Una via che non ignora le sfide

di Bart BENATS

N

on c’è dubbio: le ore dedicate alle testimonianze sono state tra i momenti più partecipati del Congresso; esperienze di seminaristi ed anche di sacerdoti, provenienti non di rado dai punti più caldi, che facevano toccare con mano che l’unità non è un’aspirazione romantica, ma una sempre nuova conquista nel quotidiano. Conquista possibile anche nelle condizioni più difficili, benché, in realtà, la grande partita dell’unità si giochi soprattutto nelle piccole cose di ogni giorno.

Dipende – ed è stato questo che ha colpito – da come si affrontano le situazioni. Sovente siamo trascinati dalle circostanze e quindi rimaniamo passivi. E invece si può, soprattutto se si cerca di farlo insieme, guadagnare distanza dall’evolversi cieco e a volte vorticoso di tante situazioni, per poi reimmergersi nella mischia, non più sopraffatti, ma guidati dalla sempre nuova e straordinariamente risolutiva logica del vangelo. È il caso di Gilbert del Burundi, di Nereu del Brasile, di Stefan dell’Austria e di altri ancora le cui esperienze sono riportate sulle pagine seguenti e nella seconda parte di questo quaderno.

Un ideale, dunque, che non ignora le contraddizioni e divisioni che attraversano l’umanità e quindi la vita di ogni seminarista di oggi. Lotte etniche, malattia e morte, tensioni nella Chiesa, individualismo e consumismo da una parte e mancanza del necessario per vivere dall’altra: sono altrettante situazioni limite in cui il nostro mondo si dibatte. E i sacerdoti, che non di rado si trovano esposti e soli nei punti nevralgici della vita ecclesiale e sociale, sono spesso come sismografi che registrano fedelmente, nel proprio vissuto, ciascuna di queste scosse. Come fare a non rimanerne scombussolati?

C

on voce profetica, ancor trent’anni fa il Concilio Vaticano II aveva indicato come via da seguire la comunione presbiterale. Eppure a nessuno che abbia un po’ di conoscenza di causa sfugge come sia tuttora una via alquanto accidentata. E non per mancanza di buona volontà, semmai per l’assenza di modelli sufficientemente concreti e soprattutto perché tale via presuppone in realtà una svolta che va alle radici: dall’individuale al collettivo, dalla molteplicità degli «io» armonizzati in qualche modo a «un cuor solo e un’anima sola».

È

 su questo punto che ha fatto leva il Congresso di Castel Gandolfo. E pur nella inevitabile limitatezza, le numerose testimonianze che vi si sono portate hanno effettivamente offerto – al dir dei seminaristi presenti – modelli concreti, che hanno avuto in molti l’effetto di una presa di coscienza luminosissima. E di conseguenza si sono sbloccati in più di qualcuno certi travagli esistenziali che spesso si ha il coraggio di manifestare soltanto quando si vedono già avviati a soluzione.

Per quattro giorni sacerdoti e seminaristi hanno raccontato del loro sforzo di essere «costruttori d’unità» nei seminari, nelle parocchie, nel presbiterio diocesano. E veniva in luce come prima ancora dei grandi cambiamenti sono importanti i piccoli passi nel quotidiano. Da semplici atti che scaturiscono dal vangelo vissuto nascono a volte sviluppi che nessuno avrebbe previsto, come è successo a Calcutta, Friburgo, Granada, San Gil ed altrove ancora. Per non parlare di tutto il versante più laico che si è espresso, al Congresso, fra l’altro, nella presentazione del progetto di una «economia di comunione»

Non erano però solo questi esempi di comunione reale a far breccia nei cuori dei partecipanti, ma soprattutto la chiave che li rendeva possibili: l’abbandono di Gesù in croce riconosciuto e rivissuto come via all’unità. Testimonianze quanto mai significative hanno evidenziato come anche situazioni di dolore e di apparente fallimento possono trasformarsi in incontri veri con Dio e in fonte di vita nuova che a poco a poco trasforma gli ambienti più diversi, le culture, il mondo lontano da Dio.

R

endersi conto che tutto questo non è soltanto la trovata dell’uno o l’altro, ma uno stile di vita praticato nei più svariati contesti da centinaia e migliaia di sacerdoti e seminaristi, è stata per molti una scoperta che fa coraggio.

