Una visuale più oggettiva in base ad una mentalità ecumenica

 

Martin Lutero
e il cuore della fede cristiana

di Hubertus Blaumeiser

 

Proponiamo il testo di una relazione tenuta dall’autore, specialista in Lutero, durante l’ultima Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

Qualche premessa

Ciascuno di noi avrà una sua idea di Martin Lutero. Spesso per i cattolici egli è innanzi tutto il personaggio col quale si è consumata la dolorosa divisione dei cristiani in Occidente. Se sappiamo un po’ più di lui ci potranno venire in mente i tre famosi principi nei quali si è soliti concentrare le novità della Riforma protestante nei confronti della chiesa cattolica: sola Scriptura, sola fides e sola gratia – interpretandoli magari così: solo la Scrittura e con ciò il rifiuto della Tradizione e del Magistero; solo la fede e con ciò il rifiuto delle buone opere; solo la grazia e con ciò la negazione della libertà umana. Chi ha studiato la storia, sempre in campo cattolico, avrà ancora altre precomprensioni. Avrà presente, ad esempio, che Lutero dapprima era un monaco e poi ha lasciato il monastero e si è sposato. Oppure ricorderà come le sue scoperte più decisive siano avvenute nel contesto di una profonda crisi esistenziale. Oppure sarà anche lui della diffusa opinione che il cristianesimo che predica Lutero è assai soggettivista e la sua idea dell’uomo oscura e pessimista.

Sarebbe da parlare a lungo di tali valutazioni e vedremmo quanto siano spesso grossolane. Ma non è questo il nostro intento in questa occasione. Propongo di cambiare prospettiva. Anziché muoverci in una logica di divisione e di sospetto, vorremmo collocarci nella prospettiva di quello «scambio dei doni» che è una delle grandi intuizioni lanciate da Giovanni Paolo II per il futuro del cristianesimo.

Ecco allora il nostro taglio di fondo: non vorremmo soffermarci su questo o quell’altro limite di Lutero, che bisogna pur riconoscere – come del resto ammettono con franchezza gli stessi evangelici – né sottolineare le distanze che tuttora esistono fra le chiese, ma vorremmo semplicemente metterci in profondo ascolto davanti a questo personaggio, indubbiamente grande, della storia del cristianesimo per scoprire ed accogliere, per quanto è possibile, il suo caratteristico dono. È solo sullo sfondo di tale accoglienza reciproca che sempre di più si potrà affrontare e, speriamo, anche superare quello che ci divide.

Che cosa, dunque, Lutero ha da donare per la nostra comprensione del cuore della fede cristiana? Ed in che senso egli può essere di aiuto per tutti noi che desideriamo seguire Gesù e testimoniare al mondo il suo messaggio? Prima di affrontare queste domande così impegnative, devo fare una seconda premessa. Sono convinto che tutto quello che potrò dire non è che un tentativo; e soprattutto che occorre armarci di tanta delicatezza e non aver fretta. Bisogna a lungo convivere con una persona per poter cogliere in profondità quello che essa ha da offrire. E non si può mai dire di aver capito già tutto. Cercherò allora di raccontare qualcosa della mia «convivenza» con Lutero che è iniziata con la mia tesi di laurea e che dura ormai da oltre 10 anni. E premetto subito che questa convivenza è stata per me estremamente arricchente, perché mi ha fatto cogliere molto più in profondità tanti aspetti della fede cristiana.

