Una pastorale comunionale messa alla prova in un ambiente sociale particolarmente difficile

 

Dare un’anima al piano pastorale

di José Palmeira Lessa

 

Trascriviamo questa conversazione raccolta dalla viva voce di un vescovo latinoamericano, poiché ci è sembrata significativa anche per coloro che svolgono il loro ministero in circostanze e latitudini diverse. Abbiamo rispettato lo stile parlato per salvare la spontaneità e l’incisività dei concetti espressi.

Una situazione difficile...

La prima diocesi dove mi sono preparato al sacerdozio ed ho svolto il ministero è stata Rio de Janeiro. Lì ho fatto gli studi in seminario, sono diventato parroco, vicario episcopale, e per cinque anni e mezzo ho lavorato come vescovo ausiliare. Poi sono stato inviato al Nordest del Brasile nella diocesi di Propriá con un territorio di più di 8.000 kmq e una popolazione, ufficialmente di 250.000 abitanti, ma forse sono molto di più, perché tantissime persone non sono iscritte all’anagrafe. Quando sono arrivato i sacerdoti erano appena otto, tra diocesani e religiosi, di cui uno di 78 anni ed un altro di 80; poco tempo dopo ne moriva uno di 53.

È una diocesi molto difficile, la cui popolazione è travagliata da grossi problemi sociali: ingiusta distribuzione della terra, malattie endemiche e strutture sanitarie inadeguate; 70% di analfabeti; circa 45% di disoccupati. Gran parte del territorio appartiene al cosiddetto «poligono della siccità». Al mio arrivo non pioveva da parecchi mesi e per quattro anni consecutivi non abbiamo visto la pioggia.

...fino all’esasperazione

Di fronte alla gravità di tanti problemi e non trovando un impegno adeguato da parte del governo, l’impegno dei cristiani in campo sociale aveva suscitato delle tensioni.

Alla richiesta se volevo andare in quella diocesi ho risposto che l’avrei fatto confidando in Dio. Prima di partire ho trascorso alcuni giorni con altri vescovi con i quali condivido la spiritualità dell’unità. Desideravo impegnarmi in questo nuovo compito non come un eroe solitario, ma come un fratello sostenuto da altri fratelli. Ho continuato a trovarmi con loro una volta al mese e questo mi ha aiutato a conservare l’equilibrio e a trovare la luce necessaria per prendere decisioni sensate nei momenti difficili. L’unità fa ‘miracoli’, non perché dia magicamente soluzioni belle e fatte per ogni problema, ma perché dà la forza di rimanere in Dio per essere strumenti nelle sue mani.

Con loro ho preparato il discorso di ingresso, mettendo a fuoco ogni parola perché fosse espressione dell’amore di Dio per l’umanità concreta che avrei incontrato. Non volevo portare ai diocesani un piano pastorale preconfezionato, ma uno stile evangelico di vita per poi preparare insieme un programma aderente ai loro bisogni.

I primi passi

Ben presto mi sono accorto che in diocesi un gruppo esercitava un forte controllo su tutti gli altri, compreso il vescovo. Nei primi sei mesi non sapevo cosa succedesse, ad esempio, nell’economia: se c’erano dei soldi, se arrivavano o mancavano; addirittura nessuno mi ha domandato se avevo bisogno di qualcosa. Capivo allora che la croce per me non poteva rimanere un semplice ornamento da portare sul petto, ma doveva diventare ogni giorno una scelta di vita.

Ricordo un episodio di quei primi tempi. Poiché due raduni diocesani si sovrapponevano, mi ero messo d’accordo con il vicario generale: io avrei assunto il primo ed egli il secondo. Quando stavo per incominciare col mio gruppo, egli mi telefonò e mi disse di andare subito da loro. Senza perdere la calma, gli assicurai che, appena finita la prima riunione, sarei andato. Arrivai dopo un’ora.

Era un incontro dei coordinatori della pastorale di tutta la diocesi. Trovai dei volti scuri e un clima pesante. Ricordo che mi dissi: «Qui devo amare Gesù in ognuno, anche se mi mettono in croce». Mi venne spontaneo conservare un atteggiamento disteso e mettermi a loro disposizione, affinché si sentissero liberi di dirmi qualsiasi cosa.