 

 

Un cestino
per le cose superflue

dal seminario di
Friburgo – Svizzera

I

l nostro seminario è suddiviso in vari gruppi di vita e talvolta si trascorre assieme un week-end. In una di queste occasioni, approfondivamo la Pastores dabo vobis. Pensavo che era importante lasciarci alla fine di quei due giorni con qualcosa di concreto. Ho cercato di mettere in rilievo allora come questo documento incoraggi i preti ed i seminaristi a «rinunciare ai beni superflui» ed ho suggerito di concretizzare tra noi questa indicazione. Il professore dell’università che animava il week-end ha subito appoggiato l’idea e si è detto disposto a dare anch’egli il suo contributo. Insieme abbiamo quindi deciso che ciascuno avrebbe messo il suo superfluo in un cestino nel nostro salotto comune. Nei giorni successivi, il cestino man mano si riempiva e tutti hanno constatato che effettivamente questo modo di fare aiutava a costruire la comunione.

Qualche tempo dopo, sono giunti in seminario per lavori due giovani di un centro per accoglienza ed il nostro gruppo si è occupato di loro. È stata l’occasione di raccontare anche del cestino e di condividere qualcosa con loro. «Non ci saremmo mai aspettati di trovare in un seminario un’accoglienza ed un ambiente del genere», ci hanno detto.

 

I tavoli nel refettorio

dal seminario di
Calcutta – India

I

l seminario Stella Mattutina di Calcutta raccoglie 150 seminaristi di tutta l’India. Per cui ci sono tante lingue, tradizioni e gusti diversi, nel modo di vestire e di mangiare, con le conseguenti divisioni che ne nascono.

Le differenze erano molto visibili a tavola. Da tanti anni ormai c’erano tre lunghissime tavolate soprannominate coi nomi dei treni che da Calcutta portano nel Sud (Coromandel Express) o nel Nord Est (Gauhati Mail). La prima tavolata raccoglieva infatti tutti quelli dal Sud dell’India e la seconda quelli del Nord Est. Al centro c’era una terza tavolata che riuniva coloro che non appartenevano a nessuno dei due gruppi di maggioranza.

Ad un certo punto alcuni seminaristi hanno capito l’importanza di costruire ponti tra questi gruppi ed hanno iniziato a sedersi con tutti senza far distinzione di sorta. A poco a poco, non senza difficoltà e critiche, tante barriere sono cadute e si sono costruiti rapporti al di là delle differenze di diocesi, provenienza, rito e lingua.

 

Restauro
di un corridoio

dal seminario di
Regensburg – Germania

N

el seminario di Regensburg in Germania 13 seminaristi si accorgono che il corridoio che abitano non è molto curato. Nasce allora l’idea di restaurarlo e di eseguire questi lavori – cosa inedita – con le proprie mani.

«Pareva un’impresa piuttosto pratica – racconta uno di loro – ma ben presto ci siamo accorti che era anche un’occasione per costruire sempre di più insieme la vita di seminario. Le idee non mancavano, e qui è iniziato per tutti noi un prezioso allenamento: imparare a comunicare il proprio pensiero senza timore e come un dono; e poi essere pronto a modificarlo o a lasciarlo del tutto da parte per accogliere quello dell’altro. Il risultato non è stato un compromesso ma una proposta comune di tutti. Per cui, quando l’abbiamo presentata al rettore, gli è subito piaciuta ed egli ha provveduto al finanziamento.

Rimboccandoci le maniche, ci siamo messi all’opera: chi col legno, chi a sistemare le piante, chi con l’impianto elettrico. E pian piano il nostro corridoio ha cambiato radicalmente aspetto. Ora ogni volta che qualcuno visita il seminario, ci viene spontaneo raccontare questa esperienza che ci ha fatti diventare più famiglia».

 

Un patto
di amore reciproco

dal seminario di Fermo – Italia

È

 stato tre anni fa che durante una revisione di vita comunitaria sono venute in rilievo profonde difficoltà nei nostri rapporti. In tutti c’era il desiderio di un cambiamento in positivo, ma non si capiva come sarebbe potuto avvenire. Ripensando ad un’esperienza vissuta l’estate precedente, uno di noi ha proposto di rinnovare fra tutti l’impegno di amarci a vicenda, dicendoci senza mezzi termini di essere pronti a dare anche la vita l’uno per l’altro. La proposta, originale ed impegnativa, ha suscitato sorpresa. Ma dopo un po’ la comunità ha accettato con gioia. Durante la compieta ognuno ha dichiarato di voler vedere ciascuno con «occhi nuovi» e si è detto disposto a dar la vita per gli altri. Il rettore restò profondamente colpito e durante la Messa del giorno dopo disse: «Sono sicuro che il gesto di ieri sera costituisca una svolta decisiva per la vita del seminario».

