Flash di vita

Una visita inattesa

Don Michele Costa, della diocesi di Chiavari presso Genova, responsabile di due parrocchie, ci racconta l’avventura della sua malattia, che ha coinvolto molte persone in una gara d’amore.

Commentando la Parola di vita dello scorso dicembre: «Vegliate, perché, non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà» (Mt 24, 42), avevo detto: «Noi facciamo i nostri programmi. Poi c’è l’imprevisto: è Dio che viene a visitarci cambiando, a volte radicalmente, i nostri progetti».

Già al risveglio del giorno seguente, 3 dicembre, mi sono accorto di essere stato preso in parola, perché sentivo cadere il braccio destro e in seguito anche una gamba: era una paresi causata da un male ancora ignoto.

In ospedale, dopo gli opportuni accertamenti, don Mario Moltedo con molta delicatezza mi dice: «Non sappiamo ancora tutto, ma la tua malattia è grave: può essere un ascesso o un tumore al cervello»; e, stringendomi la mano, aggiunse: «Teniamo Gesù in mezzo a noi!».

Piansi abbondanti lacrime non di ribellione, né di disperazione: sentivo che l’amore di Dio mi prendeva con forza e mi costringeva a passare per una porta stretta. Avvertivo l’inizio di qualcosa che avrebbe segnato profondamente la mia vita. Pur sapendo che era una prova dell’amore di Dio, egli taceva.

L’incertezza del futuro e il non sapere la natura reale del male creavano in me una sospensione che mi inchiodavano alla croce ma, guardando il crocifisso appeso alla parete della camera dell’ospedale, capivo il senso del mio star male. Dentro una voce mi diceva: «Seguimi su questa via del dolore, perché questa malattia è per la gloria del Padre». Non avevo, però, la pace interiore, nonostante cercassi di portare con fede la mia croce, mi fossi confessato e facessi la comunione tutti i giorni.

Affioravano davanti a me tante cose non perdonate bene, rivalse insignificanti, piccole avversioni non consumate nell’amore, rapporti interrotti e non ancora ripresi... Qualcuno voleva togliermi la pace e mi ripeteva: «Vedi che hai fatto in passato? Ed ora chi credi di essere?» Capivo che dovevo consumare tutto questo nel pieno perdono.

Per un giorno ho atteso il sacerdote per consegnare a Gesù tra noi la mia anima. Per grazia sua tutto il negativo è sparito come per incanto ed ho sperimentato che sul nostro nulla egli può chiedere tutto quello che vuole. Da questo momento l’amore di Dio avvolgeva la mia vita: non ero più capace di conservare minimi risentimenti e riuscivo ad essere per tutti misericordia. Spariva pure ogni giudizio: i possibili nemici erano diventati tutti amici.

Ogni giorno, recitando il Padre nostro, alle parole «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», chiedevo al Padre: «Dammi oggi il mio dolore da portare con Gesù». E ogni giorno arrivava questo pane che, per sua grazia, potevo masticare con serenità.

Le continue visite che ricevevo e il clima fraterno che le permeava hanno fatto una grande impressione negli altri ammalati. Un mio vicino di letto ha chiesto di confessarsi e fare la comunione dopo moltissimi anni ed ha poi continuato a farla tutti i giorni, lodando Dio ad alta voce. Una sera mi ha chiamato vicino al suo letto e mi ha detto stringendomi la mano: «Io e te siamo fratelli!». Ed a qualcuno confidava: «La cosa più bella che ho avuto all’ospedale è stata l’aver conosciuto il vostro parroco!».

Un medico aveva usato parole un po’ forti per convincermi a firmare l’autorizzazione all’intervento e se n’era andato senza salutarmi. Avevo cercato di non giudicarlo e di volergli bene. Un’ora dopo è ritornato e, abbracciandomi, ha chiesto scusa.

Intanto la vita nelle due parrocchie non solo non si è fermata. Per oltre due mesi i laici hanno portato avanti con serietà e responsabilità tutti gli impegni pastorali delle due chiese per quanto riguarda la catechesi, la liturgia e l’amministrazione. I missionari della Consolata andavano solo per la celebrazione delle messe e l’amministrazione dei sacramenti. Da parte mia, perché non ci fossero ostacoli alla grazia, ho fatto tutti i passi necessari per una conversione completa e, per dono di Dio, si è ristabilita l’armonia tra me ed alcuni parrocchiani e poi tra loro.

Per le feste natalizie ho inviato un messaggio da leggere in chiesa: «Il Natale è l’occasione per tenderci la mano e stringerla forte e a lungo, per far passare tutte quelle effusioni di grazie che vanno dagli auguri al perdono e all’abbraccio!».

