Quale posto ha l’unità trinitaria nella vita dei presbiteri?

 

Spiritualità
del sacerdote diocesano

del card. Miloslav Vlk

 

 

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo la relazione che egli ha tenuto in Vaticano durante il Simposio commemorativo dei trenta anni del decreto conciliare
Presbyterorum ordinis, organizzato nell’ottobre scorso dalla Congregazione per il clero. Tale relazione è stata molto apprezzata perché il cardinale, senza nascondere le difficoltà in cui si dibattono oggi i presbiteri, indica loro con chiarezza, anche in base alla sua personale esperienza, una strada sicura da percorrere in profonda sintonia con i segni dei tempi e le necessità della chiesa. Per motivi di spazio tralasciamo l’introduzione.

L

a spiritualità sacerdotale e i mezzi per rispondere all’esplicita chiamata dei presbiteri alla perfezione da parte di Gesù sono stati ampiamente esposti sia dal decreto conciliare Presbyterorum ordinis, sia dai successivi documenti pontifici, quali l’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis che ha fatto seguito al Sinodo dei Vescovi del 1990, e dal Direttorio emanato dalla Congregazione per il Clero sul Ministero e vita dei presbiteri, nonché dalla fervida e puntuale Catechesi del Santo Padre sul sacerdozio che si è protratta dal 31 marzo al 20 ottobre 1993.

Si può osservare con soddisfazione che il richiamo alla santità, come obbligo inerente al fatto che i presbiteri sono «elevati alla condizione di strumenti vivi del Cristo che agiscono in nome e nella persona di Cristo stesso», e l’invito ad approfittare dei mezzi che la favoriscono, occupano la parte preponderante di tutti i documenti.

Sarebbe troppo lungo anche solo farne una sintesi, che dovrebbe partire dalle motivazioni teologiche fino alla testimonianza vitale di quel radicalismo evangelico che configura i presbiteri a Cristo, l’unico eterno Sacerdote, e a Maria che ne è stata l’educatrice e alla quale il Verbo fatto uomo si è docilmente sottomesso (PDV, 82).

Penso pertanto di mettere in risalto, da detti documenti, alcuni punti che acquistano particolare importanza soprattutto nella nostra attuale epoca di secolarizzazione spinta e della conseguente caduta dei valori dovuta a una interpretazione laica delle motivazioni su cui poggiano.

Unità tra essere e agire

La vita personale e il servizio ministeriale dei presbiteri sono spesso caratterizzati, ad esempio, da una frattura tra l’essere e l’agire, tra ciò che si predica e ciò che si vive. I suddetti documenti non hanno mancato di accennarne, e basterebbe il richiamo di Paolo VI, poi passato in altri documenti, a far capire l’importanza per i presbiteri dell’unità tra il loro essere e il loro servizio: il mondo – ha detto – ha bisogno oggi più di testimoni che di maestri.

Il decreto conciliare PO ha messo in rilievo che l’unità di vita i presbiteri la raggiungono «seguendo nello svolgimento del loro ministero l’esempio di Cristo Signore il cui cibo era il compimento della volontà di colui che lo aveva inviato a realizzare la sua opera», per cui «nello stesso esercizio pastorale della carità essi troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà l’unità nella loro vita e attività» (PO 14). Ma come discernere nel concreto la volontà di Dio? Pur seguendo la traccia di un piano pastorale diocesano, il presbitero si trova a dover prendere iniziative, a decidere sulle priorità, a fare delle scelte, senza peraltro mai sapere se le sue decisioni vengono dallo Spirito Santo o non piuttosto da propri schemi personali o da proprie inclinazioni. Con chi confrontarsi quotidianamente se non ha rapporti di effettiva unità non solo col vescovo, ma anche con altri presbiteri cui sottoporle con distacco, pronto a perderle o cambiarle, fidandosi della promessa fatta da Gesù, che «se due di voi si troveranno d’accordo su quel che devono fare..., il Padre glielo concederà perché io, Gesù, sono in mezzo a loro» (cf Mt 18, 19-20)?

