Dal Burundi: dare la vita per l’unità

Testimoni dell’amore

a cura della redazione

 

 

Abbiamo intervistato Sylvestre Hakizimana e Jean Louis Nahimana, due sacerdoti burundesi di passaggio qui da noi. Mentre la nostra rivista sta andando in stampa, ci giunge notizia che Sylvestre è stato violentemente ucciso. Prima di ripartire per la sua terra ci aveva detto: «Lo so che posso morire da un momento all’altro... Questo non mi impedisce di essere testimone dell’amore di Dio». I martiri dei primi secoli sacrificarono la loro vita per affermare la verità del cristianesimo; i martiri del nostro tempo lo fanno con lo stesso coraggio per affermare che, solo incarnando il comandamento nuovo, ci sarà pace nel mondo.


La situazione sociale

GEN’S: Descriveteci innanzitutto con qualche pennellata la vostra terra, per situare meglio la vostra esperienza.

Sylvestre: Il Burundi è un Paese che si trova nel cuore dell’Africa ed ha un po’ la forma di un cuore. I Paesi confinanti sono Ruanda al nord, Zaire all’ovest e la Tanzania all’est e al sud. La sua capitale Bujumbura è situata sul lago Tanganica. È  piccolo (circa 28.000 Kmq) ma densamente popolato, con cinque milioni e mezzo d’abitanti che vivono prevalentemente dell’agricoltura tradizionale.

Da un punto di vista religioso, più dell’85% dei burundesi appartengono alla religione cristiana. I battezzati cattolici raggiungono il 65% della popolazione. Però quest’adesione di massa alla chiesa cattolica non è andata di pari passo con l’approfondimento della fede cristiana, che è rimasta piuttosto superficiale. Ciò spiega le divisioni etniche che fanno ancora tante vittime innocenti. Il rispetto dei comandamenti di Dio, della vita, del prossimo, l’amore cristiano insomma, non è entrato in profondità nella nostra gente.

Al contrario il legame etnico, la ricerca egoista di ricchezze attraverso l’esercizio del potere, la mancanza di rispetto del bene comune, la diffidenza reciproca fra le etnie, sono all’origine delle sofferenze del Burundi. Il demone dell’odio fa stragi nei cuori.

I vescovi cattolici continuano a lanciare  appelli a tutti i cristiani perché si ravvedano, ma sembrano gridare nel deserto poiché le uccisioni proseguono.

Perciò i vescovi contano tanto sull’Azione Cattolica, sui movimenti di spiritualità, ed anche sul carisma del Movimento dei focolari, dove la Parola vissuta fa sì che membri di differenti etnie si trovino tra loro per condividere esperienze spirituali, per aiutarsi reciprocamente, arrivando a mettere in comune anche i beni materiali.

Una luce di speranza

GEN’S: Come avete conosciuto la spiritualità del Movimento dei focolari?

Jean Louis: Conosco l’ideale dell’unità da 21 anni, quando avevo appena 10 anni. Vedevo le mie sorelle più grandi andare nelle vacanze alla Mariapoli. Al loro ritorno m’insegnavano i canti che avevano imparato, e ciò mi piaceva molto. Con gli altri membri del Movimento loro organizzavano delle azioni sociali ed io mi ci univo volentieri. Tutto ciò ha suscitato in me la curiosità di approfondire la vita del Movimento.

Infatti, nella scuola secondaria ricevevo i commenti che Chiara Lubich scriveva ogni mese su un brano del Vangelo da tradurre in vita, e mi trovavo regolarmente con altri amici per condividerne le esperienze. Inoltre ogni estate prendevo parte anch’io alle Mariapoli che si facevano nel seminario maggiore di Bujumbura.

Nel 1982 per la prima volta ho assistito ad una «scuola di vita» dei gen, di diversi giorni, organizzata dal focolare e animata da un prete focolarino. È stata non solo una tappa decisiva per aderire al Movimento, ma ha  anche suscitato in me la vocazione sacerdotale.

Devo però ricordare che per me il cammino è stato lento e difficile. C’è un adagio burundese che dice: «Il rospo vive nell’acqua, però ciò non gli impedisce di rimanere sporco». Fortunatamente ad un certo punto, a contatto con il focolare, mi sono accorto che credevo di aver conosciuto l’ideale che loro vivevano e presentavano, ma ho capito che ne ero ben lontano. Ancora oggi continuo a scoprire tante cose. Più si va avanti e più quest’ideale evangelico brilla come il sole.

Un comportamento singolare

Sylvestre: I conflitti etnici del 1972 mi avevano rivelato, per la prima volta, la malvagità e la crudeltà umane. Non credevo più alla fraternità, né all’amore, né alla verità. Ogni buona parola era per me soltanto menzogna ed ipocrisia. Perciò quando nel 1974 entrai nel seminario maggiore di Bujumbura, quel trauma terribile che mi portavo dentro ha fatto sì che la mia preoccupazione non fosse tanto di farmi prete quanto di imparare a mentire senza che la vergogna mi si vedesse in volto.