Ora ero pronto a tutto, anche a morire, e avvertivo che, se fossi guarito, dovevo fare della mia vita un dono. Mi sentivo staccato da tutto: da me stesso, dalle parrocchie, dagli amici... Dicevo: «Non voglio attaccarmi più a niente, ma essere libero da tutto e da tutti per possedere solo Dio».

Sapevo che tanti pregavano e si interessavano concretamente della mia persona in diocesi, in parrocchia, in famiglia e nel Movimento dei focolari, la mia famiglia spirituale, e spontaneamente mi chiedevo: «Perché, Gesù, tante attenzioni?».

Allora mi è venuto in mente quel brano del Vangelo in cui Maria versa un prezioso profumo sui piedi del maestro. Anche ora egli permette che la mia malattia si riempia di un profumo tutto particolare e si spendano tanti soldi per cercare di guarirmi. Ma se lui tra noi lo vuole, lo voglio anch’io.

In unità si è deciso cosa fare, dove andare per un consulto e dove eventualmente operarmi. Mi sono lasciato guidare, perché vedevo che la mia vita era un valore per loro, per la mia famiglia naturale, per la parrocchia, per la diocesi e per gli amici. Tutti si occupavano della mia malattia con la stessa attenzione con cui si trattano le cose di Dio. Stupende in quei giorni sono state le esperienze di comunione coi fratelli con cui condivido l’ideale dell’unità e spesso mi veniva spontaneo cantare, come Maria, le meraviglie che Dio andava operando.

Anche nel Presbiterio diocesano la mia repentina malattia ha fatto riflettere molto. Tantissimi sacerdoti sono venuti a farmi visita. Essi poi, tornati alle loro parrocchie o comunità religiose, hanno chiesto preghiere. Una domenica una cinquantina di persone, soprattutto giovani, sono andati in pellegrinaggio a Montallegro per chiedere alla Madonna la salute del loro parroco. Qualcuno mi ha riferito: «Tutta la diocesi prega per te». Alcuni sacerdoti mi hanno detto che nel presbiterio diocesano non si era mai sentita una fraternità così viva.

Il vescovo, pur non conoscendomi bene perché in diocesi da poco, è venuto a trovarmi quattro volte e, dopo una profonda comunione d’anima, mi ha chiesto preghiere per alcune sue particolari intenzioni. Gli ho risposto: «Non posso non inserire le sue richieste in questo pezzo di Cielo che si è aperto sopra di me in questi giorni». Ero sicuro che Dio mi avrebbe ascoltato.

Poi si è deciso il mio trasferimento in un ospedale francese. Ho creduto ancora all’amore dei fratelli ed ho affrontato con pace il lungo viaggio di una notte intera. Il freddo, la nebbia, il mal di testa, tutto sembrava essere contrario. Ed invece no: mercoledì 20 dicembre dopo quattro ore di anestesia mi sveglio e sono guarito. Il medico durante la biopsia, vista la natura del male (un ascesso), ha programmato la pulizia totale tramite aspirazione con siringa ed ha iniziato la terapia degli antibiotici per eliminare completamente l’infiammazione.

L’amore di Dio mi avvolgeva e mi dava il centuplo. Spontaneamente ho pregato tutto il giorno cantando a Dio la mia gratitudine. Nascevo una seconda volta! Spenderò il resto della mia vita per dire a tutti che Dio ama immensamente ciascuno di noi in tutte le circostanze, anche in quelle più dolorose ed apparentemente incomprensibili.

M. C.

Collegialità anche operativa

Due vescovi brasiliani, mons Alberto Taveira Correa, ausiliare di Brasilia, e mons. Washington Cruz, titolare della diocesi di Sâo Luis de Montes Belos, ci raccontano come hanno vissuto due avvenimenti che hanno coinvolto tutti i vescovi della loro regione ecclesiastica.

Alberto – Inaspettatamente, pur essendo ambedue giovani e vescovi da pochi anni, siamo stati scelti come coordinatori della nostra regione ecclesiastica che comprende 23 diocesi in un territorio molto esteso e una popolazione in continua espansione. Da poco è stato creato un nuovo Stato, Tocantins, ed una nuova capitale, Palmas.

Dopo un primo momento di sorpresa e di paura ci siamo trovati insieme ed abbiamo pensato che, se i fratelli ci chiedevano questo lavoro, Dio ci avrebbe anche aiutato a farlo bene e che il nostro principale scopo doveva essere di metterci al servizio degli altri vescovi e di aiutarci a far crescere tra tutti noi la comunione. Ben presto abbiamo constatato con gioia che era proprio questo il desiderio più profondo che lo Spirito alimentava nel cuore di ogni vescovo.