L’esperienza di Dio

Cominciamo dall’esperienza di Dio. Tutto inizia per Lutero dalla domanda: «Come posso trovare un Dio misericordioso?». E sullo sfondo di questa domanda c’è una grande angoscia – l’esperienza della «tribolazione» (Anfechtung) appunto, come egli la chiama – che può raggiungere una tale intensità da essere un’autentica esperienza d’inferno. «Conosco un uomo – ha scritto, con ovvio riferimento a sé, nel 1518 – che ha assicurato di aver più volte patito pene di questo genere; esse sarebbero durate solo per pochissimo tempo, ma sarebbero state talmente pesanti ed infernali che nessuna lingua potrebbe dirlo, nessuna penna descriverlo, nessun inesperto crederlo; cosicché, se [queste pene] raggiungessero il loro massimo grado o durassero anche solo mezz’ora, l’uomo perirebbe inevitabilmente e tutte le sue ossa sarebbero ridotte a cenere (...). In quel momento l’anima non può credere di poter essere un giorno redenta» (WA 1, 557s.; Resolutiones sulle 95 tesi).

Come mai quest’esperienza? Essa nasce da quella profonda contraddizione che c’è in tutti noi e che s. Paolo nella lettera ai Romani descrive così: «io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 19). Per Lutero che, oltre ad aver studiato a fondo s. Paolo, ne ha fatto l’esperienza, è fuori dubbio che nessuno di noi può superare da sé questa contraddizione. Con questo egli non vuol dire però – come spesso si pensa – che noi non possiamo evitare le azioni cattive. Il nostro problema è molto più intimo ed è assai sottile. Anche quando facciamo il bene, c’è sempre una segreta tendenza in noi di farlo, alla fin fine, in funzione di noi stessi, magari per essere bravi e giusti, anziché farlo – come Dio vuole – solo per amore e quindi con il disinteresse più assoluto. In una parola: c’è in noi una incurvatio, cioè un ripiegamento su di noi, che si nasconde anche sotto le azioni e i motivi più nobili. E questo è un vero dramma. Perché nessuno di noi può liberarsi da questa tendenza. Se uno cercasse di farlo, per essere finalmente giusto e santo, sarebbe già di nuovo alla ricerca di sé e ricadrebbe con ciò in quello che per Lutero è il «peccato» per eccellenza.

Quando l’uomo percepisce questo, capisce che è veramente perduto e rischia di cadere nella disperazione più nera perché sa quello che Dio vuole da lui e lo accetta, ma non è in grado di compierlo fino in fondo. Non è capace di amare con tutto il cuore Dio e il prossimo. Vedendosi irremediabilmente perduto, sperimenta allora la tremenda ira di Dio. Ed è appunto questo che Lutero chiama «tribolazione».

In anni di angosciosa ricerca Lutero è arrivato però a rendersi conto che questo è appena un aspetto del cristianesimo. Dio non è solo giudice e non ci ha dato solo la legge. C’è tutt’un altro aspetto del messaggio cristiano che è il vangelo, la buona novella: proprio là dove noi siamo al punto zero e non sappiamo più cosa fare, Dio non ci rigetta per sempre, come noi potremmo pensare, ma si china sulla nostra nullità e debolezza e ci ricrea. E questo ad una sola condizione: che noi crediamo, vale a dire, che noi ci abbandoniamo con totale fiducia in lui.

Ecco la grande e liberante scoperta. Se Dio fosse giusto secondo la giustizia umana del do ut des, del dare per ricevere, noi non avremmo nessuna chance davanti a lui. Ma Dio e la sua giustizia non sono così. Anziché costatare soltanto la nostra ingiustizia, il nostro egoismo, la nostra poca santità e il nostro poco amore, e trattarci di conseguenza, Dio è là, pronto a supplire alla nostra nullità, a comunicarci il suo stesso essere, la sua santità e giustizia, e a fare così di noi «uomini nuovi». «L’amore di Dio non trova (nel mondo) quello che esso ama, ma lo crea», dice Lutero nella famosa Disputa di Heidelberg del 26 aprile 1518. E ciò differenzia l’amore di Dio dall’amore nostro che è invece «attirato da quello che è amabile».

