La radice della spiritualità collettiva. Intervista a G. M. Zanghì

 

Verso una teologia 
di Gesù abbandonato

a cura di Enrique Cambón

 

In questa intervista Giuseppe Maria Zanghì, ben noto ai nostri lettori, offre in modo succinto alcuni concetti fondamentali sul mistero della croce. Se tutte le grandi spiritualità cristiane si basano su di esso, la spiritualità collettiva affonda le sue radici in quello che è il culmine della passione, il grido d’abbandono del Crocifisso. L’intervistato ha appena pubblicato due sostanziosi articoli, ampi e corredati bibliograficamente, sullo stesso tema nella rivista «Nuova Umanità» (102/’95 e 103/’96). Qui è riuscito a sintetizzarli, rispondendo alle nostre domande.

 

GEN’S: Com’è presente l’abbandono di Gesù nel Nuovo Testamento?

Il grido d’abbandono di Gesù sulla croce è certamente, in Matteo e Marco, il momento culminante del dramma della passione: lo squarciarsi del velo del Tempio dice la definitività dell’avvenimento che sta accadendo. E se Giovanni non fa cenno dell’abbandono, non possiamo non notare che tutta la scena della crocifissione è accompagnata e sottolineata da riferimenti continui al Salmo 22; si pensi, fra l’altro, all’accenno alla sete: «è arido come un coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla gola» (Sal 22, 16): sete d’acqua ma soprattutto, penso, di quell’acqua viva che è lo Spirito di Dio. E perché non vedere nella consegna della Madre al figlio (Giovanni) e del figlio alla Madre un cenno alla solitudine estrema nella quale il Crocifisso stava entrando?

Luca sottolinea il silenzio di Gesù davanti a quanti lo schernivano: non vuole essere, questo silenzio, la rivelazione che Cristo è entrato nella solitudine e nell’abbandono, sino alla consegna in un grande grido dello Spirito al Padre?

Per Paolo, il Crocifisso nella sua realtà tragica, letta alla luce della rivelazione veterotestamentaria1, nella sua lontananza da Dio, è l’espressione massima e il cuore stesso della Passione.

Né possiamo trascurare la lettura sempre più accreditata che molti autorevoli Codici fanno di Ebr 2, 9: «Così, senza Dio (abbandonato) è per tutti gli uomini che egli ha gustato la morte».

Una teologia per l’uomo d’oggi

GEN’S: Come hanno reagito i cristiani e la riflessione teologica attraverso i secoli, a questa realtà abissale?

Questo accadimento aspro, violento, non poteva non mettere in «imbarazzo» le generazioni cristiane successive, chiamate a ripensare l’idea di Dio, ereditata dalle culture precedenti, alla luce proprio dell’Abbandonato. Ed ogni epoca ha affrontato il mistero secondo una angolazione sua propria, nella quale ogni volta si apriva un varco di luce; ma la realtà dell’abbandono nella sua profondità rimaneva intatta. Solo alcuni grandi mistici non hanno temuto di accostare Gesù abbandonato alle loro prove, per trovare in Lui significato e luce su quanto essi andavano vivendo.

In questi ultimi anni la teologia si spinge con più coraggio nella piaga aperta dal grido dell’abbandono, per recuperarvi quanto la Scrittura ha voluto consegnarvi. Così sta avvenendo con la teologia cattolica, ortodossa, evangelica, spinte in questo anche dalla domanda della cultura stessa contemporanea alla ricerca, nonostante le apparenze contrarie, di un Dio più vicino all’essere umano, di un Dio veramente uomo, di quel Dio del quale Gesù abbandonato è l’immagine insuperabile.

C’introduce nell’intimità di Dio

GEN’S: Quale volto di Dio ci svela Gesù abbandonato?

In Gesù abbandonato si intravvede Dio che, per offrire all’essere umano la salvezza, lo raggiunge nella sua massima lontananza da Sé: sia quella della quale ognuno è colpevole, sia quella provocata dalla cattiveria personale e sociale degli altri – lontananza che non può non provare Dio stesso che, perché Amore, si fa uno con essa sino al grido sulla croce.

Ancora, in Gesù abbandonato si intravvede Dio nel massimo spogliamento del suo stesso essere Dio, sino a farsi l’ultimo degli esseri umani, anzi addirittura «peccato e maledizione». A causa di questa assimilazione, ogni volto sofferente dell’umanità è il suo; ogni volto di innocente sacrificato è il suo.

Infine, l’avvenimento della croce ci apre la vita trinitaria nelle sue viscere, come un avvenimento rivelatore che in senso pieno ci conduce nell’intimità più segreta di Dio, facendoci partecipare alla sua stessa vita.

Trasfigurare ogni dolore

GEN’S: Qual’è l’importanza di questa realtà per il carisma dell’unità?

Gesù abbandonato nella spiritualità dell’unità è figura centrale, e pur contenendo i temi qui appena toccati, ha un suo ‘di più’ che va compreso.