Un sacerdote iniziò con forza: «Vogliamo sapere che tipo di chiesa lei vuole costruire in questa diocesi». E poi altre domande, come ad esempio, perché i nostri seminaristi dovevano studiare in una diocesi vicina tanto conservatrice. Era strano che egli mi chiedesse questo, perché avevo già parlato con lui ed avevamo concordato di iniziare presto in diocesi una casa di formazione per i seminaristi.

Non dovevo meravigliarmi più di tanto, perché da noi è frequente questo metodo dialettico e conflittuale. Lo si fa in buona fede per mettere l’altro di fronte a fatti compiuti o per anticipare gli eventi, evitando che prenda dei provvedimenti antipopolari o preconciliari.

Dopo aver risposto con calma a tutte le loro domande, si sono resi conto che il vescovo non voleva frenare il cammino della chiesa, ma solo farlo in un clima di comunione. Alla fine si respirava un’altra aria e le facce erano sorridenti. Mi accorgevo che alcuni si rammaricavano dell’atteggiamento preso in precedenza. Una persona, prima tanto  aggressiva ma sincera, si è avvicinata ed ha parlato con serenità. Pochi giorni dopo dovevo partire per l’estero e parecchi coordinatori sono venuti spontaneamente a salutarmi per augurarmi buon viaggio e assicurarmi che erano con me.

Un altro metodo utilizzato sistematicamente consisteva nella denuncia esplicita di persone (proprietari terrieri, politici, funzionari) attraverso dichiarazioni, articoli, e spesso lo si faceva con coraggio profetico, ma con parole a volte molto dure e offensive. Un giorno una persona è venuta a mostrarmi una dichiarazione da rendere pubblica riguardante la distribuzione della terra. Avrebbe suscitato un putiferio e non so con quali vantaggi, molto probabilmente avrebbe pregiudicato la causa stessa dei poveri. Allora le ho detto: «Se chiedi un mio parere, io alcune cose le direi un po’ diversamente». Ed abbiamo letto frase per frase la dichiarazione, facendo delle correzioni. Alla fine era contenta, e da quel giorno è nato tra noi un rapporto di fiducia. Oggi lei non è più fra noi perché è stata trasferita ad un’altra diocesi, ma fino alla fine il dialogo è stato sincero e fraterno.

Verso una pastorale di comunione

Prima che arrivassi a Propriá, alcuni sacerdoti si preoccupavano perché provenivo da una diocesi che porta avanti una linea pastorale un po’ diversa e perché vivevo la spiritualità del Movimento dei focolari.

Alcuni, venuti a trovarmi per la prima volta, chiedevano molto chiaramente che nessun movimento ecclesiale fosse ammesso in diocesi, anzi volevano che facessi sparire al più presto un primo virgulto del movimento carismatico. Avevano le loro ragioni, ma il rimedio suggerito era troppo radicale. Ho spiegato che non potevo accontentarli perché, come vescovo, dovevo ascoltare tutti, discernere i carismi, valorizzarli, eventualmente aiutarli a maturare, armonizzarli fra loro e con la pastorale diocesana, ma in nessun modo schiacciarli o rifiutarli per principio. Oggi ci sono varie persone appartenenti ai movimenti ecclesiali, con buoni frutti per loro e per la diocesi.

Quattro volte l’anno tutti i laici impegnati – quelli dei movimenti e quelli di tutte le aree pastorali: della terra, dei bambini di strada, della catechesi a tutti i livelli, e via dicendo – si radunano per tre-quattro giorni con il sacerdote coordinatore della pastorale. Sono incontri molto importanti per la formazione e per portare avanti in modo unitario l’evangelizzazione nella diocesi. Vado sempre da loro per incoraggiarli, confermare le linee intraprese, ascoltare ogni settore e decidere insieme il da farsi.

Un altro aspetto che si è sviluppato molto è quello delle vocazioni alla vita consacrata e al ministero presbiterale. C’erano pochissime suore in diocesi; ora ci sono una decina di comunità religiose ed un monastero contemplativo di carmelitane. E tutte le comunità hanno vocazioni. Lo stesso Carmelo in tre anni ha avuto due novizie, quattro postulanti e diverse altre ragazze sono in attesa di poter entrare.

