«Quando abbiamo cominciato a vivere l’unità, bastava mostrare agli altri questa strada e tanti la percorrevano con gioia»

 

I frutti dell’unità

di Karel Pilik

 

Il protagonista di questa esperienza è un sacerdote di Praga. Durante il regime comunista è stato condannato a dodici anni di carcere per aver aiutato un gruppo di seminaristi che cercavano di superare la frontiera per venire a Roma a studiare teologia. È rimasto otto anni in prigione tra i delinquenti comuni. In queste condizioni disumane, vivendo il vangelo, non solo è riuscito a superare le difficoltà e a stabilire rapporti fraterni con i suoi compagni di carcere, ma ha conservato integro l’equilibrio psichico. Profondamente compenetrato dalla spiritualità dell’unità, è stato un punto di riferimento per molti sacerdoti e laici durante la persecuzione comunista. Dopo la caduta del regime, ha riorganizzato e diretto il seminario teologico di Praga ed è stato, per un breve periodo, rettore a Roma del Pontificio Collegio Nepomuceno. Attualmente risiede a Praga.

Perseguitati, ma uniti

Negli otto anni passati in prigione sentivo sempre più il bisogno di una spiritualità di comunione tra sacerdoti e tra sacerdoti e laici. Il contatto con la spiritualità dell’unità non solo ha soddisfatto il mio desiderio ancora non del tutto chiaro, ma lo ha superato in maniera inaspettata.

Insieme con alcuni sacerdoti (uno di loro era Miloslav Vlk, l’attuale cardinale arcivescovo di Praga), con due–tre seminaristi (tra cui Frantisek Radkovski e Jan Graubner, ora rispettivamente vescovi di Pilsen e di Olomouc), con alcuni giovani e una giovane che studiava filosofia, abbiamo cominciato a vivere questa vita che subito portava frutti per noi sorprendenti. Man mano che imparavamo a vivere coscientemente l’unità chiesta da Gesù per i suoi, sperimentavamo la sua presenza in mezzo a noi e, incantati da questa esperienza, comunicavamo la scintilla ad altri cuori di giovani e di anziani, che a loro volta ne diventavano apostoli.

Nella nostra vita sacerdotale potremmo porre un segno divisorio. Prima, pur cercando di vivere da buoni sacerdoti, ci sentivamo nella situazione di Pietro che diceva a Gesù: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (Lc 5, 5), mentre quando abbiamo cominciato a vivere l’unità, bastava mostrare agli altri questa strada e tanti la percorrevano con gioia.

La vita si diffonde

Man mano che c’incontravamo regolarmente tra sacerdoti, si creava sempre più tra noi una vera e profonda fratellanza e questo attirava e coinvolgeva un numero sempre maggiore di sacerdoti. Nelle nostre due repubbliche – quella ceca e quella slovacca – attualmente più di 200 sacerdoti sono in qualche maniera coinvolti in questa esperienza.

Tutta questa vita si svolgeva allora in un’atmosfera di persecuzione della chiesa da parte del regime comunista, durante il quale i raduni di carattere religioso erano severamente proibiti e punibili anche con la prigione.

Nessuno di noi prendeva iniziative per proprio conto, ma facevamo ogni cosa in piena unità tra noi in modo che fosse Gesù presente nella nostra comunità unita nel suo nome a mostrarci la strada sicura da percorrere. Per questa ragione, anche se le nostre attività sorpassavano di gran lunga la misura del possibile persino agli occhi dei più audaci, il regime comunista non si è mai reso conto della nostra «pericolosità».

Ci radunavamo in piccole Mariapoli di circa quaranta persone nei boschi o in altri ambienti adatti alle vacanze; più tardi, sempre sotto il comunismo, non potendo venire nei paesi dell’occidente, andavamo nella Germania dell’Est, dove le Mariapoli contavano ciascuna più di 300 partecipanti.