A tre anni di distanza, pur nelle immancabili e ricorrenti difficoltà e passi indietro, ci pare di poter dire che è stato proprio così. Sembra maturato fra noi uno spirito di autentica famiglia: prima di correggersi ci si aiuta reciprocamente.

 

Di fronte alla crisi
delle vocazioni

dal seminario di
Graz – Austria

Q

uando sono entrato in seminario, eravamo stati in 14 ad iniziare gli studi. Ma ben presto le vocazioni sono fortemente diminuite e così quattro anni fa hanno cominciato il primo anno soltanto in tre.

Incaricato l’anno dopo dal rettore dell’accoglienza dei nuovi studenti, sentivo di non potermi rassegnare passivamente a questa tendenza ormai generale in Austria. L’ideale dell’unità mi ha spinto a chiedere a Dio ogni giorno non tre o quattro, ma dieci nuovi seminaristi. Dopo averne parlato a qualche compagno e sacerdote, in diversi si sono uniti alla mia preghiera. Il rettore ne fu molto sorpreso: «Non è mai successo – ha detto – che i seminaristi si siano presi così a cuore le vocazioni».

Al momento di partire per le vacanze estive mi ha dovuto però comunicare con tristezza che si erano presentati appena quattro o cinque nuovi studenti e che a questo punto era del tutto improbabile che aumentassero ancora di molto. Qualcosa dentro di me mi spingeva a dirgli: «Eppure, io ci credo ancora».

Un giorno prima che iniziasse la settimana introduttiva, improvvisamente il rettore mi ha telefonato: «Stefan, non lo sa ancora nessuno, ma volevo comunicartelo subito: oggi si è presentato il decimo!». Negli anni seguenti questa esperienza si è ripetuta: sono stati per due volte dieci i nuovi seminaristi, e l’anno scorso undici.

 

Prima vivere e poi parlare

dal seminario di
Diamantina – Brasile

N

el mio stato la tradizione del venerdì santo prevede una predica sulla deposizione di Gesù dalla croce. Quest’anno è stato chiesto a me di tenere il discorso. Di solito queste prediche portano la gente più all’emozione che non ad un cambiamento di vita. Mi sembrava che il modo migliore per ovviare a questo rischio era raccontare della mia esperienza di amore a Gesù crocifisso.

Stavo per cominciare, ma c’era tanta confusione e la gente non smetteva di parlare. Avrei voluto non dire niente e cominciare semplicemente la processione, quando mi sono accorto che questa era proprio un’occasione per amare Gesù crocifisso e fare in prima persona l’esperienza di ciò che volevo dire. Con mia sorpresa, a questo punto la folla, dai bambini fino ai più anziani, si è messa a tacere.

Ho parlato poco, ma ho raccontato la mia esperienza. Qualcuno mi ha detto dopo che mai c’era stato un silenzio tale e che le mie parole avevano avuto profonda ripercussione sulla vita della comunità. Ho compreso allora come sia importante innanzi tutto vivere e poi parlare.

 

Teatro e più

dal seminario di
Bordeaux – Francia

L

a formazione nel seminario di Bordeaux prevede l’inserimento dei seminaristi in qualche realtà che non sia in alcun modo legata alla vita ecclesiale. Così, da circa tre anni, faccio parte di un gruppo di teatro moderno.

Non è stato sempre facile. L’équipe era composta da persone di tutti i tipi, ma ho cercato di calarmi in questa realtà così diversa dalla mia, cercando di «farmi uno» in tutto. Mi chiedevo però se davvero era riuscito questo inserimento.

Alla fine del primo anno, con mia sorpresa, sono stato invitato a cena dal regista. Egli era lontano dalla chiesa, ma era molto interessato al mio modo di concepire la vocazione come un dono per tutti e mi ha ringraziato del mio «ascolto», che gli rendeva più facile la comunicazione con l’intero gruppo.