Dopo qualche settimana in seminario, sono stato colpito da un gruppo di seminaristi che avevano un comportamento particolare. Mentre il clima generale si caratterizzava per l’indifferenza, loro invece, mi sorprendevano per la capacità di accogliere e ascoltare. Inoltre osservavo che fra loro si aiutavano e si parlavano senza diffidenza, nonostante provenissero da etnie diverse.

Rivolgendomi ad uno di loro ho saputo che vivevano la spiritualità del Movimento dei focolari. La parola «movimento» mi provocava ripulsa e c’è voluto del tempo prima che partecipassi alla loro vita. Un giorno mi hanno invitato ad un incontro di persone di tutte le categorie sociali. Ascoltando le esperienze che narravano e vedendo il clima d’unità che si percepiva e la qualità dell’ascolto, ho avvertito che lì c’era qualcosa di grande. Poco a poco Dio mi ha lavorato ed ho capito la mia vocazione: vivere per quest’ideale d’amore e d’unità ed esserne testimone, attraverso una vita interamente donata a Dio e a servizio di tutti i miei fratelli.

Luce anche nella tragedia

GEN’S: Che cosa ha significato in seguito per voi un tale stile di vita?

Jean Louis: Molte cose. Ad esempio mi ha aiutato a scoprire l’amore di Dio attraverso gli avvenimenti tragici che hanno sconvolto il mio Paese. Vi racconto soltanto un fatto molto importante per me.

Io sono nato in Francia perché mio padre stava facendo là i suoi studi di medicina. Appena rientrato nel Burundi è sparito tragicamente travolto dalla corrente dell’odio e della violenza etnica.

Avevo allora cinque anni e sono rimasto con la mamma, che non aveva lavoro, ed altre cinque sorelle e due fratelli. Non avevamo casa, né conto in banca; la nostra sorte era nelle mani di Dio. Un anno dopo mia madre ha avuto un grave incidente stradale che l’ha inchiodata su un letto d’ospedale per sei mesi.

L’unico nostro aiuto era la preghiera e la fiducia nella Provvidenza. La mano di Dio non ha tardato a farsi sentire. Gli amici di mio padre sono stati molto toccati da tutto ciò che c’era successo. Con il loro sostegno abbiamo potuto sopravvivere, frequentare regolarmente la scuola e tutti abbiamo finito l’università: due di noi sono medici, e gli altri licenziati in vari campi.

La spiritualità che avevo trovato mi aveva aiutato a capire che tutto passa e solo l’amore resta. Se io avessi fatto affidamento sulla carriera brillante di mio padre, sarei presto caduto nella disperazione. L’ideale dell’unità mi ha fatto scoprire che dovevo attaccarmi a Gesù abbandonato, sorgente della vita e della verità. Gesù in mezzo a noi è stato per me e per la mia famiglia la forza per vivere e la fonte della gioia.

Non ho mai sofferto l’assenza di mio padre grazie a questa coscienza dell’amore di Dio. Ed ho sentito che Lui mi chiamava a testimoniare il suo amore agli altri ed a fare di esso la mia divisa: «Da questo vi riconosceranno...» (Gv 13, 35).

Un ministero rinnovato

GEN’S: Quale influsso ha avuto questa vita nel vostro ministero sacerdotale?

Jean Louis: Già quando ero nel seminario maggiore, per fare unità dovevo amare disinteressatamente, senza attendere ritorno. Quando non riuscivo ad amare, la vita diventava difficile, ma quando si ama si comprende e si scusa tutto.

Adesso, esercitando il ministero nella città, c’è pericolo di essere distratti da mille sollecitazioni. Ciò distrugge in fretta la vita della comunità sacerdotale. Non si ha il tempo di pregare insieme, di condividere momenti di riposo, di vedere insieme il programma di lavoro: ognuno è assorbito dai suoi affari. Così ci si stanca presto, ci si abbruttisce e si cede in fretta alla routine.

Ho la fortuna di vivere molto vicino al focolare e lì mi trovo come in famiglia. È per me un luogo di ristoro e di rinnovamento.

Questo carisma mi ha aiutato a capire che il sacerdozio non è lo scopo della mia vita, il punto d’arrivo, ma piuttosto il punto di partenza nell’avventura dell’unità e dell’amore. Il ministero vissuto per se stesso non vale niente, ha valore in quanto è per me occasione per perfezionarmi nell’amore e creare comunione.

È necessaria una nuova evangelizzazione nel mio Paese, proprio per superare quell’evangelizzazione superficiale di cui si parlava prima e trovare una fede che incida nella vita. In questo senso l’ideale dell’unità può avere un influsso molto importante. Dovendo animare la catechesi della diocesi, capisco che non posso ridurla ad una formazione dottrinale. Essa dev’essere frutto della vita e portare alla vita. Solo così è possibile un’evangelizzazione che trasformi in profondità la cultura.