Il terrore nel regime comunista paralizzava in molti ogni iniziativa d’incontro per non dare nell’occhio degli agenti onnipresenti della polizia segreta. Per questo, molti religiosi, membri di diversi ordini dispersi e perseguitati, non s’incontravano tra loro per lunghissimi periodi di tempo. Noi avevamo ragioni più profonde e più forti per incontrarci a dispetto di tutti i pericoli esistenti. Come si potrebbe imparare a vivere con Gesù in mezzo a noi senza trovarsi insieme con i fratelli? Vivere con Cristo presente in mezzo alla comunità è la nostra vocazione, quindi il trovarci è volontà di Dio per noi. D’altra parte, vivendo così, non facevamo torto a nessuno, anzi diventavamo utili anche ai comunisti. Vedendo anch’essi come fratelli e imparando ad amarli, certamente non recavamo danno a nessuno, anzi preparavamo anche per loro la possibilità di incontrare Dio.

Questa maniera di vivere il cristianesimo ha cominciato a portare frutti anche nelle parrocchie e tra i giovani, ed ha contribuito a risvegliare una vita di comunione nelle comunità disperse dei religiosi.

Meravigliosi erano i frutti nel costruire una più profonda unità con i nostri vescovi, mentre il regime faceva di tutto per tenerli separati dai sacerdoti e dai fedeli. Noi non solo vedevamo nei vescovi la presenza di Gesù pastore da obbedire, ma li amavamo con tutto il cuore. Ed essi, a loro volta ci venivano incontro con gran fiducia. Una volta il nostro arcivescovo di quel tempo – il cardinale Tomasek – ci ha detto: «Io mi rallegro di tutto ciò che voi fate, di tutto ciò che  so e anche di tutto ciò che non conosco».

Nel seminario

Riguardo all’esperienza come rettore del seminario posso dire questo: quando nel ’90 abbiamo cominciato a ricostruire la vita nel seminario di Praga, rimasto chiuso per quasi quarant’anni, abbiamo posto l’unità come base di tutta la nostra attività, cominciando da noi formatori. Ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: «Per chi siamo qui?». «Per il Signore Dio – abbiamo risposto – e dunque vogliamo esser un cuor solo e un’anima sola e lo vogliamo davvero». Così siamo andati avanti e con frequenti incontri e dialoghi abbiamo cercato di realizzare questo programma insieme col direttore spirituale, focolarino anche lui, e col vicerettore, che non faceva parte del Movimento dei focolari. Non era sempre facile, data la grande diversità di carattere ed anche di accenti nella vita spirituale, ma mai abbiamo abbandonato questa linea. Quello che non era stato visto in unità non lo si faceva, si lasciava da parte o si aspettava. Con questo atteggiamento diventavamo dono l’uno per l’altro.

Dopo tre anni ci si doveva dividere, perché mi era stato affidato un nuovo incarico a Roma. Ci siamo di nuovo guardati in faccia e con gran riconoscenza verso Dio abbiamo costatato che ciò che ci eravamo proposto tre anni prima come ideale, il Signore ce l’aveva donato. La nostra unità è entrata in qualche modo nella vita del seminario e, malgrado i nostri limiti, ci siamo sentiti tutti uniti – 128 seminaristi e tre formatori – e corresponsabili del bene del seminario.

Adesso, dopo cinquant’anni di vita sacerdotale, dopo aver visto crollare il regime totalitario e mentre sto sperimentando l’ambiente occidentale del consumismo, percepisco che il cristianesimo, vissuto senza una comunione d’amore fraterno, è una realtà non piena, ma mutilata. Un tale cristianesimo non corrisponde né alla volontà di Gesù, né ai bisogni dell’umanità. E se questo vale per tutta la chiesa, serve ancor più per chi ha compiti pastorali da svolgere.

Oggi bisogna ad ogni costo costruire questa fraternità tra i presbiteri sin dal seminario sulla base di una seria spiritualità, di una di quelle solide spiritualità con cui Dio nel corso dei secoli ha abbellito la storia della chiesa.

Posso testimoniare che per me e per moltissimi altri sacerdoti la spiritualità dell’unità, come si vive nel Movimento dei focolari, si è mostrata molto adatta per costruire questa comunione fraterna non solo in certi momenti difficili di persecuzione, ma ancora oggi e in maniera stabile e permanente.

 

Karel Pilik