Rivivere
la comunione stessa di Dio

Il Presbyterorum ordinis, in verità, insiste molto non solo sulla necessaria unità tra presbiteri e vescovi «in sincera carità e obbedienza» (n. 7), «se non vogliono correre invano» (n. 14), ma anche sulla «comunione con gli altri fratelli nel sacerdozio» (ibid.), dichiarando «che ciascuno dei presbiteri è legato ai confratelli con il vincolo della carità, della preghiera e di ogni specie di collaborazione, manifestando così quella unità con cui Cristo volle i suoi resi perfetti in uno» (n. 8), e pone questa unità – come ha fatto Gesù stesso – quale condizione per l’apostolato: «affinché il mondo sappia che il Figlio è stato inviato dal Padre» (Gv 17, 23).

Di quale unità si tratta? La Pastores dabo vobis esplicita il principio già espresso dalla Lumen Gentium e poi dalla Christifideles laici: «L’identità sacerdotale, come ogni identità cristiana, ha la sua fonte nella Santissima Trinità» (n. 12), su cui è modellata la chiesa stessa come mistero di comunione e di missione: «Essa è mistero perché l’amore e la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sono il dono assolutamente gratuito offerto a quanti sono nati dall’acqua e dallo Spirito, i quali sono chiamati a rivivere la comunione stessa di Dio e a manifestarla e comunicarla nella storia (missione)» (Christifideles laici, 8).

Ora, il «rivivere la comunione stessa di Dio» ha particolare importanza per i presbiteri, sia perché è stato per i Dodici, e per essi per primi, che Gesù ha pregato il Padre che «siano una cosa sola affinché il mondo creda», sia perché in forza della loro missione sono chiamati a «condurre tutti all’unità della carità, amandosi l’un l’altro con la carità fraterna» (PO 9). Anche qui appare chiaro che prima di insegnare a farsi uno nella carità, i presbiteri devono essi stessi avere un’esperienza al riguardo, ed essere quindi testimoni di questa unità secondo il modello trinitario. Gregorio Magno, chiedendosi come mai Gesù aveva mandato i discepoli a due a due ad annunziare il Regno, rispondeva: «Quia... minus quam inter duos caritas haberi non potest» (Omelie sui vangeli, 17, 1).

L’evangelizzazione è infatti la testimonianza dello specifico cristiano: essere uno come il Padre e il Figlio nello Spirito, affinché il mondo creda. Nella Catechesi di Giovanni Paolo II (4/8/’93) questo dovere è esplicitato con forza e chiarezza: «È significativo – dice – che nella preghiera sacerdotale dell’ultima Cena, Gesù preghi... per la loro unità rispecchiante la stessa comunione delle divine Persone... Gesù chiede che la comunità sacerdotale sia riflesso e partecipazione della comunione trinitaria. Quale sublime ideale!» E aggiunge: «Inviando in missione i settantadue discepoli, come pure i dodici Apostoli, li mandò a due a due, sia per un reciproco aiuto nella vita e nel lavoro, sia perché si creasse l’abitudine dell’azione comune, e nessuno agisse come fosse solo».

Comunità di vita

Se sottolineo questo aspetto quale strada su cui i presbiteri possono rispondere più facilmente alla chiamata alla perfezione, è perché lo stesso PO la mette in primo piano per evitare ai presbiteri la possibilità di cadere in un autoisolamento, con il pericolo di illudersi sia sulla propria unione con Dio che sulla bontà del proprio agire pastorale. Anzi, il PO arriva a consigliare, tra i presbiteri, «una qualche comunità di vita» perché «possano reciprocamente aiutarsi a fomentare la vita spirituale e intellettuale, collaborare più efficacemente nel ministero ed evitare i possibili pericoli derivanti dalla solitudine» (n. 8). Ed a questo scopo non esita a dire che bisogna tenere in grande considerazione e incoraggiare «le associazioni (tra presbiteri) che fomentano, grazie all’aiuto fraterno, la santità dei sacerdoti nell’esercizio del loro ministero e che mirano in tal modo al servizio di tutto l’ordine dei presbiteri» (ibidem; PDV nn. 74; 81; Direttorio n. 88; Catechesi di Giovanni Paolo II, 1/9/’93; CIC can. 550, 2).