Anzitutto, come racconta la storia del nostro Movimento, Gesù abbandonato è stato capito e subito accolto come la più grande sofferenza di Dio e perciò il suo massimo amore, che ha suscitato in noi la volontà di una risposta proporzionata: l’amare diventava ora, per noi, rivivere Gesù abbandonato.

Il massimo negativo si trasforma (perché, come profondamente ha intuito Chiara Lubich, l’Amore quando non è, è) nel massimo positivo. Il dolore, ciò che non è, diventa l’amore, ciò che è. La logica umana è rovesciata.

Ed un culmine nuovo viene offerto alla vita spirituale, una notte ulteriore a quelle dei sensi e dello spirito, la notte stessa di Dio: Dio in sé perso per il Dio che è o che attende di nascere nei fratelli!

La notte di Dio non è solo l’abbuiarsi di Dio nel singolo perché ne sia purificato e fatto più capace di Lui. È una notte che ha due caratteristiche fondamentali: è prima di tutto collettiva, e inoltre Dio si sottrae alla stessa esperienza dell’assenza. La notte dello spirito dei mistici del passato era vissuta pur sempre come accadimento religioso; oggi in Occidente la notte di Dio è vissuta collettivamente ma nell’angoscia della solitudine senza comunione dei singoli, e per questo è percepita come un vuoto che non rinvia ad un Pieno!

Dio si sottrae ai singoli per darsi in un modo «nuovo» nella sua realtà di Comunione di Amore. Il mio Dio è come smarrito perché possiamo, nell’unità fra noi, rivolgerci nell’unico Figlio al Padre. È questo forse il più profondo significato dell’ateismo dell’Occidente, la sua sfida e l’unica possibilità del suo superamento. Vertice di spogliazione estrema e, insieme, possibilità impensata di una vera risurrezione dai morti.

E la chiave per un tale esito della crisi di fede dell’Occidente è l’Abbandonato. A ragione Chiara Lubich ha visto in Gesù abbandonato «il Dio dell’uomo d’oggi». Nell’abbandono il Figlio di Dio, che è Dio, e resta Dio, e dunque Persona unitrinitaria, portando all’estremo il movimento iniziato con l’incarnazione, fa l’esperienza della cruda individualità umana. La Persona divina, in Lui, è nell’ombra, mentre viene sperimentata la solitudine, la separazione, il rigetto del peccato, tutto ciò che non è persona, se la persona è, come la Scrittura rivela, relazione d’amore, se stesso in altro. Ma il Verbo Figlio di Dio fa sua tutta questa realtà aprendola a diventare in lui persona: amore nella reciprocità. Fattosi per amore nulla, Gesù fa scaturire in noi la potenza creatrice di Dio nella quale siamo fatti persona nell’unica Persona del Figlio.

Essendosi fatto l’infinitamente piccolo –  il nulla – egli fa i suoi fratelli infinitamente grandi – il tutto, come egli è infinitamente grande. Dagli individui peccatori nascono, per la misericordia del Padre vivente nell’obbedienza dell’amore del Figlio, i figli di Dio, le persone divinizzate. I molti, divisi, sono fatti uno, meglio ancora: l’Uno, Gesù.

Via all’unità

GEN’S: In questo modo si vede lo strettissimo rapporto che esiste tra Gesù abbandonato e la «spiritualità collettiva»...

Gesù abbandonato costituisce la radice della spiritualità collettiva. Perché ciascuno di noi, molteplici e separati, raggiunto nel suo dolore e nella sua miseria dall’amore del Padre che è il Figlio suo, entra, se corrisponde, nella dimensione dell’Uno, del Figlio, e può chiamare Padre Colui che Gesù nell’abbandono aveva chiamato (perché uno con noi) Dio.

Per Gesù abbandonato non ho più una mia vita, nel senso di escludere ciò che è diverso da me. Le lettere paoline lo ripetono continuamente: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20). Questo «per me» significa per tutti noi. Vedere ancora se stesso come un io opposto a un tu significa non essere entrato nella realtà di Gesù abbandonato. Pensare di poter abbracciare come Figlio il Padre ognuno da solo, non nella comunione fra noi in quell’unico Figlio che siamo in Gesù, significa, sempre nel linguaggio paolino, essere ancora sotto la legge e non nella libertà della grazia.

La nostra stessa reciprocità di creature acquista altri occhi. Perché qualunque negativo io possa notare nel prossimo, quel negativo è realmente Gesù che nel suo abbandono lo ha raggiunto. Allora il negativo dell’altro è veramente mio, se vedo in esso Gesù abbandonato; e soltanto nell’unità consapevole fra noi nell’unico Gesù potremo compiere insieme quel miracolo di trasformazione che Gesù ha operato in noi.

Nella spiritualità collettiva ciò che il singolo individuo considera più intimo e incomunicabile, ossia il dolore personale, è in verità la porta spalancata su Dio, la via all’unità.

 

 

 

a cura di Enrique Cambón