Ma lasciamo che Lutero stesso ci riferisca questa sua scoperta: «Allora cominciai – racconta nel famoso frammento autobiografico del 1545 – a comprendere la giustizia di Dio come quella giustizia per la quale il giusto vive per il dono di Dio ed esattamente per la fede (...) come sta scritto: ‘Il giusto vive per la fede’ [Rm 1, 17]. Qui mi sono sentito come completamente rinato e come se fossi entrato attraverso le porte spalancate nel Paradiso stesso. Là immediatamente tutta la Scrittura mi mostrava un volto diverso».

C’è un cantico che come nessun altro riassume per Lutero  l’esperienza di Dio e che egli ha tradotto e commentato nel 1521: è il Magnificat. Dio guarda a chi, come Maria, vive nella coscienza del proprio nulla, e lo colma dei suoi doni. Coloro invece che sono pieni di sé e si ritengono giusti li scuote e li rigetta, non perché vadano perduti per sempre, ma perché riconoscano la loro vera situazione davanti a Dio e pongano anch’essi ogni  fiducia in Dio.

Dio non agisce però soltanto dall’esterno e dall’alto su di noi, quasi non fosse partecipe del nostro destino. In Cristo egli è disceso fin negli ultimi abissi della vita umana. A dimostrarcelo è, per Lutero, in particolare, il grido d’abbandono di Gesù in croce. Perché quel grido? egli si chiede. E la sua risposta è, con s. Paolo e con Isaia: perché Gesù ha fatto talmente suo tutto il nostro, da farsi «maledizione» e persino «peccato» per noi e da sperimentarne tutte le conseguenze (cf. Is 53; Gal 3, 13, 2; Cor 5, 21). Ma proprio così egli ci ha liberati e generati a vita nuova. Perché mentre Gesù prende su di sé tutto il nostro peccato e perciò ce ne libera, egli ci comunica, come in un vero sposalizio, la sua giustizia (cioè, «ci giustifica»).

L’esistenza cristiana

Se Dio è così, che cosa dobbiamo fare noi? Innanzi tutto: nulla! risponde Lutero. O meglio: lasciar fare Dio. È da lui infatti che parte ogni iniziativa. Ed è solo lui che può dare la svolta alla nostra situazione e farci nuovi.

C’è quindi una fondamentale passività che caratterizza la vita cristiana. Quello che semmai dobbiamo «fare» – benché anche questo in realtà è un dono – è solo «credere», vale a dire: non fidarci né di noi e delle nostre possibilità, né di alcun’altra cosa o creatura, ma soltanto di Dio. Credere vuol dire: aggrapparci a Dio solo, accettare di dipendere in tutto da lui e perciò nascere e rinascere continuamente da lui. Lutero non ci nasconde come questo sia per noi tutt’altro che facile. Anziché riconoscere la nostra radicale bisognosità, noi preferiremmo poter fare da noi. E invece, occorre che noi abbiamo il coraggio di discendere con Cristo in tutta la nostra nullità ed impotenza, per lasciare che lui le capovolga e le riempia.

Tutto questo non si riferisce ovviamente ai nostri compiti quotidiani nel mondo che, anche secondo Lutero, possiamo e dobbiamo adempiere con pieno impegno. Ciò che a lui interessa è la dimensione ultima della esistenza umana: come possiamo diventare «uomini nuovi», veramente capaci di fare opere buone, vale a dire di amare disinteressatamente? E a questo proposito egli ci invita alla massima sincerità e ad un realismo estremo. Non lo possiamo diventare da noi stessi. Occorre una radicale rigenerazione che può operare soltanto Dio. Ignorare questo significherebbe pretendere di poter autoredimerci e, allo stesso tempo, chiedere a noi stessi qualcosa che sarà sempre più grande di noi. Cadremo allora, come Lutero credeva di poter osservare in molti dei suoi contemporanei, o in un’autosufficienza superba o in una vita piena di scrupoli, per approdare alla fine alla disperazione.