Mi si permetta di fare qui una breve parentesi per dire la mia propria esperienza di «una qualche comunione di vita» vissuta negli anni più bui – dal punto di vista umano – della mia vita sacerdotale. Dopo dieci anni felici di sacerdozio il regime totalitario mi ha tolto la licenza, allora necessaria, di esercitare pubblicamente la mia missione nella chiesa. Non potevo svolgere alcuna funzione sacerdotale. Tutto mi era proibito. Sono stato costretto a cercarmi un lavoro civile, sempre sorvegliato dalla polizia statale. L’intenzione della polizia era di isolarmi da tutti.

Io avevo già avuto un’esperienza di comunione con sacerdoti, e ho visto che proprio questo poteva salvarmi da quel pericolo di isolamento. Ci incontravamo una volta alla settimana malgrado i gravi pericoli di essere scoperti e puniti, e ciò valeva soprattutto per quei sacerdoti che potevano ancora esercitare il ministero con una licenza ufficiale. Ma abbiamo accettato questo rischio, sapendo che il valore della nostra comunione era più grande di ogni pericolo. In questi nostri incontri meditavamo spesso proprio il capitolo 17 di Giovanni, e guidati e rafforzati dall’articolo 8 del PO ci raccontavamo le esperienze della nostra vita sacerdotale. Devo dire che è stata proprio in forza della presenza di Gesù fra noi che sia i sacerdoti ancora autorizzati al ministero che io, profugo ed esule dal presbiterio, abbiamo potuto sopravvivere. Non potrei sottolineare abbastanza fortemente quest’esperienza vitale che abbiamo fatta.

Mi sembra dunque che in questa insistenza dello Spirito Santo nei documenti conciliari e postconciliari si debba vedere un «segno dei tempi», date le difficoltà non meno insidiose che il mondo attuale pone alla vita quotidiana dei presbiteri. Se già nella prima lettera di Pietro (1Pt 4, 8) si raccomandava ai cristiani, per far fronte alle persecuzioni del mondo, di anteporre ad ogni cosa (ante omnia) «la mutua e continua carità», nel contesto sociale e culturale di oggi la persecuzione non la si trova soltanto fuori, ma in casa, e il tendere alla perfezione da soli è diventato quanto mai improbo. Le altre difficoltà in cui di fatto si dibattono i presbiteri, soprattutto quelli che sono in cura d’anime, le conosciamo né sarebbe saggio minimizzarle. Se fossero sufficienti i documenti ufficiali a farle superare, si potrebbe forse anche dire che allora basterebbe il vangelo. Ma le difficoltà restano, e tutti i pastori ne sono coscienti. E non si tratta, per lo più, di cedimenti a causa di cattiva volontà, bensì a causa di un disorientamento che si insinua di fatto, tanto da creare nei sacerdoti una crisi di identità spesso a pochi anni dall’ordinazione.

