Costruire il presbiterio

di Jorge PEREZ (Argentina)

Prossimo al sacerdozio, un giovane diacono mette al primo posto l’impegno di instaurare rapporti profondi all’interno del presbiterio. E diventa, quasi senza accorgersene, strumento d’unità in una situazione tutt’altro che facile.

S

ono sacerdote da sei mesi. Mentre ero in seminario anch’io sono stato attratto dalla luce dell’ideale dell’unità. Finiti gli studi, col consenso del mio vescovo, sono venuto per un periodo alla Scuola sacerdotale di Loppiano (Firenze). È stata un’esperienza decisiva per me, perché è stato soprattutto lì che ho appreso vitalmente che cosa significhi l’unità.

Ritornando in Argentina portavo nel mio cuore come unico desiderio quello di essere uno strumento di comunione, specialmente nella mia diocesi molto provata per la scarsità di sacerdoti e per alcune incomprensioni.

Appena tornato, il vescovo mi ha chiesto di vivere insieme a lui per aiutarlo nei lavori di segreteria, ma soprattutto per accompagnarlo nei suoi viaggi e nelle sue visite alla diocesi. Ciò mi ha dato la possibilità di avere molti contatti con i sacerdoti. Ho cercato di ascoltarli veramente, creando un rapporto fraterno con quelli che ancora non conoscevo, e riannodando i legami con coloro con i quali in passato c’erano state difficoltà.

Una parola di Chiara Lubich mi ha guidato durante quei mesi: «Dobbiamo andare incontro soprattutto a chi è più solo». C’erano, fra l’altro, tre giovani sacerdoti che avevano lasciato la nostra diocesi a causa di contrasti con altri preti. Il mio grande desiderio era che, risanate le divisioni, potessero tornare.

Un giorno sono andato a visitare la mamma di uno di loro, che era malata di cancro. Quando egli l’ha saputo, è venuto a trovarmi. È stata l’occasione per accoglierlo, mettendomi il più possibile a sua disposizione. Sono stato tre giorni con lui. Ad un certo punto mi ha parlato delle ferite che si portava dentro e mi ha fatto capire che non pensava di tornare in diocesi. Mi sono limitato a dirgli che era giovane, che molti stavano cambiando atteggiamento, che io confidavo in Dio e in quello che Egli poteva fare nella vita del presbiterio; e ancora che il mio desiderio era di puntare soltanto all’unità, affinché con l’aiuto dello Spirito Santo potessimo diventare una sola famiglia. Dopo quella conversazione ha ripreso fiducia ed è andato a parlare col vescovo, chiedendogli di ritornare in diocesi e proponendogli che vivessimo tutti e due in una stessa parrocchia o almeno nella stessa città.

Una settimana dopo è venuto il secondo di quei sacerdoti. Aveva lasciato il ministero per un anno e l’aveva poi ripreso in un Paese limitrofo. Appena ho saputo che era arrivato sono andato a cercarlo. Da allora è venuto tutti i pomeriggi a stare con me in vescovado e celebrava ogni giorno con me l’Eucaristia. Durante le due settimane in cui ci siamo visti, mi ha ripetuto che non sarebbe mai più tornato in diocesi, che si trovava bene nel posto dov’era. Io gli dicevo che l’importante era che lui si trovasse bene servendo la chiesa, che il posto era secondario... Il vescovo era stato fuori durante quei giorni. Con mia sorpresa, quando è tornato hanno parlato e il sacerdote gli ha detto che era disposto a ritornare in diocesi, se il vescovo lo riteneva opportuno, e gli ha espresso il desiderio di abitare assieme ad altri sacerdoti.

Poi sono andato a trovare il terzo sacerdote «in esilio». Nella diocesi dov’è adesso lo stimano moltissimo. Sta lavorando con tanti frutti e non vorrebbero lasciarlo partire. Mi ha confidato però che si fermerà lì ancora un anno; poi desidera tornare nella «sua» diocesi per contribuire a costruire l’unità del presbiterio.

Da diversi mesi tutti i lunedì – giorno di riposo per i sacerdoti – ci troviamo a passare la giornata insieme, per crescere nella fraternità e nella comunione, con quei tre sacerdoti, il vescovo e altri che vogliono partecipare.