Quindi, come vediamo, assieme al realismo estremo, Lutero predica la massima speranza, giacché non siamo soltanto quello che noi stessi riusciamo a fare di noi, come pensa chi vede le cose da un punto di vista soltanto umano. Siamo opera di Dio che ci lavora e ci trasforma instancabilmente soprattutto attraverso la sua Parola. Ecco allora che cosa significa «sperare»: prendere sì coscienza della nostra situazione di impotenza e di nullità, ma non stare poi a guardarci e lamentarci, bensì elevare nella fede lo sguardo e il cuore a Dio che è sempre là a colmarci della sua misericordia e a comunicarci la vita nuova.

Questa nuova vita è un puro dono al quale l’essere umano, secondo Lutero, non contribuisce in alcun modo. Essa nasce dalla sola fede e dalla sola grazia, senza l’apporto delle nostre opere e della nostra volontà. Ma questo non vuol dire che dobbiamo rimanere inattivi per sempre e che non ci vogliano le buone opere. Nulla infatti c’è di più operoso della fede. Bisogna però che sia sempre salvaguardato il giusto ordine. Prima occorre – dice Lutero con un’immagine cara alla Scrittura (cf Mt 7, 17-20) – che diventi buono l’albero, e questo avviene per la sola grazia. Ma poi quest’albero non può non portare i frutti corrispondenti, vale a dire produrre opere buone. C’è un’altra immagine per la quale Lutero si ispira alla parabola del Buon Pastore, dove si dice che le pecore «entrano» ed «escono» attraverso Gesù (cf. Gv 10, 9). Una volta che qualcuno, nella fede, è entrato in Cristo – e questo avviene senza le opere -, egli deve anche uscire con Cristo e mettersi  il più possibile al servizio del prossimo.

Ecco perché il cristiano è – come Lutero dice nel suo famoso Trattato sulla libertà cristiana del 1520 – non solo «un signore libero al di sopra di ogni cosa e non soggetto a nessuno» ma anche «un servo disponibile a tutte le cose e soggetto a chiunque» (WA 7,21). Per Lutero questo non è che la conseguenza di quella profonda unità con Cristo, ed anzi della presenza di Cristo in noi, che deriva dalla fede. Radicato in Cristo, il cristiano non può non diventare a sua volta – come Lutero dice ancora nel Trattato sulla libertà – «un Cristo» per il suo prossimo (cf. WA 7,35,34-35). «Come Cristo è uscito da Dio – scrive il Riformatore nel suo Secondo Commento ai Salmi – e ci ha attirati a sé, senza cercare nella sua vita mai nulla che riguardasse lui, ma [solo] quello che riguarda noi, così anche noi una volta entrati nella fede dobbiamo uscire, ed attirare anche altri senza cercare null’altro che di salvare molti assieme a noi attraverso il servizio a tutti» (WA 5,408,10-13).

Vale la pena approfondire ancora un po’ questa comprensione così sintetica ed insieme così ricca della vita cristiana. «Come Cristo ha accolto te ed ha fatto suoi i tuoi peccati e tua la sua giustizia – scrive Lutero nel 1516 ad un suo confratello -, (...) così anche tu (...) devi accogliere i fratelli (...) e sopportarli con pazienza e fare tuoi i loro peccati e, se hai qualcosa di buono, lasciare che esso sia di loro» (a Georg Spenlein; WABr 1,35,35-40). Essere per gli altri «un Cristo» significa quindi, condividere ogni cosa con loro e, allo stesso tempo, vivere radicalmente fuori di sé, come testimoniano splendidamente le ultime righe del Trattato sulla libertà cristiana: «Segue da tutto ciò la conclusione che un cristiano non vive in se stesso, ma in Cristo e nel suo prossimo; in Cristo attraverso la fede e nel prossimo attraverso l’amore» (WA 7,38).

Ecco, dunque, l’esistenza cristiana secondo Lutero: essere in Cristo – la fede –, e in virtù di Cristo essere un altro Cristo – l’amore. Ma questo sarebbe senz’altro un ideale poco realistico, se non ci fosse ancora un altro aspetto nella teologia e nella spiritualità di Lutero.