La realtà odierna dei presbiteri

Mi pare insomma che la figura del presbitero quale ci viene dalla memoria storica e forse anche da una certa formazione (parlo dell’immagine ideale del sacerdote) viene a scontrarsi con la realtà. Cerco brevemente di esemplificare.

a) Malgrado la coscienza di essere ordinati per un servizio, il presbitero per la sua stessa posizione si aspetta di essere un leader, per poi accorgersi che non si è leader se non si viene ascoltati e seguiti.

b) Il principio della chiesa-comunione, affermato dal Vaticano II e adeguato alle nuove esigenze, può entusiasmare soprattutto i giovani sacerdoti, ma crea nello stesso tempo non poche difficoltà perché richiede di lavorare non solo in unione con il vescovo e con i confratelli nel ministero, ma anche con i laici, e dialogare con essi richiede al presbitero di saper stare anche in ascolto, cosa non facile per mancanza di formazione al dialogo e di tradizione (anche a questo proposito potrei offrire una ricca esperienza, poiché in quel tempo di esilio ho vissuto in gruppi clandestini di laici guidati da essi stessi, e una mia eventuale presidenza sarebbe stata dal punto di vista politico anche più pericolosa. Sono stato così «costretto» ad imparare il dialogo e ne ho scoperto l’importanza per costruire la comunione).

c) L’affievolirsi della leadership anche sul piano religioso e culturale mette facilmente in crisi anche la coscienza del mandato ricevuto da Gesù tramite l’ordinazione sacerdotale. Ne consegue spesso la ricerca di una compensazione col fare una quantità di attività per sentirsi utili; ma quando ci si accorge che si spende cento per produrre uno, subentra scoraggiamento e stress, e cominciano i dubbi: avrò sbagliato vocazione? il celibato è veramente un valore? possibile che al sacerdote venga negato di avere una famiglia?

Apro un’altra parentesi per dire ancora la mia esperienza su questo punto. Quei pensieri sono passati tantissime volte nella mia testa e nel mio cuore, in quei tempi quando ho perso tutte le mie attività pubbliche nella chiesa e sono diventato agli occhi di tanti un laico. La mia situazione mi costringeva a cercare di nuovo la mia identità sacerdotale – senza ministero, senza apparente utilità, senza essere leader. Con l’aiuto della comunione dei miei confratelli sacerdoti, dopo un tempo di dolorosa ricerca ho trovato.

È stata una gioia immensa scoprire che Gesù ha raggiunto il vertice del suo sacerdozio quando, fissato alla croce, non poteva camminare, fare i miracoli, predicare ma – abbandonato – tacere e patire. Eppure è così che ci ha salvati. Ho capito e trovato in lui la mia più profonda identità sacerdotale, che mi ha riempito poi di gioia e di pace. Con questa nuova identità sacerdotale ho girato per dieci anni pulendo i vetri dei negozi per le strade di Praga.

Ma questa nuova identità trovata non si acquista una volta per sempre in un momento solenne di meditazione, di illuminazione e di grazia, si deve cercare e trovare sempre di nuovo, soprattutto nei momenti non solenni, bui, dolorosi.

Mi sono sforzato di giocare con Lui, con Gesù in quei momenti, un gioco d’amore come giocano gli sposi nella natura, nel bosco. Lei si nasconde e lui la cerca. Quando la trova si abbracciano felici. Se lei riesce a trovare un luogo nascosto inusuale, del tutto inaspettato e lui la trova ugualmente, in quel caso la gioia è più grande. Così ho fatto con Gesù. Questo non è solo una mia invenzione senza fondamento teologico. Nel capitolo 53 Isaia parla di servo del Signore, uomo di dolore dicendo: «pertanto egli ha portato i nostri affanni, si è addossato i nostri dolori e noi lo abbiamo ritenuto come un castigato, percosso da Dio e umiliato». Sì, ho pensato, Gesù si è nascosto impensabilmente sotto i più diversi dolori. Io devo cercarlo e scoprirlo in questo nascondimento inaspettato dei miei dolori, che lui ha preso su di sé, dei quali si è coperto, sotto i quali si è nascosto. Abbracciando quei dolori, quelle croci, abbraccio lui. Da qui in poi tutti quei momenti dolorosi sono stati momenti d’incontro con lui, momenti pieni. Una pace profonda, mai conosciuta prima, calava dentro di me. Sempre di nuovo ritrovavo la mia identità sacerdotale e spariva la sensazione di frustrazione. In quel gioco sentivo di essere sacerdote in pienezza.

