João Carlos Rachor:
l’unità più forte della morte

di Ricardo PINTO (Brasile)

Giovane sacerdote del Brasile, Ricardo Pinto racconta la toccante testimonianza di un seminarista amico. Nella vita in seminario e poi nella malattia e nella morte, João Carlos Rachor ha realizzato con straordinaria coerenza il suo ideale: «Avere un solo tesoro: Dio; ed un solo programma: amare tutti».

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oão Carlos Rachor era un seminarista della diocesi di Cachoeira do Sul nell’estremo Sud del Brasile. Ho avuto modo di conoscerlo nel 1989 nella cittadella Araceli del Movimento dei focolari, presso San Paolo, durante un corso di formazione per seminaristi. Io in quel tempo ero agli inizi di questa esperienza.

Mi colpì in lui la capacità di mettersi sempre a servizio degli altri. In quei giorni abbiamo fatto una comunione di beni e ricordo la sua gioia nel donare non solo ciò che aveva nella sua anima, ma anche alcuni oggetti personali per venire incontro ai bisogni degli altri. Dopo questo momento vissuto insieme, spesso scriveva o telefonava per darci sue notizie: lo si sentiva presente anche se abitava molto lontano.

Un periodo decisivo per la sua vita è stato il suo soggiorno, durante il 1991, dapprima al centro gens, qui a Roma1, e poi nella Scuola Sacerdotale di Loppiano (Firenze) dove, convivendo con seminaristi di varie nazionalità, ha potuto fare una profonda esperienza di vita evangelica2.

Egli stesso ha così descritto questo periodo: «A contatto con la vita del vangelo vissuto concretamente ogni giorno, lo Spirito Santo mi ha come nuovamente aperto gli occhi. Ho sentito che dovevo abbandonarmi solamente a Dio, credere nel suo amore di Padre e vivere bene il momento presente. Più facevo il vuoto dentro di me, più acquistavo una tale pace e gioia, che mi spingevano in ogni momento a vivere la volontà di Dio, donandomi interamente al fratello». E sintetizzava così quest’esperienza: «Una nuova scelta di Dio e amare tutti».

«Era un leader ma
non perché comandasse»

Un doloroso e prolungato trattamento dentistico fu il particolare campo di prova per la realizzazione di questo suo programma di vita, al quale è rimasto fedele anche quando è tornato nella sua terra d’origine. E di conseguenza, attorno a lui la vita in seminario fioriva: gli venivano affidati degli incarichi ed egli li adempiva con semplicità e con amore; sapeva servire, ascoltare e parlare con ognuno, instaurare un rapporto sempre più profondo con il rettore e con gli altri seminaristi. «Era un leader – ricordano i suoi compagni – ma non perché comandasse, bensì perché era sempre il primo a fare le cose e questa sua vivacità ci attirava e ci spingeva ad andare da lui e ad aiutarlo».

Testimone della Parola
nelle situazioni più impensate

Un’esortazione della Scrittura lo accompagnava ormai da tempo, gli era di stimolo e costituiva per lui un costante punto di riferimento: «Annunzia la Parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna» (2 Tim 2, 4). João Carlos la sapeva mettere in pratica nelle situazioni più impensate. «La scorsa settimana – racconta in una lettera – ho fatto l’esame di guida: il tragitto era difficile e l’esaminatore molto aggressivo. Quando ho iniziato l’esame, mi sono ricordato che anche in questa situazione l’importante era amare e testimoniare la vita che avevo trovato. Ho cominciato allora a parlare con lui, a dirgli qualche cosa di me, del Dio in cui credo... L’esaminatore mi ha confidato che anch’egli aveva avuto sempre fede, ma mai aveva ricevuto un segno della presenza di Dio. Con poche parole gli ho allora raccontato della scoperta di Dio-Amore come l’avevo fatta nel Movimento dei focolari. Alla fine mi ha detto: “Puoi presentare tutti i documenti per ricevere la patente, perché se io incontrassi 100 giovani con questo ideale di vita, il traffico nelle strade e il mondo intero cambierebbero”. E mi ha promesso di venirmi a trovare».

