«La spiritualità che mi ha aperto gli occhi»

 

Nell’unità
anche un non vedente può vedere

 

di Raffaele Alterio

 

 

Come può un sacerdote non vedente adempiere ai doveri del suo ministero? Non sarà un peso per la diocesi? Chi lo accompagnerà per tutta la vita? Interrogativi seri che da sempre hanno creato difficoltà per il conferimento dell’ordine sacro a chi ha simili limitazioni. L’esperienza di don Raffaele dell’arcidiocesi di Napoli ci stupisce e ci illumina, mostrandoci cosa può fare l’amore fraterno tra i sacerdoti.

S

ono prete da 34 anni; quinto di undici figli di una famiglia semplice, dalla quale ho attinto valori veri dettati dall’esempio dei miei genitori, quali la dedizione, il sacrificio, l’amore.

Pensavo da piccolo di formare anch’io una famiglia numerosa e armoniosa, ma a diciotto anni ho deciso di entrare in seminario per diventare – così pensavo allora – uno che conta...

In quegli anni ho speso le migliori energie nell’affermare me stesso, per farmi considerare bravo e conquistare la stima degli altri. In fretta si è avvicinato il giorno dell’ordinazione. Mi sentivo, però, impreparato e vuoto.

Avendo avuto l’occasione di andare a Lourdes, avevo offerto me stesso così com’ero e avevo chiesto a Maria di aiutarmi. Tornato a Napoli accuso dei disturbi agli occhi. Un segno? Una risposta?

La prima Messa: cieco per sempre!

Porto a termine gli studi con l’aiuto di grosse lenti di ingrandimento. Poi il grande giorno: l’ordinazione sacerdotale in un clima di festa, di gioia per la celebrazione della prima Messa. Ma tutto mi crolla dentro e fuori, perché al momento di leggere dal messale mi accorgo di non vedere. Penso sia l’emozione, invece è l’inizio di una avventura nuova, dura e difficile: la cecità.

Da questo momento i miei progetti di vita vengono sconvolti. Avrei voluto continuare a perfezionarmi nello studio della psicopedagogia e invece vengo inviato viceparroco in un quartiere popolare dove mi do da fare quasi per compensare l’insoddisfazione e riempire il vuoto scaturito dalla menomazione e dal fatto di dover fare cose che non avevo scelto. Più mi impegnavo nell’azione, più grande diventava il senso di vuoto e di insoddisfazione.

È a questo punto che incontro un amico sacerdote, impegnato nella parrocchia e nell’insegnamento. Egli, nonostante tutto, trova sempre un po’ di tempo da dedicare a me. È un bel tipo: disponibile, puntuale. Di lui mi colpisce soprattutto la serenità e la gioia.

La sua testimonianza di vita mi mette però in crisi. Ho l’impressione di sentirmi a disagio, come di fronte a una fonte di luce che mentre illumina, dà un certo fastidio agli occhi. Allora parto all’attacco: voglio metterlo alla prova chiedendogli, una dopo l’altra, le cose più diverse e contrastanti. Egli rimane tranquillo, io nervoso e turbato. Quando gli chiedo: «Ma tu, perché agisci in questo modo?», mi parla di una scelta di vita, di vangelo vissuto, di amore.

Ebbene, non sono prete anch’io? Non ho studiato e scelto una vita di donazione anch’io come lui?

Un incontro decisivo

Intanto le cose si complicano fino al punto che mi stanco di stuzzicarlo e cedo ad una sua richiesta: andare a far visita ad alcuni suoi amici dei quali mi parla con entusiasmo. Accolto con grande familiarità mi sento a mio agio e per la prima volta parlo di me stesso in pubblico. I rapporti con questi amici diventano frequenti e profondi e, alla loro proposta di partecipare ad un incontro per sacerdoti, aderisco con piacere.

Erano gli anni ’60. Non accettavo che dei laici potessero parlare ai preti. Resistetti fino al terzo giorno del convegno, poi, preparate le valigie, decisi di andar via. Venni letteralmente bloccato da una voce femminile: era quella di Chiara Lubich che parlava ai sacerdoti. Non ricordo cosa dicesse, ma mi sentii come un vaso che, colpito improvvisamente da un sasso, va in frantumi.