Dicevamo dunque del senso di solitudine che sperimenta il presbitero a livello profondo, aumentato dalla precarietà della vita quotidiana per mancanza di orari, di privacy, ma soprattutto di possibilità di comunione intima con qualcuno in grado di capire...

Unità effettiva ed affettiva

Si potrebbe continuare. Non è che venga sempre a cadere la chiamata alla santità; e si sa che esiste, come afferma la Pastores dabo vobis, «una moltitudine... di sacerdoti che in tutte le parti del mondo, nelle condizioni anche più difficili e qualche volta drammatiche, e sempre nella gioiosa fatica della fedeltà al Signore e dell’instancabile servizio al suo gregge, offrono quotidianamente la propria vita per la crescita della fede, della speranza e della carità nei cuori e nella storia degli uomini e delle donne del nostro tempo». Ma se vogliamo essere attenti ai segni dei tempi che reclamano comunione e unità, non possiamo non seguire le indicazioni conciliari sull’intima unione effettiva ed affettiva tra i presbiteri, anche e soprattutto perché essa non solo corrisponde alle condizioni che Gesù stesso ha chiesto proprio nel momento dell’istituzione del sacerdozio («anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» e «vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi») ma anche perché realizzare di «essere una cosa sola» si rivela di fatto come «la perfezione» da raggiungere in questa vita e testimonianza impareggiabile della presenza del Cristo risorto in mezzo al mondo.

Mi si permetta di riportare un passo di un nostro confratello nell’episcopato da poco mancato, mons. Klaus Hemmerle, insigne teologo che ha avuto notevole influsso nella redazione delle «propositiones» del Sinodo di Vescovi del 1990 sulla formazione dei sacerdoti: «Oggi, come forse mai prima – scriveva – la credibilità del servizio sacerdotale dipende da come il singolo sacerdote vive radicato in una unità vissuta, in una forma di vita nella quale il servizio sacerdotale riesce ad essere una testimonianza comune, con il Signore stesso, unico Sacerdote, in mezzo. Il sacerdote, se deve essere specialista, lo deve essere nella communio, nell’unità. La spiritualità e la forma di vita del sacerdote sono quelle dell’unità... Vivere insieme, con lo sguardo diretto costantemente sul Signore in mezzo a noi, nel costante impegno di averlo in mezzo a noi e portarlo così ai vicini e ai lontani: questo significa essere sacerdote oggi... I sacerdoti oggi: uno fra loro e, in mezzo a loro, Gesù» (Congresso internazionale di sacerdoti e religiosi, Aula Paolo VI, 30 aprile 1982). Il Signore in mezzo a noi è il Santo.

Una spiritualità comunitaria

Lo Spirito Santo, attraverso il magistero conciliare e pontificio di questi ultimi tre decenni, sembra effettivamente voler imprimere una svolta nella vita della chiesa, ma in primo luogo dei sacerdoti: passare da una spiritualità individuale a una spiritualità comunitaria o collettiva; non cercare tanto la propria perfezione per sé quanto «essere perfetti nell’unità», che vuol dire in definitiva di «vivere alla Trinità», avendo «gli stessi sentimenti e un medesimo amore». Qui si riassume tutta la vita cristiana e tutto il messaggio di Cristo.

Così lo ha espresso in una udienza per un gruppo di vescovi Giovanni Paolo II: «Un rinnovato annuncio del vangelo non può essere coerente ed efficace se non è accompagnato da una robusta spiritualità di comunione, coltivata nella preghiera, nell’impegno ascetico e nel tessuto delle relazioni quotidiane... Approfondendo in particolare la spiritualità dell’unità voi vi preparate a meglio cooperare con lo Spirito Santo, divino lievito dell’unità del Popolo di Dio e dell’intera umanità» (L’Osservatore Romano, 17/2/’95). Solo in questa luce, infatti, solo facendo l’esperienza concreta di questa vita di comunione, si risolvono anche tutte le antinomie che sembrano caratterizzare la vita e il ministero dei presbiteri.

