Flash di vita

 

La prospettiva
comunitaria
in termini laici

Lavoro in un Ministero. La mia attività si svolge per lo più a contatto con personalità politiche ed alti funzionari dello stato e trascorro parecchio tempo dentro il parlamento per seguire l’iter di approvazione delle leggi nelle materie delegate al mio ministro.

Frequentando questo ambiente ho potuto constatare come, anche tra esponenti del potere legislativo, si vada diffondendo una mentalità molto restia ad accettare le regole e l’autorità. Diventa difficile fare una legge, perché sembra che esse debbano solo servire per consentire certi comportamenti e mai per limitarli o vietarli. Spesso si presentano o si chiedono proposte di legge (o anche di referendum) per abrogarne altre o superarne i limiti imposti. E questo anche nelle più delicate materie: droga, adozione di bambini, bioetica, libertà sessuale...

La visione individualistica e relativistica di tipo libertario si dimostra sempre più radicata e si costata che essa ha attecchito un po’ dappertutto nelle varie espressioni politiche. Ciò in molti casi comporta un disorientamento nei confronti del senso dello stato, delle leggi e della loro funzione nella società.

Mi trovo così a pormi in prima persona queste domande «ultime» ed anche a dover sperimentare delle strade per tentare delle risposte, che non abbiano il sapore di «vecchio», tipico di qualcosa che non risulta scelto liberamente, ma che viene imposto dall’alto contro il nostro volere.

Tra le altre, mi è capitata questa esperienza. Un giorno sono stata chiamata in un liceo di Roma per parlare di droga con i ragazzi. La droga è una delle materie delle quali mi occupo di più. Mi sono trovata davanti un campionario di gioventù abbastanza variegato, che più o meno apertamente contestava il fatto che lo stato ponesse il divieto di usare sostanze stupefacenti e ne vietasse il commercio perché, si diceva, «sono io che capisco ciò che è bene e ciò che è male per me, non è lo stato che deve dirmelo». Un ragazzo dichiarò: «Io sono un individualista, sono un egoista e voglio realizzarmi nel mio egoismo e nel mio individualismo».

Occorreva rendere comprensibile in termini «laici» il contenuto della prospettiva comunitaria, che è il rimedio nei confronti di questa visione che si rivela distruttiva; però, come farlo? Desideravo trovare il modo di porgere «l’altro» (il prossimo, diremmo) in una maniera positiva, affinché non venisse più sentito come qualcosa di estraneo, un soggetto che limita la libertà, ma venisse visto come un altro se stesso, per il quale si desidera ciò che si desidera per sé. Allora diventa quasi naturale avere come misura i soggetti più deboli della società.

Così ho cercato di impostare il discorso in questa maniera: si può immaginare che in una società per tanti versi avanzata come la nostra, una grande porzione di essa possa essere nelle condizioni giuste – per cultura, formazione, educazione, contesto sociale... – per decidere liberamente di non usare droga, cosciente dei gravi danni che procura. Ugualmente, tra queste persone ci saranno coloro che invece, liberamente, decideranno di farne uso. Questa si può individuare, diciamo così, come la parte «libera» della società: persone adulte che responsabilmente, in un modo o nell’altro, decidono della propria vita e del proprio destino. Ma è altrettanto vero che esiste un’altra parte di società, magari fortemente minoritaria rispetto alla prima, che – per opposte ragioni di cultura, educazione, contesto sociale, età.... – non è in possesso della stessa libertà di scegliere, perché esposta fortemente a tanti tipi di condizionamenti.

Ora, la legge non pone un divieto volendo imporre una concezione etica, ma lo fa per tutelare la parte più debole della società.

In sostanza, chiederà ai soggetti «liberi» di accettare un limite che ha una ragione positiva, la tutela cioè dei soggetti più deboli.

Ora, ho chiesto, questo limite diminuisce la libertà del singoli? Ho provato a rispondere di no, riflettendo sul fatto che la vera libertà non può essere solo l’autorizzazione a fare, ma deve essere anche la capacità di non fare.

Poi, conducendo il discorso sulla base della concreta esperienza, ho riflettuto sull’enorme importanza che ha la libertà nella vita di ciascuno, ma nel contempo come sia altrettanto importante il riflesso che i comportamenti di ognuno hanno nella vita degli altri.