Mi chiedevo: «Chi sono? Che senso ha il mio sacerdozio? Perché mi trovo qui?». Tornai a casa con i cocci che avevo raccolto e che volevo ricomporre.

I miei amici, i focolarini, da questo momento, quasi mi prendessero in affidamento, non mi lasciarono più; venivano a trovarmi, mi parlavano di Dio Amore. Intellettualmente capivo, ma la mia vita era ancora lontana, per cui sentivo la lacerazione tra il mio modo di fare e il mio dover essere. Tutto questo mi logorava anche fisicamente.

Vedere senza vedere

È rimasta una data storica per me quel 16 marzo 1966. Mi sentivo avvilito e stanco e tornai a casa più presto del solito, con meraviglia dei miei. Cenai in fretta, mi chiusi in camera e mi abbandonai come corpo morto su una poltrona. Non so quante volte mi sono alzato per andare su e giù per la camera.

Trovai poi la posizione giusta per il mio corpo stanco: mi inginocchiai accanto al letto con la testa tra le mani, ma non per pregare, anche se penso sia stato un momento di preghiera profonda, di contemplazione.

Fu in quella notte che scelsi Dio, accettai la cecità e mi dissi: «Adesso voglio provare a vedere senza vedere». E mi accorsi che Chiara Lubich, con la luce della spiritualità dell’unità, aveva operato in me un vero trapianto: l’amore mi apriva gli occhi del cuore, capivo l’Amore!

Quella notte, come non mai, dormii tranquillo e al mattino subito cominciai a vivere riassettando la mia camera.

Quando i miei se ne accorsero, restarono un po’ scandalizzati. Spiegai loro che prima di essere un sacerdote volevo essere un uomo come tutti e che prima della predica volevo fare pratica. Questo un po’ alla volta ha fatto crollare in me le vecchie categorie mentali sull’uomo, sulla donna, sul prete, ecc.

Donare luce a chi non vede

Con questa realtà nuova mi sono aperto agli altri ed ho raccolto tanti frutti, soprattutto tra i sacerdoti. Senza soste, nei giorni e nelle ore più impensate, percorrevo chilometri, facendomi accompagnare, per andare a visitarli.

Ricordo, per esempio, quando mi sono recato a Pomigliano D’Arco perché avevo saputo di un sacerdote contestatore. L’ho trovato a letto con la febbre: lui che normalmente era introvabile! Si mostrò sorpreso e divertito nello stesso tempo dal fatto che un sacerdote, senza conoscerlo, avesse affrontato distanze e disagi per incontrarlo. Dopo il primo impatto di grande imbarazzo da parte di entrambi, ci siamo trovati a parlare della nostra vita, delle nostre difficoltà, ma il momento forte e di grande luce è stato quando abbiamo scoperto che in fondo avevamo gli stessi ideali: lottavamo per un mondo più giusto, più fraterno. Ma qual’era la strada sicura per raggiungere la meta?

Ci siamo rivisti tante altre volte per alimentare e far crescere l’amore reciproco. L’unità ormai era fatta e da questa cellula viva nasceva altra vita. Incontriamo altri sacerdoti soli, alla ricerca di ideali veri. È sorprendente vedere sacerdoti colti, impegnati, diventare bambini, desiderosi di scegliere Dio come ideale, di mettere al primo posto l’amore scambievole per avere la presenza di Gesù in mezzo a loro.

La vita? Un gioco d’amore

Col passare del tempo tale realtà si fa prepotente; cominciamo a sognare il giorno in cui poter vivere 24 ore su 24 consumati dal fuoco dell’amore che, bruciando il nostro io, permetta a Gesù di vivere sempre presente tra i suoi, Lui il vero sacerdote.

Così nel 1973, spinti e incoraggiati da sacerdoti amici, Lucio, Gigino, Tommaso ed io passiamo a vivere in una stessa casa, non per convenienze o interessi umani, ma per sperimentare la verità di queste parole di Gesù: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, ivi sono io in mezzo a loro» (Mt 18, 20). Questa realtà umano-divina ci affascina a tal punto che, nonostante la diversità di carattere e di mentalità, la vita diventa un gioco d’amore, una gara a chi ama per primo e con i fatti. La vita di comunione ci permette, realizzando la famiglia, di venire alla luce nella nostra autenticità, di crescere con i doni di cui ciascuno è portatore per il bene di tutti.