I consigli evangelici

Se la spiritualità individuale, ad esempio, è concepibile anche senza una pratica dei consigli evangelici, per la spiritualità collettiva non è così. I consigli evangelici, infatti, non danno di per sé la santità: se vissuti individualisticamente possono anche degenerare in vizi. Non si può invece vivere l’unità chiesta da Gesù («che siano uno») senza vivere i consigli di castità, povertà e obbedienza che sono la morte di ogni attaccamento a persone, a beni e a se stesso. San Paolo poteva dire di non conoscere altro che Cristo, e Cristo crocifisso, perché è lui il modello di ogni spogliamento del proprio io: lui è il povero (ha dato tutto), lui è il casto (ha dato anche la Madre in terra e ha sperimentato l’abbandono del Padre in cielo), lui è l’obbediente (fino alla morte di croce). Lì Gesù raggiunge il puro amore di donazione, al di là di ogni certezza e di ogni gratificazione; ma proprio lì raggiunge anche il culmine della sua realtà di uomo e della libertà, diventando padre della «nuova creazione», la comunità dei redenti.

Ciò vuol dire che la kénosis di Cristo è stata la via per l’énosis, per unire gli uomini a Dio e fra loro. L’Eucaristia non è che il sacramento e il memoriale di questo mistero divino e umano. Allora si capisce come mai la misura dell’amore che deve esistere soprattutto tra i presbiteri è il suo comandamento: «Amatevi come io vi ho amati». Non si può essere «una sola cosa» se non si è liberi, non condizionati da alcunché. San Paolo, del resto, nella Lettera ai Filippesi (2, 5) rivolta anche ai presbiteri e diaconi di Filippi, fa questa esortazione: «Abbiate tra voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù», che si è fatto uno con noi al punto di dar la vita per noi.

Ciò vuol dire che l’io sacerdotale, o l’identità del presbitero, non può essere altro che l’io di Cristo nella sua kénosis quando, con l’abbandono e la morte in croce, genera la chiesa come énosis, come comunione trinitaria.

La famiglia dei presbiteri

Allora si capisce anche il celibato. Esso non è rinuncia alla famiglia. Se Dio, che è Amore, ha creato il matrimonio come espressione e immagine della sua vita trinitaria, perché dovrebbe privare il sacerdote di una cosa «buona»? La verità è che Dio, tutt’altro che privarne i suoi presbiteri, li invita a vivere in una famiglia più bella, più simile allo stato paradisiaco, qual’era la famiglia che si è formato con gli Apostoli, i quali potevano dire: «Signore, da chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna».

Anche il prete, insomma, ha bisogno di una famiglia. La privazione di quella naturale la sente, evidentemente, se non riesce a realizzarla concretamente tra sacerdoti, con Gesù, il Sacerdote, in mezzo a loro. In questo tipo di famiglia la solitudine non la sente proprio, né sente il bisogno di altri legami affettivi. Sul Tabor, Pietro, Giacomo e Giovanni pensavano forse alla moglie o ai parenti? Anzi, «facciamo qui tre tende...». Ecco la nostra famiglia, testimonianza al mondo della beatifica pericoresi che si vive in cielo. Per questo si può dire che «l’identità sacerdotale... ha la sua fonte nella Santissima Trinità» (PDV, 12) e che il presbitero è «chiamato a rivivere la comunione stessa di Dio e manifestarla e comunicarla nella storia» (Christifideles laici, 8).