Teologia della croce

Tutta la teologia del Riformatore era partita e rimane sempre segnata dall’esperienza della profonda contraddizione che caratterizza la vita umana; contraddizione che in questa vita non possiamo superare una volta per tutte. C’è infatti in noi, per quanto possiamo essere credenti, sempre una duplice realtà: da un lato la vita nuova della grazia che ci porta a credere ed amare, dall’altra parte riaffiora inevitabilmente, sempre di nuovo, la tendenza a cercare e ad amare alla fine solo noi stessi.

Con s. Paolo Lutero parla perciò dell’uomo nuovo e dell’uomo vecchio dentro di noi e non si stanca mai di sottolineare il profondo divario fra carne e spirito che attraversa la nostra vita. Come per s. Paolo però, anche per Lutero carne e spirito non sono da identificare con il corpo e l’anima, ma indicano le due maniere opposte di vivere che si contrastano continuamente in noi. Se la carne porta l’essere umano a far centro dentro di sé e lo conduce perciò all’autosufficienza e al non rapporto, lo spirito porta a vivere – come diceva il Trattato sulla libertà cristiana – radicalmente fuori di sé e ad avere quindi il suo centro non in sé, ma in Cristo, ed allo stesso tempo, nel prossimo.

È per questo fondamentale contrasto che Lutero afferma che anche il cristiano è simul iustus et peccator, cioè allo stesso tempo giusto e peccatore. Spessissimo i cattolici hanno concluso da questa formula che Dio, secondo Lutero, non trasformerebbe veramente l’essere umano, ma lo giustificherebbe solo in maniera «forense», vale a dire che Dio ci considererebbe «giusti» anche se in realtà siamo rimasti e continuiamo a rimanere peccatori. In realtà, il senso profondo di questa formula è ben diverso. Con essa Lutero ci ricorda che c’è un solo modo di essere veramente cristiani ed è la conversione continua: il passaggio sempre rinnovato dalla maniera di vivere della carne a quella dello spirito, ovvero il passaggio dall’uomo vecchio, che vive concentrato su se stesso, all’uomo nuovo che vive tutto proiettato in Dio e nel prossimo. Dove l’essere umano dimentica di dover compiere questo passaggio o dove, addirittura, si ritiene ormai «arrivato», credendosi giusto, egli non è più nell’uomo nuovo, ma è ripiombato nella sazia autosufficienza dell’uomo vecchio.

Ma c’è di più. Non siamo noi che, in ultima analisi, possiamo compiere questo passaggio. Se pensassimo di poterlo fare da soli, ci baseremmo su noi stessi e ricadremmo con ciò ancora una volta nella forma di vivere dell’uomo vecchio. Ecco perché secondo Lutero solo Dio ci può convertire, cioè invertire l’orientamento ultimo della nostra vita. Non è esagerato dire che qui siamo proprio nel cuore del pensiero del Riformatore.

Guardiamo allora più da vicino quest’opera attraverso la quale Dio ci rinnova. Secondo Lutero essa ha due momenti intimamente connessi tra loro: un momento di discesa e di distruzione e un momento di ascesa e di nuova creazione. Perché nasca in noi l’uomo nuovo, la cui vita è tutta in Cristo, occorre che «prima» – ma è un prima per modo di dire – sia messo a morte in noi l’uomo vecchio, cioè il nostro vivere centrati in noi stessi. Ed ecco allora che nasce il paradosso: per poter compiere in noi l’opera a lui propria – cioè ricrearci – Dio deve compierne una che sarebbe di per sé a lui estranea, cioè ridurci al nulla. Non ci può essere grazia, se non attraverso la croce; non possiamo ricevere la buona novella, se prima non siamo stati scossi, fin nelle fondamenta, dall’annuncio della Legge divina che mette allo scoperto tutta la nostra insufficienza.