Riassumo il ragionamento che abbiamo fatto insieme quel giorno: ho proposto di immaginare che una persona cara, alla quale vogliamo molto bene, decide, nella sua libera autodeterminazione, di porre in essere comportamenti autodistruttivi (per esempio, facendo uso di sostanze stupefacenti). Noi assistiamo impotenti, coscienti di dover rispettare la sua libertà, ma inequivocabilmente la cosa ci procura un sentimento di dispiacere e di dolore, perché la persona ci è cara. Immaginiamo poi che lo scenario cambi: quella persona, accorgendosi del nostro dolore oppure anche per altre ragioni, decide di interrompere i comportamenti autodistruttivi. La notizia senza dubbio cambia qualcosa in noi: dal dispiacere passiamo alla contentezza.

La constatazione del riflesso che hanno nella nostra vita le scelte degli altri, ci fa cogliere una verità: se è possibile vivere per affermare la propria libertà, senz’altro ha senso anche vivere in modo da far felici gli altri, che non è rinunciare alla propria libertà, ma significa avere la libertà di non fare, per far felici gli altri.

Si è creato veramente un clima molto bello di dialogo diretto e franco. Alla fine li ho salutati proponendo di continuare la riflessione domandandoci se le regole hanno un senso e qual è.

Ho raccontato questo episodio perché è un po’ paradigmatico dei tipi di discorsi che mi capita di condurre, a volte anche con parlamentari. Ma l’esperienza più forte per me è riscoprire in continuazione come tutto nasce dal rapporto personale. Infatti ho capito ad un certo punto che non debbo in nessun modo occuparmi dell’estrazione culturale e politica della persona con la quale mi trovo, per esempio, ad impostare i contenuti di una legge; debbo essere libera dalle etichette in un modo vero, sostanziale. Sto imparando pian piano a fare questo. Cerco di costruire il rapporto con ogni persona, fidandomi di Gesù comunque presente in ciascuno ed i frutti arrivano.

Ultimamente, per esempio, alla camera si doveva tenere una votazione delicata sempre in materia di droga, su un decreto-legge sul quale c’era una fortissima avversità. Aver lavorato con pazienza, investendo tempo, con i deputati della Commissione, ha fatto sì che il provvedimento in aula fosse votato con due soli voti contrari e due astenuti: una quasi unanimità che si dà molto raramente. L’aria di contentezza che c’era dopo, i saluti scambiati, le manifestazioni di stima, dimostravano che si era costruito un rapporto che non si cancella facilmente.

I. M.

 

 

 

 

 

 

Esiliato,
ma sempre a casa

Mandato a Roma dalla mia diocesi di un paese asiatico per completare gli studi, mi trovai in un mondo per me completamente nuovo. Nel collegio che mi accoglieva e nell’università che frequentavo, da una parte c’era tanto entusiasmo per le nuove aperture operate dal Concilio Vaticano II, ma dall’altra c’era anche tanta confusione. Erano gli anni della contestazione giovanile in Europa.

Per poter andare avanti in mezzo a queste difficoltà, alcuni di noi abbiamo formato un gruppo con l’intento di aiutarci l’un l’altro sia nella vita spirituale che negli studi. Un giorno, mentre eravamo riuniti, ci ha fatto visita un seminarista di un altro collegio, invitandoci a casa sua, essendo anch’egli impegnato con altri seminaristi in uno stile di vita con a base il vangelo vissuto.

Già al primo contatto ci rendemmo subito conto che in questi nostri colleghi c’era armonia tra lo studio e la vita concreta. Le visite successive ci invogliarono ad imitarli, mettendo in pratica, come facevano loro, una frase della Scrittura scelta come guida per un intero mese e che essi chiamavano «Parola di vita».

Ne constatammo subito i frutti: non solo sperimentavamo la luce e trovavamo la strada per andare avanti nel nostro gruppo, ma riuscivamo col nostro esempio a coinvolgere anche gli altri studenti del nostro collegio.

Dopo questo periodo di luce è sopravvenuto per me un momento assai duro: il mio Paese, passato interamente sotto il regime comunista, mi proibiva di ritornare in patria. «A che servono i miei studi, se non posso lavorare per il mio popolo? Perché vivere se non rivedrò mai più i miei cari?». La vita mi sembrava ormai senza senso e il futuro più nero che mai.