Man mano anche altri frutti sono venuti in evidenza. Diversi giovani mi hanno espresso il desiderio di approfondire la loro fede e di intraprendere un cammino spirituale. Abbiamo allora cominciato a mettere in pratica or l’una or l’altra Parola della Scrittura e ad incontrarci regolarmente per uno scambio di esperienze. Alcuni che erano lontani dalla chiesa, in tal modo si sono riavvicinati o hanno in qualche modo ritrovato un rapporto con Dio. È stata una grande gioia quando il giorno della mia ordinazione diaconale hanno voluto portare la loro testimonianza a tutti.

 

Un mese
tra i Mangyans

dalla regione di Manila – Filippine

S

ono stato mandato dal vescovo per un mese tra i Mangyans, una tribù di indigeni che abitano sulle montagne di Mindoro, un’isola al sud-ovest di Manila. Le preoccupazioni e le paure non mancavano, ma ho chiesto a Dio un cuore vuoto e aperto, capace di amare senza limiti.

Giunto al villaggio, sono stato invitato a cena nella capanna di una grande famiglia. Ho mangiato con loro in un piatto comune e ho bevuto in una tazza che ci si passava l’un l’altro. È stata la prima di una serie di lezioni nell’arte di farmi uno con loro.

Col tempo ho imparato qualcosa del loro dialetto e questo mi ha permesso di entrare più profondamente nella loro ricca cultura. I Mangyans non possono essere superati in generosità. Ho notato che è una cosa ordinaria per loro condividere quello che hanno. Abitavo in una piccola capanna tradizionale senza luce, né letto, sedie o tavolo, né un servizio. Mi hanno portato cibo e alcuni arnesi di lavoro per mio uso. Da parte mia ho condiviso con loro la piccola porzione di viveri che era giunta dalla stazione missionaria. Così per i giorni successivi dipendevo da quello che raccoglievo nelle montagne. Un’altra volta abbiamo visitato un villaggio vicino ed ho dovuto scalare vari monti a piedi nudi.

Quello che era essenziale in queste esperienze era morire momento per momento a me stesso, al mio modo di pensare e di agire, per farmi uno con i Mangyans, che in cambio hanno arricchito la mia vita più di quanto potessi immaginare.

L’ultimo giorno l’intero villaggio ha organizzato una festa e mi ha colmato di così tanti doni che dovevo essere accompagnato alla città da cinque di loro. Prima di ripartire, il capovillaggio ha tolto dal suo polso un braccialetto ereditato dai suoi antenati e me l’ha donato dicendomi: «Tu sei un amico molto speciale. Possa questo piccolo dono ricordarti il nostro incontro, che custodiremo sempre nel nostro cuore».

 

Costruttore di pace

da un seminario
del Burundi

Q

uando un anno fa è scoppiata con nuovo vigore la crisi socio-politica che scuote da tempo il mio Paese, anche nel mio villaggio si sono scontrate le due etnie e uno dei due gruppi si è rifugiato negli ambienti della parrocchia dove pensava di essere più protetto. Per aumentare la sicurezza, le strade erano sbarrate con alberi ed i ponti erano bloccati. Neanche all’arrivo delle forze dell’ordine i contrasti si sono fermati e gli uni fuggivano verso la palude mentre gli altri si muovevano verso le piantagioni di banane.

Davanti a tale situazione mi sono venute mille domande: chi riconcilierà questa gente? Come vivranno di nuovo insieme? Cosa fare come cristiano? Incapace di rispondere a questi interrogativi, ho affidato ogni cosa a Gesù nell’Eucaristia e ho chiesto a lui la grazia di saper essere al servizio dell’unità ed usare tutti i mezzi possibili per unire chi era così diviso.

Ma come fare? Profondi dubbi mi assalivano ed ho aspettato ancora fino all’indomani. Fu solo il pensiero a Gesù abbandonato in croce e l’amore per lui a donarmi la forza di mettermi finalmente in moto e di fare il primo passo.

Arrivato su una collina prossima ad uno dei due gruppi etnici, si sono avvicinati alcuni, all’inizio timidamente, poi in numero maggiore, incoraggiandosi a vicenda. In un clima di scambio e di apertura ho parlato con loro. Alla fine mi hanno accompagnato e mi hanno incaricato di rassicurare l’altro gruppo e di esprimergli la loro volontà di tornare a vivere insieme.

Così con l’aiuto di Dio siamo arrivati attraverso il dialogo alla riconciliazione; riconciliazione che persiste fino ad oggi, in mezzo a tutte le difficoltà che vive il nostro Paese.