Il Samaritano...
quale conversione?

Concludendo la nona sessione del Vaticano II, Paolo VI diceva: «L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio», aggiungendo che esso «non ha inteso altro che essere un pressante e amichevole invito all’umanità di oggi a ritrovare mediante la via dell’amore quel Dio dal Quale allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è vivere».

Sorprendente l’eco che queste parole hanno trovato in ciò che diceva già nel 1969 il famoso sociologo americano Talcott Parsons: ci troviamo «all’inizio di un ciclo importante dello sviluppo religioso umano», il cui «simbolo connettivo centrale» è «chiaramente l’amore»; per cui occorre essere aperti e disponibili per accogliere «il dominio dell’amore», che si estenderà «molto più in là di quanto finora abbiamo mai conosciuto».

Dal tempo del Concilio, sotto l’incalzare estremamente rapido della storia, molti sviluppi si sono verificati nel pensiero e nella prassi della comunità cristiana e si è posto in atto uno stile nuovo di evangelizzazione.

Sapendo, però, che «la Chiesa (...) santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza e il rinnovamento» (LG 8), possiamo fare un esame di coscienza, seguendo cinque piste che ci sembrano particolarmente attinenti alla situazione della società contemporanea.

Innanzitutto sul significato della conversione spirituale.

La nostra comune coscienza è divenuta veramente più sensibile ai segni dei tempi, ascoltando quello che lo Spirito dice alle nostre chiese? Siamo convinti che è inderogabile passare da una spiritualità tendenzialmente individualista e intimista a un’altra comunitaria, profetica, incarnata?

La seconda pista riguarda la conversione ecclesiale e pastorale.

All’interno della nostra comunità ecclesiale c’è l’apertura al mutuo ascolto, alla reciproca trasparenza, alla collaborazione convinta, al perdono che sa dimenticare l’offesa?

Nel campo pastorale, poi, dobbiamo chiederci due cose.

Amiamo la parrocchia, il gruppo, l’associazione altrui come la nostra? Siamo capaci di collaborare a progetti comuni di ampio respiro ecclesiale?

Diamo il primato al rapporto personale o all’attivismo? Siamo coscienti che l’attivismo non solo non ci rende prossimi agli altri, ma allontana sempre più da Dio sia noi che loro?

C’è poi una terza pista, quella della conversione culturale.

Abbiamo la capacità di star dentro il nostro tempo con realismo e con amore, ricordandoci che «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui» (Gv 3, 16)? Facciamo lo sforzo di cambiare le nostre categorie di comprensione culturale, perché esprimano meglio i valori evangelici e siano capaci di interpretare in modo più adeguato le istanze del nostro tempo?

Sappiamo offrire al mondo contemporaneo idee-forza comprensibili e vivibili? Oppure per pigrizia mentale catturiamo il messaggio e la vita di Gesù entro categorie cui ci siamo abituati, senza lasciarci rinnovare continuamente dalla voce dello Spirito che ci richiama, per esempio, all’apertura al diverso, alla centralità della relazione, al dialogo, al respiro universale?

Non possiamo poi dimenticare la pista della conversione sociale.

Abbiamo un’attenzione diretta e personalizzata, a livello personale e di comunità, ai malcapitati della nostra società?

Esercitiamo creatività nel suscitare, far conoscere e promuovere le esperienze di laboratorio in cui si esprime il farsi prossimo? Per esempio, appoggiamo e facciamo conoscere i centri di accoglienza, le imprese non-profit, le forme di economia cooperativistica, relazionale, di comunione? Promuoviamo il senso di partecipazione e di responsabilità nell’abitare e nel gestire il territorio?

Mettiamo in atto anche una capacità progettuale e di intervento a livello di strutture e di programmazione sociale, politica, economica, in modo da far sì che la carità non sia solo «infermeria» della storia, ma «costruttrice» della medesima? Cosa facciamo per operare un cambiamento delle strutture ingiuste che opprimono tanta parte del mondo?

Infine consideriamo anche la pista importantissima della conversione politica, rivolgendoci non solo ai cristiani direttamente impegnati in questo campo, ma anche a tutti quelli che col proprio voto li hanno scelti.

Dato per acquisito il legittimo pluralismo delle opzioni, siamo coscienti che è anti-cristiano uno stile di conflittualità che non sia dialettica democratica tendente al bene comune? Sappiamo rispettare ed accogliere tutti i valori positivi di cui sono portatori coloro che la pensano diversamente da noi?

Cosa facciamo perché i nostri politici nel proporre le leggi si ispirino al vangelo e utilizzino per questo scopo le indicazioni della dottrina sociale cristiana?

Mentre queste pagine vanno alle stampe, il Pontificio Consiglio «cor unum»  pubblica un interessante documento: «La fame nel mondo, una sfida per tutti – lo sviluppo solidale». Il contenuto di questo numero vuole essere appunto uno stimolo per una coscienza sociale evangelicamente aperta alla solidarietà.

 

a cura della redazione