Sylvestre: Anche per me ciò che ho trovato nel Movimento ha avuto un influsso molto grande sul mio ministero pastorale. Come un bimbo non sa utilizzare altro linguaggio che quello del suo contesto di vita, anche a me questa spiritualità ispira, nel linguaggio e nella predicazione, un modo più autentico nel presentare il messaggio dell’amore di Dio.

Quest’amore di Dio riguarda in primo luogo me stesso. Lo sento nel più profondo del mio essere: Dio mi ama, mi protegge, si occupa di me fino al più piccolo capello della mia testa. Allora anche nel ministero cerco di abbandonarmi al suo amore e di assecondare la sua azione. Non lavoro per assicurare il mio avvenire o per guadagnarmi il pane. Lavoro per lui che vuole comunicare il suo amore a coloro ai quali m’invia.

Avendo capito che tutti gli uomini e le donne sono amati da Dio Padre, ho compreso che siamo tutti fratelli. Allora tutti quelli che Dio mette nel mio cammino sono dei fratelli da amare, non nell’anonimato, ma cercando di creare con essi dei rapporti personali. Forse qualche confratello ha l’impressione che facendo così perdo il mio tempo, ma i frutti sono molto incoraggianti.

Ciò non mi evita le sofferenze, ovviamente, ma sappiamo che il segreto dell’amore vero si trova in quel patire che ci fa simili a Gesù sulla croce.

Unità tra i presbiteri

GEN’S: Come vivete l’unità con gli altri preti?

Sylvestre: La viviamo a diversi livelli. Quella più profonda ed esplicita, ovviamente, è con quelli che condividono la stessa spiritualità. Con loro ci sentiamo molto legati dal patto d’unità e di amore reciproco che abbiamo fatto e che rinnoviamo sempre. Facciamo di tutto per custodire e far crescere la presenza di Cristo fra noi, attraverso incontri o con tutti i mezzi possibili. Anche a distanza, sappiamo di essere uniti.

C’è poi l’unità con i sacerdoti della mia comunità. Con loro si cerca di stabilire rapporti d’amicizia e di collaborazione molto belli, cercando di amarli per primo, e spesso ciò ha suscitato la reciprocità.

Infine c’è l’unità con tutti gli altri confratelli. Tutti sono miei amici. Ho già capito che, come Dio mi ama così come sono, allo stesso modo io devo amare ogni prete com’è, con i suoi pregi ed i suoi difetti.

Ancora una volta ho sperimentato che Gesù abbandonato è il segreto e la chiave dell’unità con tutti i sacerdoti. Proteggere questa unità esige molto sacrificio e rinuncia, ma vale la pena, poiché essa è il cuore del progetto di Dio sull’umanità, e non riusciamo a costruirla nelle nostre comunità se non la viviamo fra noi sacerdoti.

Il futuro incerto non ci spaventa

GEN’S: Avete qualche timore o preoccupazione per il futuro?

Sylvestre: Sentirci amati da Dio, in qualunque situazione viviamo, è una sorgente di gioia e di serenità. Lo so che posso morire in ogni momento, come gli altri preti che sono stati assassinati in questi ultimi mesi. Questo non m’impedisce di continuare a cercare di essere testimone dell’amore di Dio verso tutte le persone che avvicino. Vedo in ognuno un fratello anche se può capitare che lui non mi ami. Felicemente, spesso la mia apertura all’altro provoca un’altra apertura. E molte volte nasce e cresce un’amicizia con persone con le quali non avrei mai pensato che potesse succedere.

L’unità con il focolare maschile di Bujumbura è un gran sostegno per noi. Quando sono nell’oscurità cerco di contattarli, non per esporre o scaricare su di loro le mie difficoltà, ma per avere Gesù in mezzo a noi.  Mettendo in comune le esperienze del vangelo vissuto, ritrovo la luce, la calma, e anche la soluzione alle mie difficoltà. Allora ricomincio ad amare e mi sento felice.

Vivere il momento presente: ecco un altro asse della mia vita che ho imparato da questa spiritualità, e che mi è di grande aiuto anche nei momenti difficili che stiamo attraversando. Chiara ci ha insegnato a vivere sempre per «quell’ora» che, come dice il vangelo, può arrivare quando meno l’aspetti. Il modo migliore di vivere per quell’incontro definitivo con il Padre è vivere la sua volontà nel momento presente. Tuttavia io non dimentico le parole di Gesù che c’invitano alla prudenza. Non posso quindi espormi al pericolo quando l’amore di Dio e del prossimo non me lo chiedono. Ascoltare «quella voce» dello Spirito dentro di noi, mi aiuta a fare il discernimento necessario sull’atteggiamento d’amore che conviene avere nelle diverse situazioni della vita.

a cura della redazione