Una vita
senza più incrinature

L’Eterno Padre desiderava preparare João Carlos alla tappa più importante della sua vita. Pochi mesi dopo il suo ritorno in patria si manifestarono alcuni sintomi di una malattia che poi è stata diagnosticata come leucemia. «Per me è la visita del mio Signore che batte alla porta per entrare» – scriveva al centro gens all’inizio del ’93. «Abbraccio tutto – continuava – con la gioia che ho sempre provato nelle cose di Dio e offro questo dolore per i seminaristi, affinché l’ideale dell’unità si diffonda in tutti i seminari». «Da quel momento – testimonia un sacerdote che l’ha accompagnato in quel periodo – la sua vita non ha avuto nessuna incrinatura, ma è stata sempre un volo verso l’alto».

Durante la terapia, metteva sempre in comune le sue gioie e i suoi dolori, comprese le difficoltà economiche, suscitando in molti una gara perché nulla gli venisse a mancare. Mentre erano in corso i sofferti preparativi per l’operazione, ci ha scritto: «Come vedete non ho nulla di doloroso da dirvi, perché grazie a voi la mia vita è radicata nel Signore e in lui non c’è né tristezza né dolore, ma solo gioie e glorie e questo voglio testimoniarlo a tutti».

E così è stato. Durante quel periodo tra un esame ed un altro ha avuto la possibilità insieme ad un altro seminarista di venirci a visitare nella cittadella Araceli alla nostra scuola per i seminaristi. Durante il giorno, superando i disturbi che la malattia gli procurava, ha voluto accompagnare il suo amico lungo le vie della cittadella, parlare con tutti, preparare la mensa con particolare gusto e, alla fine, mettere in ordine la cucina.

«Il mio corpo è così
ma la mia anima
è tutta un’altra cosa»

Nel novembre del ’93 ha fatto il trapianto del midollo osseo. In seguito sono apparse alcune complicazioni. Sono andato a visitarlo e l’ho trovato come un vero costruttore di unità. Anche se molto debole, donava sempre attenzione e gioia a tutti: ai medici, agli infermieri e a coloro che andavano a visitarlo.

Era cosciente delle difficoltà a cui andava incontro e per questo viveva radicato solo in Gesù abbandonato in croce. Con lui egli si identificava: essendo l’ospedale in una regione molto lontana da casa sua, non aveva vicino a sé la famiglia, non aveva più salute, non aveva forze per pregare e non aveva più neanche la speranza di diventare sacerdote. Veramente quello che aveva affermato tempo prima lo viveva pienamente: «Ho un solo tesoro: Dio; e un solo programma: amare tutti».

Nonostante gli atroci dolori, è rimasto sereno fino alla fine tanto da impressionare e commuovere tutti. Quando pochi giorni prima di morire ha ricevuto l’unzione degli infermi per le mani del vescovo, ha detto: «Il mio corpo è così, ma la mia anima è tutta un’altra cosa».

La Provvidenza non gli aveva fatto mancare nulla ed egli fino all’ultimo ha voluto vivere la comunione dei beni. Al seminarista che l’assisteva ha consegnato 200 dollari per questo nostro congresso. Ed allo stesso tempo seminaristi di tutto il mondo vivevano, nella preghiera e nell’offerta dei loro dolori, ogni momento in unione con lui.

«Se il chicco di grano
cade in terra...»

Il 26 dicembre del 1993 João Carlos è partito per il cielo. Il suo funerale nel paese d’origine è stato una testimonianza di fede e di unità. C’erano due vescovi, trenta sacerdoti, numerosi seminaristi della regione e una moltitudine di fedeli che gremiva la chiesa e cantava le lodi di Dio in un clima di festa, come egli stesso aveva desiderato. Nell’omelia il vescovo ha espresso la certezza che João Carlos sarebbe diventato l’anima di un ampio lavoro vocazionale, perché «se il chicco di grano caduto in terra... muore, porta molto frutto». E come segno concreto ha istituito un fondo per le vocazioni cui ha dato il nome «Fondo João Carlos Rachor».

Per noi João Carlos è stato un seminarista che ha realizzato pienamente il suo ideale: non il sacerdozio, ma Dio.

 

1    Cf la nota nell’articolo precedente.

2     Cf la presentazione della Scuola sacerdotale a p. 68 di questo quaderno.