Quando vi riusciamo, la vita è bella, la casa diventa un angolo di paradiso, Gesù presente tra noi una luce che trasforma le persone e illumina tutto coi colori dell’arcobaleno. Le persone che vengono in casa nostra colgono questa realtà, come Mara, giovane sposa venuta a parlare con me dei suoi problemi. Essendo io momentaneamente occupato, è stata accolta da uno di noi che le ha offerto un caffè. Nell’attesa Mara si guardava intorno incuriosita e restò colpita dall’ordine e dall’armonia delle persone e dell’ambiente.

Appena si trovò davanti a me, cominciò a parlare dicendo: «Ho capito tutto». Cosa avrà mai capito se non ho proprio detto nulla? Aveva colto nel segno: il nostro modo di tenere la casa la portava a riflettere che il motivo di tanti conflitti e dissapori esistenti tra lei e il marito dipendeva in gran parte dal suo modo disordinato di gestire la casa.

Gesù in mezzo a noi:
la nostra salute e la nostra famiglia

È nel dolore abbracciato ed amato che si sperimenta l’unità con Dio e nel dolore e nella malattia si vede se i fratelli sono veramente tali.

Da un paio d’anni soffro di valvulopatia stenotica cardiaca, per cui si è ritenuto indispensabile un intervento di angioplastica. È stata un’esperienza unica che ci ha fatto più famiglia e ha fatto della nostra casa un punto luminoso per molti. Non ho mai avuto tanti contatti con persone di tutti i tipi come in questo periodo, e tanti hanno trovato la soluzione e la luce che veniva, penso, da Gesù presente in mezzo a noi.

Durante la malattia, dovendo stare completamente fermo, i miei amici mi aiutavano in tutto: Gigino diventava per l’occasione l’infermiere; Lucio si prendeva cura della mia persona fisica: mi lavava e mi sbarbava; Dario in cucina preparava le vivande più appetitose e Marco, che è medico, faceva da primario! In questi momenti non mi hanno lasciato mai solo.

Ciò per me è importante, perché Gesù presente tra noi è la mia pace e mi fa sperimentare la vera salute, quella interiore. Per cui tutto mi è stato leggero, sopportabile e non ha fatto venir meno in me quella nota caratteristica di un prete scugnizzo e divertente quale sono sempre stato. Alla diagnosi della dottoressa – una brava cardiologa, nostra amica – che parlava di un cuore che doveva essere aiutato a diventare compensato, ho risposto con una battuta, rivolgendomi ad un mio fratello di sangue che era presente: «Benì, questo va molto bene per te». Alla cardiologa, che non aveva capito la battuta, abbiamo spiegato che a mio fratello Benito, ebanista, il compensato faceva ben comodo nella sua falegnameria.

Un giorno mia mamma, una donna sana e forte nonostante i suoi 93 anni, venuta a trovarmi, mi supplica: «Perché non vieni a vivere con me? Stiamo insieme ed io ti preparo cibi buoni». Le sue parole mi entrano dirette al cuore, perché capisco il suo disappunto. Con somma delicatezza le dico: «Lo so che sei mia madre e mi vuoi tanto bene, ma ora la mia famiglia è qui, questo è il mio focolare». Seduta accanto a lei una sua sorella viene in mio aiuto, rivolgendosi a mia madre: «Te l’avevo detto: stanno così bene insieme, si vogliono tanto bene, proprio come una vera famiglia». In camera c’è anche un mio cognato, Enrico, il quale approva in pieno quanto affermato dalla zia: «È proprio vero! Io, da quando li ho incontrati, ho capito cosa significa amare».

Un amico medico, resosi conto della realtà della nostra famiglia, mi ha detto: «Sei proprio fortunato perché questa è una clinica specializzata». Gli ho risposto: «Hai veramente ragione, perché qui c’è il medico, l’infermiere, il cuoco, ma soprattutto e prima di tutto c’è Lui!».

Raffaele Alterio