Come andare avanti?

L’enciclica Ut unum sint sull’ecumenismo è stata definita dal card. Cassidy «storica» e «il documento più importante di questo pontificato». Notevole la ricezione avuta anche nelle altre chiese e comunità cristiane. «Costituisce – dice un documento del Sinodo delle chiese valdesi e metodiste in Italia – non solo per la chiesa romana, ma per tutte le chiese cristiane, una sfida ecumenica che occorre raccogliere». Altri, spesso non teneri con la chiesa cattolica, hanno parlato di «un timbro di autenticità e un calore che colpiscono» (P. Ricca), di «coraggiosa apertura» e di «chiara passione ecumenica» (P. Benzi), «un testo che emana potenza, freschezza e gioia» e costituisce «un grande stimolo per il lavoro ecumenico» (G. Lemopoulos, sacerdote ortodosso responsabile delle relazioni ecumeniche del Consiglio Ecumenico delle Chiese), «dobbiamo prendere molto sul serio queste parole del papa» (I. Noko, segretario generale della Federazione luterana mondiale), e così via.

Ovviamente ognuno di questi giudizi positivi era accompagnato da forti riserve, che d’altronde coincidono con quei temi che la stessa enciclica elenca come i grandi contenziosi che ancora dividono i cristiani d’occidente: rapporto Scrittura-Tradizione, certi aspetti dell’Eucaristia, ordinazione come sacramento del triplice ministero di vescovo-presbitero-diacono, magistero del papa e dei vescovi in comunione con lui, Maria (n. 79); e soprattutto il problema che divide i cattolici da tutti gli altri cristiani: il servizio petrino, per il quale il papa invita tutti i cristiani a «cercare insieme» le nuove forme del suo esercizio (n. 95).

I commenti si moltiplicano da parte cattolica, analizzando i risvolti teologici, spirituali e pastorali dell’enciclica. Tuttavia c’è un aspetto fondamentale che raramente è stato messo in rilievo.

Tutti concordano nel segnalare che uno dei meriti del documento è quello di ribadire l’irreversibilità dell’impegno della chiesa cattolica nel cammino ecumenico. È chiaro che, nonostante involuzioni parziali, indietro non si torna. Però ciò non basta. Arrivati al punto in cui siamo, come andare avanti? La domanda non è banale, dal momento che oggi si riconosce che l’ecumenismo si trova in un periodo di stagnazione, da cui non è facile intravvedere l’uscita. L’enciclica indica con insistenza una via, a nostro avviso, decisiva.

Colpisce la reiterazione con cui attraverso tutto il testo ritorna il tema trinitario. A volte invocando semplicemente il Dio Uno e Trino (nn. 7, 66, 103) o asserendo l’offerta totale della nostra vita a Lui (n. 27). In altre occasioni indicando l’unità trinitaria come «fonte» e modello dell’unità dei cristiani (nn. 8, 9, 20, 21, 26, 62, 100). Ma soprattutto – ed è ciò che vorremmo particolarmente rilevare – indicando concreti atteggiamenti «trinitari» con cui è necessario rapportarsi tra cristiani.

L’enciclica riafferma chiaramente il fatto – tipicamente trinitario – «che la legittima diversità non si oppone affatto all’unità della chiesa, anzi ne accresce il decoro e contribuisce non poco al compimento della sua missione» (n. 50). Per cui è ovvia conseguenza che «la prospettiva secondo la quale la piena comunione va ricercata sia quella dell’unità nella legittima diversità» (n. 54; cf 61).

Perché ciò sia possibile, sono necessari quei «nuovi spazi» che il Dio Trinitario suscita, dandoci «la consapevolezza di certe esclusioni che feriscono la carità fraterna, di certi rifiuti a perdonare, di un certo orgoglio, di quel rinchiudersi non evangelico nella condanna degli ‘altri’, di un disprezzo che deriva da una malsana presunzione» (n. 15). Tutti atteggiamenti anti-trinitari che impediscono di aprire «quello spazio interiore in cui Cristo, fonte dell’unità della chiesa, può agire efficacemente con tutta la potenza del suo Spirito» (n. 35).

Inoltre, richiamando l’espressione del Vaticano II, anch’essa pienamente radicata nella Trinità, che ogni essere umano come ogni comunità può realizzarsi e crescere solo nel sincero dono di sé, aggiunge: «Il dialogo non è soltanto uno scambio di idee. In qualche modo è sempre uno ‘scambio di doni’» (n. 28).

Per diventare un dono le une per le altre, le comunità cristiane devono essere reciprocamente attente a ciò di cui ciascuna ha bisogno: «Occorre dimostrare in ogni cosa la premura di venire incontro a ciò che i nostri fratelli cristiani, legittimamente, desiderano e si attendono da noi, conoscendo il loro modo di pensare e la loro sensibilità (...). Bisogna che i doni di ciascuno si sviluppino per l’utilità e a vantaggio di tutti» (n. 87).

Tale scambio «trinitario» di doni non può essere realizzato senza passare per la croce. Per affermarlo, il documento riporta questo bel testo di s. Cipriano: «Il sacrificio più grande da offrire a Dio è la nostra pace e la fraterna concordia, è il popolo radunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (n. 102).

Il presente numero della rivista vorrebbe offrire un contributo in questa direzione.

E.C.