Una missione popolare

Washington – Abbiamo visto in questa circostanza un’occasione provvidenziale per vivere concretamente «la sollecitudine» per tutte le nostre chiese ed anche per mettere a frutto l’esperienza di comunione fraterna che noi avevamo avuto la fortuna di fare quando ancora non eravamo vescovi. In un certo senso avevamo già una certa cultura della vita d’unità.

Alberto – La prima occasione che si è presentata è stata la richiesta di fare insieme una missione popolare nella capitale del nuovo Stato di Tocantins, venendo incontro al vescovo del posto. Un’esperienza inusuale. Per dieci giorni ci siamo ritrovati in dodici vescovi insieme a sacerdoti diocesani e religiosi, suore e operatori laici, in tutto 80 missionari. Prima fra noi vescovi e poi con tutti gli altri missionari ci siamo messi d’accordo di presentarci al popolo non tanto per fare prediche, ma per dare l’esempio di una convivenza fraterna tra noi.

Nella nostra regione la grande diversità esistente tra i vescovi per mentalità e per età potrebbe creare distanze, contraddizioni, difficoltà di rapporti. Durante la missione abbiamo sperimentato che la diversità può diventare un dono da mettere in comune per arricchire la vita della chiesa e facilitare l’annunzio del vangelo.

Washington – Dopo la missione c’è stato il consiglio permanente della conferenza episcopale nazionale e i vescovi delle altre regioni, sapendo della nostra esperienza, hanno espresso il loro apprezzamento non solo per il lavoro svolto, ma soprattutto per la comunione vissuta tra noi.

La visita «ad limina»

Dopo questa esperienza abbiamo cominciato a preparare la visita «ad limina» dei vescovi della nostra regione. Abbiamo scritto ad ogni vescovo perché desse il suo parere e ci mandasse i suoi suggerimenti per una buona riuscita. Poi abbiamo preparato una breve lettera pastorale, sottoscritta da tutti loro, e diretta ai sacerdoti, alle comunità religiose e a tutto il popolo, spiegando il senso ecclesiale della nostra visita a Roma, dove volevamo portare tutti loro in un abbraccio di profonda comunione con Pietro e la chiesa universale. La lettera scritta in forma molto accessibile è stata particolarmente gradita ed ha raggiunto lo scopo. Potevamo partire per Roma portando con noi l’unità di tutti.

Alberto – Arrivati qui a Roma abbiamo diviso le incombenze in modo che ogni vescovo potesse mettersi al servizio di tutti gli altri. C’era chi curava la liturgia, chi le spese, chi la salute, chi i vari incontri. Potevamo vivere la giornata sempre insieme, affrontando ogni problema con la collaborazione e l’aiuto di ognuno: una vera esperienza di comunione dalle cose più alte alle più semplici.

Per continuare a coinvolgere le nostre diocesi abbiamo inviato loro ogni giorno un notiziario per fax. Ben 14 radio diffondevano quotidianamente questo piccolo bollettino di notizie nella regione. Tutti accompagnavano i nostri incontri col papa e con le varie congregazioni romane con la loro preghiera. Abbiamo anche chiesto ed ottenuto di celebrare una messa alla radio vaticana, trasmessa nella rete-radio della regione e in quella ad onde corte. Praticamente si copriva tutto il Brasile. Gli echi che abbiamo ricevuto erano di una partecipazione viva.

La «visita» ad limina è diventata non un affare personale del singolo vescovo, ma un avvenimento ecclesiale, al quale tutte le nostre comunità hanno preso parte attiva.

Washington – Ogni sera preparavamo insieme questo fax e lo mandavamo anche a quei pochi vescovi che non erano potuti venire ed anche ai vescovi emeriti, affinché tutti fossero aggiornati e potessero dare almeno il loro contributo di preghiera.

Alberto – Il rettore del Collegio Brasiliano di Roma, dove abitavamo, ha detto che tutte le visite dei brasiliani sono ben organizzate, ma la nostra aveva dato una testimonianza speciale per l’unità che si notava tra noi vescovi pur tanto diversi.

Certamente abbiamo ancora un lungo cammino da fare, ma stiamo toccando con mano che quando Gesù è presente tra noi attraverso l’unità fraterna, possiamo affrontare con serenità e con una luce nuova tutte le sfide pastorali della nostra regione così vasta e diversificata.

 


A. T. e W. C.