È importante vedere che il motivo di questa azione «negativa» di Dio nei nostri confronti, con tutta la dialettica che ne consegue, non è affatto una sua scelta arbitraria. Se non ci fosse in noi quella tendenza della carne che ci porta a riferire ogni cosa a noi stessi, non occorrerebbe questa duplicità e questa negatività nell’agire di Dio. Ma giacché noi rischiamo di essere sempre piccoli idoli di noi stessi, bisogna che Dio sempre di nuovo ci «svuoti» e faccia – come dice il Secondo Commento ai Salmi – «da infelici e superbi dei, uomini veri, cioè bisognosi e peccatori» (AWA 2,226 = WA 5,128-129). Solo così – pensa Lutero – i doni di Dio non finiscono per rafforzare il nostro egocentrismo. Non solo il vangelo e la salvezza, ma anche la croce, le tribolazioni, la legge, il giudizio e la stessa esperienza dell’ira di Dio sono quindi amore, perché passaggio indispensabile sulla via verso la vita dell’uomo nuovo.

Ma l’opera di distruzione è appunto solo un passaggio. Ciò a cui mira è un’autentica rifondazione dell’essere umano. Reso conscio della propria nullità ed insufficienza, esso cade o nella disperazione più assoluta oppure si getta nella fede in Cristo. E allora ha il suo centro non più in sé ma in Cristo. E Cristo diventa il suo vero «sub-iectum»: il fondamento su cui poggia, l’origine del suo agire. Quando Lutero deve riassumere queste sue idee, lo fa volentieri con una frase dalla lettera ai Galati: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).

Per il Riformatore questa non è solo un’affermazione spirituale o un’esperienza rara riservata ai mistici, ma è l’unica maniera di essere autenticamente umani. Penso che stia proprio qui il fulcro della famosa theologia crucis del Riformatore. La persona umana, come la creazione, ha tutto il suo essere nell’amore. «Il sole non risplende per sé e non per sé fluisce l’acqua e così via – scrive Lutero nel Secondo Commento ai Salmi -. Così ogni creatura osserva la legge della carità e tutta la sua sostanza sta nella legge del Signore» (AWA 2,48 = WA 5,38). In noi – prosegue Lutero – a causa del peccato purtroppo non è così. E questo è il dramma cui Lutero dedica tutta la sua attenzione. È però un malinteso concluderne che Lutero predichi un pessimismo totalmente negativo. Contrariamente a quello che può sembrare, l’orientamento ultimo della sua teologia e della sua spiritualità è positivo. Quando Dio attraverso l’esperienza della croce ci strappa a noi stessi e ci fonda in Cristo, egli ci porta a realizzare finalmente la nostra vocazione originaria che è non vivere in noi e per noi ma in Cristo e per gli altri.

Conclusione

Viene spontaneo domandarci come mai un’esperienza del genere non è diventata un dono ma ha finito per causare una spaccatura della chiesa. C’era – e di questo bisognerebbe parlare a lungo – nell’esperienza di Lutero qualcosa di molto nuovo rispetto alla comprensione del cristianesimo che prevaleva in quell’epoca; qualcosa che era troppo nuovo perché potesse essere accolto con facilità; e anche perché egli lo sapesse porgere agli altri già con pieno equilibrio. E qui si apre tutt’un mistero in cui le difficoltà oggettive si intrecciano con la debolezza umana e con il gioco di chi – da vero diabolos che cerca da sempre di compromettere l’unità – non aveva certo interesse che questa novità potesse diventare feconda per l’insieme della chiesa.

Non sta a noi giudicare, ma possiamo impegnarci oggi, con tutte le forze, in quello scambio dei doni che allora non è riuscito. E questo non solo per superare le differenze  che tuttora ci dividono, ma per scoprire, nel dono reciproco, tante ricchezze che attendono di essere ancora più pienamente messe a frutto.

Hubertus Blaumeiser