Precisamente in quei momenti dentro di me una voce mi ripeteva: «Nonostante tutto puoi sempre ricominciare a vivere, ad essere cioè amore». Questa voce era come una luce che lentamente ma decisamente ridava senso a tutto; sentivo sprigionarsi dal cuore una forza nuova che mi spingeva a vivere con pienezza il momento presente, facendo bene quello che dovevo fare senza preoccuparmi del futuro, anzi gettando ogni preoccupazione nelle mani del Padre.

Adesso, ripensando a quei momenti dolorosi, mi rendo conto quanto essi siano stati importanti per la mia formazione. Fino a quel momento vivevo nel piccolo mondo che mi ero costruito: desideravo raggiungere un certo livello di studi per poi fare certe attività pastorali. Le nuove circostanze mi hanno costretto ad uscire da me stesso, aprendomi ad una comunione più universale.

Cominciai allora a mettere in comune con gli altri, liberamente, i pochi soldi che avevo, a collaborare con loro in diverse attività svolte – come essi mi spiegavano – «in unità», cioè viste insieme, portate avanti insieme e mantenendo sempre tra noi la carità fraterna. Un cristianesimo vivo, in piena sintonia col Concilio ed anche molto rispondente alle esigenze più autentiche della mia cultura.

Passai poi a vivere nella Scuola sacerdotale del Movimento dei focolari che in quel tempo era a Frascati e lì notai subito che la mia vita prendeva una piega ben diversa perché, sebbene fossimo un centinaio di persone, ognuno cercava di vivere per l’altro e quel vecchio ed enorme edificio di un antico convento cappuccino si trasformava ogni giorno in una casa di famiglia.

Quegli anni furono per me particolarmente preziosi. Scoprii la chiesa viva, la chiesa-comunione. Eravamo sacerdoti e seminaristi provenienti da tutti i continenti e tra noi cresceva ogni giorno la conoscenza reciproca , la stima e l’amore. Era per me una gioia prendere contatti con ognuno e conoscere notizie delle varie chiese sparse nel mondo.

Dopo questo periodo, per alcuni anni, ho lavorato in un organismo della chiesa che mi dava la possibilità di servire non solo i cristiani della mia patria, ma tantissimi altri del mio Continente

In seguito ho fatto una preziosa esperienza pastorale in parrocchia insieme ad un altro sacerdote. Ho sperimentato anche qui quanto sia importante per i sacerdoti vivere in comunione, non soltanto per la loro vita personale, ma anche per rendere fecondo il proprio lavoro.

Finalmente ho potuto rimettere piede nella mia patria, ma come straniero. Ho vissuto questo avvenimento nella pace. Non tornavo per riprendermi quanto avevo già donato a Dio, ma per partecipare alla vita cristiana di tutti quelli che incontravo e che si trovavano nelle situazioni più difficili.

Per prendere parte alla messa si alzano alle 3,30 del mattino, perché devono presentarsi presto al lavoro; per andare da un posto all’altro devono aspettare lunghe ore per poi salire su un mezzo di trasporto e sedersi su di un banco di legno stretti tra loro come sardine. Ma questo non toglie nulla alla gioia di poter incontrare le persone e condividerne, almeno per un po’ di tempo, la vita. Un sacerdote amico mi ha offerto il suo letto per dormire: pochi panni stesi sul nudo pavimento!

È stata per me una gioia grande vedere le chiese e le case dei sacerdoti ripiene di giovani per preparare la liturgia, per conoscere il catechismo, per leggere il vangelo e per scambiarsi esperienze sulla Parola di Dio da loro vissuta. Sono stato invitato più volte a raccontare la mia esperienza: come avevo vissuto il vangelo in questi anni lontano dalla patria e l’ho fatto con gioia. Forse era il dono più vero che potevo fare a loro. Ma non c’era meno gioia quando sono stato fermato ed interrogato dalla polizia, perché avevo l’occasione di partecipare concretamente nella sofferenza alla vita della chiesa e della mia gente.

Ho incontrato nel mio paese una chiesa bella, purificata dalla croce, fedele a Dio e al suo popolo. Ne sono contento e pur dovendo di nuovo partire in esilio, sono felice di pagare la mia piccola moneta.

Voglio continuare a costruire la comunione con tutti quelli che Dio mette sul mio cammino per tenere accesa questa luce nell’immenso Continente asiatico.

A. S.