I presbiteri e Maria

E allora si capisce meglio anche Maria e la sua funzione nella vita del presbitero, non solo modello di umiltà, obbedienza e castità, ma anche di carità nella sua donazione totale al Signore e alla chiesa (cf PO 18). Ma la sua presenza nella vita del presbitero non deve concepirsi soltanto spiritualmente. Maria è icona di tutta la chiesa, ma la troviamo particolarmente viva nelle laiche e nei laici consacrati ai quali «lo Spirito Santo elargisce anche doni particolari... affinché mettendo ciascuno a servizio degli altri la grazia ricevuta, contribuiscano anche essi... alla edificazione di tutto il corpo nella carità» (AA 13).

Come modello di vita, il suo atteggiamento di «serva del Signore» nei confronti di Dio e, nella vita di casa, nei confronti di Gesù e Giuseppe, è la «conditio sine qua» non è possibile né generare Gesù in mezzo a noi né generare la comunità. È lei il tipo del sacerdozio, del sacerdozio vitale, detto appunto sacerdozio mariano, vero sacerdozio anche senza «mandato». Ora, se il mandato del presbitero non si innesta sulla vita del sacerdozio battesimale vissuto, esso, pur operando la santificazione negli altri, non accresce la santità di chi lo esercita.

Il nostro Santo Padre, commentando il passo di Giovanni 19, 27: «da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» ha ricordato che «i primi discepoli, dopo l’Ascensione di Gesù, erano riuniti con Maria, la Madre di Gesù (At 1, 14). Nella loro comunità, dunque, c’era anche lei, anzi, era forse lei a darle coesione (...). Nella famiglia di Dio – ha proseguito – e tanto più nella famiglia presbiterale, Maria custodisce la diversità di ciascuno all’interno della comunione fra tutti» (Congresso internazionale di sacerdoti e religiosi, Aula Paolo VI, 30 aprile 1982; L’Osservatore Romano, 1/5/’82). Origene aveva scritto che non è possibile vivere una vera vita cristiana senza familiarità con l’uomo che fu il Cristo e con Maria sua Madre (cf Comm. a Giov. 1, 4).

Unità: il kairòs del nostro tempo

Penso che se lo Spirito Santo ha voluto suggerire a tutti i cristiani, nei documenti del Vaticano II, e in particolar modo ai presbiteri nel decreto Presbyterorum ordinis, la priorità della testimonianza dell’essere uno, non solo ontologicamente e sacramentalmente, ma effettivamente «con il vincolo della carità, della preghiera e di ogni forma di collaborazione» (PO 8), è perché – ripeto – lo considera come il kairòs del nostro tempo, così come in tutti i tempi ha suggerito, attraverso la dottrina dei vari Concili e i vari carismi dei santi, la medicina per le rispettive epoche, medicina che era anche una decisione di vita più aderente al messaggio di Gesù e un mezzo di santificazione più adeguato ai tempi. Non può non tenerne conto chi è chiamato alla perfezione.

Oggi il mondo reclama l’unità e sperimenta che non la si può soltanto «organizzare», ma che deve radicarsi più profondamente, che deve avere un’anima. Lo vediamo per l’Europa: si cerca una «spiritualità per l’Europa», visto che l’unione soltanto politica ed economica non basta, come appunto dichiarano i protagonisti dell’Europa Unita. Ebbene, lo Spirito Santo punta oggi l’anima dei sacerdoti sulla Parola più alta pronunciata da Gesù per loro nel suo Testamento: «che siano perfetti nell’unità». Se l’«identità sacerdotale... ha la sua fonte nella Santissima Trinità», vivere tra sacerdoti l’amore scambievole a modo del Padre e del Figlio vuol dire ritornare alla casa da cui siamo partiti, la Trinità, inattaccabile da qualsiasi potenza o tentazione mondana.

Per celebrare il trentesimo anniversario del Presbyterorum ordinis non c’è forse modo più adeguato che rispondere di sì a questo invito dello Spirito Santo. Potremo vedere allora svanire tante difficoltà e problemi reali dei nostri «collaboratori nel ministero».

Card. Miloslav Vlk