È ancora possibile credere?

È sempre più frequente trovarsi con persone dei più svariati ambiti, che incontrano forti difficoltà di fronte alla fede. «Non posso credere», «vorrei credere, darei anche anni della mia vita perché ciò succedesse, ma non ci riesco», «se la fede è una grazia, io non ce l’ho», sono alcune delle frasi più ascoltate.

Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, che rappresenta uno sforzo notevole nell’offrire un cristianesimo saldo e con sicuri punti di riferimento, suscitò tante reazioni positive, ma anche altre che devono farci riflettere.

Uno dei più noti filosofi italiani scriveva in un quotidiano di larga tiratura che provava un sentimento di nostalgia, perché un tale testo «rappresentava una visione del mondo compatta, senza smagliature». Però, aggiungeva, «non riusciamo più ad accettare tutto ciò che il catechismo insegna».

In un programma televisivo in Svizzera, un professore protestante di teologia affermava che aveva cercato invano in questo catechismo un’ombra di dubbio, per riposare dall’arido sole delle certezze.

Sono solo due esempi, ma molto significativi. Il primo riflette, tra l’altro, il fatto che le affermazioni della fede si presentano così strane ad una sperimentazione scientifica (considerata paradigma di ogni conoscenza), che appaiono soltanto dei miti, nel migliore dei casi ricchi di senso simbolico e consolatorio, ma carenti di ogni realtà concreta.

Il secondo atteggiamento è tipico di tantissimi uomini e donne del nostro tempo: diffidenza verso ogni affermazione assoluta, che possa portare ad un dogmatismo presuntuoso e totalitario, cioè che pretenda di avere in tasca la risposta preconfezionata ad ogni problema e voglia imporla agli altri. Si tratta in fondo di un atteggiamento verso la verità, vista non come misura, ma come prodotto dell’essere umano: non c’è nessun senso nell’esistenza, se non quello che noi decidiamo di darle.

Certo, queste convinzioni sono espresse chiaramente solo da pochi intellettuali o persone particolarmente lucide, ma esse riflettono un rifiuto sentito sempre più visceralmente anche dalla gente comune.

Un teologo di fama diceva che l’umanità va avanti in base a «esperienze di contrasto». Ad un certo punto, di fronte a certe realtà, le persone sempre più all’unanimità reagiscono affermando: «Questo non va più, non è sopportabile, non possiamo più accettarlo». Le idee vengono, spesso solo in seguito, a legittimare e fondare questa coscienza diffusa di rifiuto.

Qualcosa di simile sta succedendo con la fede. Non per niente Giovanni Paolo II – e altre personalità e pensatori prima di lui – in un famoso discorso a Segovia (Spagna) nell’82 ha affermato che l’umanità sta vivendo una «notte oscura con dimensioni d’epoca e proporzioni collettive».

Che cosa dice una tale situazione alla nostra fede? La prima indicazione che ci offre è ovvia: non è sufficiente presentare una «dottrina sicura» per illuminare la mente e riscaldare il cuore. Ci vuole un’esperienza del divino molto forte e veritiera, espressa in termini adeguati all’oggi. Altrimenti sarà sempre più difficile credere.

Quindi, a quale tipo di cristianesimo, a quali approfondimenti la storia ci chiama? Sarebbe banale pretendere di offrire qui una risposta, anche solo minimamente esaustiva, che esigerebbe una trattazione ben più ampia ed articolata. Tuttavia crediamo che i contenuti che qui presentiamo vanno nella direzione delle risposte di fondo a tali interrogativi.

Una spiritualità collettiva ed un’esperienza di vita trinitaria rispondono alle esigenze più profonde del nostro tempo, come testimonia la relazione di Chiara Lubich, che apre questo numero.

Inoltre, noi che crediamo nel Dio di Gesù Cristo, abbiamo sufficiente coscienza che il punto più alto della rivelazione di Dio–Amore, ci viene offerto nell’abbandono sulla croce, cioè nel momento in cui Gesù provò la più totale e straziante lontananza da Dio? Che cosa dice alla nostra concezione della fede una tale realtà? Alcune delle ricchissime conseguenze di questo fatto centrale del cristianesimo sono messe in rilievo dall’intervista a G. M. Zanghì.

D’altronde l’essere umano ha la tendenza a cadere nel legalismo e nel formalismo, trasformando in vuoto involucro ciò che dovrebbe essere un’esperienza di vita evangelica. Quale tipo di preghiera e di culto può attrarre e nutrire la nostra vita oggi? L’abbiamo domandato a Jesús Castellano Cervera, specialista in materia, il quale ci mostra l’importanza decisiva, per un’autentica vita di fede, del mutuo intreccio tra spiritualità collettiva e liturgia.

Infine due esperienze: una di Karel Pilik della Repubblica Ceca e l’altra di due sacerdoti burundesi. La prima è stata vissuta sotto un regime totalitario che imponeva l’ateismo; la seconda è portata avanti in un ambiente africano dove si sono scatenate le più furiose passioni omicide. Ambedue mostrano quale tipo di cristianesimo può offrire speranza all’umanità e trasformarla, anche in mezzo alle notti più oscure e agli odi più profondi.

E non si tratta di retorica, perché uno di questi due sacerdoti del Burundi in questi giorni ha tastimoniato l’amore col sacrificio della sua vita.

E.C.