Qualcosa di simile è successo con le vocazioni al sacerdozio. Durante i primi 27 anni di esistenza della diocesi erano stati ordinati tre sacerdoti; in questi ultimi sette anni e mezzo, ne ho ordinati 16. Non è merito del vescovo, ma della vita di una diocesi che cerca di camminare a corpo.

È pure cresciuto il senso della missionarietà. Abbiamo fatto i calcoli che ci vorrebbe una quarantina di sacerdoti per sopperire alle necessità diocesane più essenziali. Ciò nonostante ci siamo proposti di «dare dalla nostra povertà», come affermarono i vescovi latinoamericani a Puebla, e abbiamo già donato il primo sacerdote a una diocesi più bisognosa della nostra.

Provvidenza economica

Il vescovo precedente, essendo un religioso, riceveva aiuti dall’estero, mentre io non avevo questa risorsa. La diocesi era così povera che non potevamo nemmeno pagare la retta mensile di un solo seminarista. Come fare?

Quando venivo in Europa, lottavo dentro di me per morire al desiderio di chiedere denaro. Mi sono imposto come norma queste parole di Gesù: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6, 33). Dove mi chiamavano, raccontavo l’esperienza di vita evangelica che cerchiamo di portare avanti in diocesi. E devo dire, a gloria di Dio, che in molti luoghi è nata tanta vita nelle persone che ascoltavano. Abbiamo fatto persino un «gemellaggio» con una diocesi del sud del Brasile, povera come la nostra. Io sono andato da loro e da lì sono venuti a visitarci alcuni sacerdoti e laici e lo stesso vescovo, che si è fermato da me dieci giorni ed è rimasto contento.

Contemporaneamente è arrivato quel minimo necessario per pagare il seminario, avere qualche impiegato, portare avanti alcune attività diocesane.

Comunione anche interdiocesana

Un’altra cosa che abbiamo cercato di costruire è la comunione con le diocesi vicine. La nostra Provincia ecclesiastica, che coincide con lo Stato del Sergipe, è di 24.000 kmq. La mia diocesi ha il territorio più grande, ma la capitale è più importante, con molte più persone preparate. Capimmo che dovevamo camminare un po’ più insieme.

Abbiamo cercato di vivere un rapporto fraterno con i vescovi e i sacerdoti delle tre diocesi confinanti con cui formiamo una «sottoregione». Abbiamo individuato una prima priorità pastorale: nella formazione dei preti e dei laici. Abbiamo fatto il primo corso per la formazione permanente del clero due anni fa. Sono venuti tutti quelli della mia diocesi, metà di un’altra diocesi, ma dalla capitale è venuto un solo sacerdote. Non ci siamo scoraggiati.

L’anno seguente sono venuti quasi tutti i sacerdoti anche dell’altra diocesi e dalla capitale sono venuti in quindici. Ora vi partecipa quasi il novanta per cento del clero delle tre diocesi.

Sono corsi non solo teologici, ma anche pastorali e di spiritualità. Lo stesso avviene con i ritiri del clero. Stiamo portando avanti insieme anche le aree pastorali fondamentali: comunità di base, catechesi, pastorale della gioventù, della famiglia e vocazionale.

Mentre la diocesi si è ormai incamminata su questa strada comunionale, abbiamo dovuto far fronte a gravi emergenze di carattere sociale per impedire che il latifondo continui a gettare nella miseria i più poveri. Ci siamo esposti fino a rischiare la vita fisica ed io stesso sono stato portato in tribunale.

È stato un momento difficile, ma molto importante, perché abbiamo ricevuto la solidarietà di tutta la conferenza episcopale del Paese e il problema è stato portato a conoscenza di tutti attraverso i mass media. Almeno per ora abbiamo salvato la sopravvivenza di un gruppo di famiglie di contadini ed abbiamo posto un precedente. I poveri non solo hanno preso coscienza dei loro diritti, ma hanno potuto anche difenderli, facendo sentire la propria voce senza violenza e senza odio.

Anche se il cammino è ancora, ovviamente, lastricato di molte difficoltà, abbiamo constatato che questo modo comunionale di agire porta frutti concreti e riaccende nei poveri la speranza.

José Palmeira Lessa