti-accoglie»

Concludo. Questa parabola – è stato detto – mostra il messianismo di Gesù che Luca propone alla Chiesa5.

Non ha nulla a che fare con un sogno millenaristico, in cui l’umanità marcerà unita  verso Gerusalemme con un successo socio-politico-religioso di qualunque stampo, di destra, di sinistra o di centro.

Si tratta invece del cammino di chi si prende cura del fratello che soffre, e che sarà fino alla fine con noi, e gli offre un rifugio, una nuova vita.

A cavallo del suo giumento, il samaritano porta il malcapitato in un pan-docheîon, banalmente tradotto «albergo». Quanto più bella e simbolicamente allusiva della vera realtà della chiesa l’etimologia di questa parola: pan = tutto, déchomoi = accogliere amichevolmente!

Sospesa tra Gerico, dove il sacerdote e il levita hanno la loro dimora sicura e tranquilla, e Gerusalemme, prefigurazione della città celeste, c’è una «casa-che-tutti-accoglie».

Sta sulla strada dove imperversano i briganti. Ma in essa regna una legge nuova: quella della reciproca accoglienza, in cui non si sa più chi dona Cristo e chi lo riceve.

 

Piero Coda

 

1)   L. Ciotti, Nel margine al centro, in Il Regno – documenti, XL (1995), n. 19, p. 603.

2)   O. Clément, Alle fonti con i Padri, Città Nuova, Roma 1987, p. 26.

3)   Ibid., p. 30.

4)   La cura della vita, in Il Regno-documenti, cit., p. 618ss.

5)            Cf Una comunità legge il vangelo di Luca, II, EDB, 1988, p. 57.