Farsi uno, specialmente con popolazioni e culture diverse, è un processo anche doloroso: è nascere di nuovo quando sei già adulto

 

L’Africa mi ha donato...

di Beppe Costamagna

 

Abbiamo raccolto l’esperienza di un sacerdote diocesano di Cuneo, che da undici anni svolge il suo ministero in Camerun tra i Bangwa nella parrocchia di Fontem, insieme ad altri due missionari: un austriaco e uno scozzese.

S

e devo raccontare qualcosa della mia vita, mi sembra di poter dire che Dio mette dentro di noi dei desideri per poi poterci donare quello che il nostro cuore gli chiede.

Sono entrato in seminario ancora ragazzino e mi sembra che durante gli anni di studio, dalle medie alla teologia, non ho mai dubitato che Dio mi volesse sacerdote. C’erano, però, due cose che non mi lasciavano tranquillo.

Da una parte avevo paura di non farcela in un domani ad essere un prete autentico. Vedevo attorno a me tanti sacerdoti bravi, seri, ma soli. Almeno quella era la mia impressione. Anche quando erano in due o tre nella stessa parrocchia, il più delle volte quello che li teneva insieme, non mi sembrava fosse tanto l’amore l’uno per l’altro, ma il lavoro. Non me la sentivo di essere sacerdote così: un solitario, un uomo senza famiglia.

Dall’altra parte diventare prete non mi bastava, desideravo essere più generoso con Dio, dare di più. Pensavo: «Forse posso diventare missionario!», ma allo stesso tempo avvertivo che questo era qualcosa che veniva troppo da me, come un desiderio di essere diverso dagli altri, di fare qualcosa di speciale. Così ho lasciato perdere, sicuro che Dio un giorno mi avrebbe mostrato la strada.

Ho trovato la mia famiglia...

Una sera con un amico seminarista, Franco, abbiamo visitato una famiglia povera della nostra città, una famiglia che era stata affidata a noi due. Avevamo comperato coi nostri pochi soldi qualcosa: riso, olio, zucchero. Ma mi erano rimasti più soldi di quanti ne avevo spesi per quella famiglia che certamente era più in necessità di me. Quei soldi mi bruciavano in tasca. Sentivo che commettevo una grande ingiustizia.

Mi sono confidato con l’amico, tornando verso casa. Gli ho detto quello che mi pesava in cuore da tempo: il mio desiderio di essere povero per essere più vicino ai poveri. Lui mi parlò della comunione dei beni che viveva in un piccolo gruppo di seminaristi, che seguivano la spiritualità dell’unità del Movimento dei focolari. La cosa mi affascinava perché mi sembrava la risposta non solo alla mia ricerca personale, ma a tanti problemi sociali.

Con loro ho iniziato le mie prime esperienze cercando di mettere in pratica la Parola di vita e facendo i primi passi sulla via della spiritualità dell’unità. Poi ho incontrato dei sacerdoti che vivevano la stessa vita in modo normale, bello, soprattutto vivevano insieme il loro sacerdozio, uniti come veri fratelli. Mi sono detto: «Ho trovato la mia famiglia».

Ricordo la sensazione netta, quasi fisica, il giorno dell’ordinazione, quando disteso sul pavimento dicevo il mio sì totale e definitivo a Dio con questa prospettiva di vivere in comunione: mi sentivo come una palla di biliardo che finalmente aveva trovato la sua buca.

Allo stesso tempo, in questa vita di unità, ho trovato anche la risposta all’altra esigenza, quella di dare tutto a Dio. Per dargli tutto non è necessario andare lontano. Avevo capito che ora e qui si può essere generosi fino in fondo perché, facendo la volontà di Dio nell’attimo presente, si dà tutto a Lui.

Però quel desiderio di lasciare, anche materialmente, tutto per Dio restava acceso, anche se trasformato in disponibilità. Diventare sacerdote mi sembrava volesse dire lasciarsi prendere da Dio, ma anche tenere il cuore aperto alla dimensione del mondo.

Così, prima dell’ordinazione, ho detto al mio vescovo: «Io sono contento di lavorare qui in diocesi, ma allo stesso tempo voglio anche dirle che sono pronto a lavorare in qualunque altro posto». Mi ha risposto: «Lavora qui per cinque anni e poi vedremo». Difatti, dopo cinque anni mi è stato chiesto di andare in Camerun, a Fontem.

Ci sono andato, mi sembra, semplicemente. Proprio per l’esperienza fatta prima, non mi sentivo un eroe, nel senso di uno che lascia tutto e va a fare chissà che cosa. Ancora oggi mi sento un cristiano, uno che si lascia portare da Dio, e Dio porta dove vuole. Mi sento un sacerdote che ama e cerca di servire la gente che gli è affidata, non importa se è della sua diocesi di origine o di un altro Paese; è sempre la chiesa di Dio.

Il missionario?
Un cristiano che cerca di amare

Sono undici anni che lavoro nella parrocchia di Fontem. Siamo tre sacerdoti che cerchiamo prima di tutto di fare un’esperienza di unità tra noi come in una vera famiglia. E sperimento che è da questo amore reciproco, che cerchiamo di mantenere vivo fra noi, che scaturisce il resto. Questo è molto importante anche qui in Africa dove, come hanno sottolineato i vescovi al Sinodo africano, si sente molto la chiesa come Famiglia di Dio. Ma come potremmo costruirla, se prima non ne facciamo esperienza tra noi stessi?

Un piccolo episodio. Era il giorno di Pasqua di tre anni fa e sono tornato a casa alle tre del pomeriggio. Ero stato fuori in un villaggio per quattro giorni, per il lavoro della settimana santa. Avevamo passato tutta la notte del Sabato Santo in veglia di preghiera e avevo solo voglia di dormire. Appena arrivai a casa mi dissero che Vincent, uno dei sacerdoti con cui vivevo, non era ancora rientrato e non aveva la macchina per tornare. Pensai: «Vedrai che si aggiusterà». Mi buttai sul letto, ma non resistetti a lungo. Presi la macchina e andai a cercarlo nel villaggio dove si trovava.

Quando stavo per partire, vidi passare una signora incinta, che a piedi cercava di raggiungere la maternità. Non stava bene e avrebbe potuto partorire lungo la strada, come a volte succede. La presi in macchina e la portai all’ospedale. Il giorno dopo sono andato a visitarla. Aveva già tra le braccia il bambino. Le chiesi: «Ma quando è nato?». E lei: «Appena sono arrivata in ospedale». «Ma guarda – pensai tra me – se non andavo a cercare Vincent, questo bambino sarebbe nato sulla strada e magari sarebbe morto». Poi chiesi alla madre: «Hai già scelto il nome per tuo figlio?». «Certo, lo chiamerò Giuseppe, come te».

A volte non è facile vivere insieme tra noi e farsi uno con gli africani, perché magari si dubita... Bisogna credere, andando al di là delle difficoltà. Questa esperienza mi ha insegnato che l’amore reciproco è sempre fecondo, come nella Trinità.

Africano con gli africani

Così pochi giorni fa sono andato in un villaggio per un funerale: era morta una madre di famiglia. Avevo una sciarpa al collo e istintivamente me la sono legata alla vita, come si costuma qui in segno di lutto. La gente del villaggio, vedendomi arrivare, ha subito notato questa cosa ed è scattata una profonda intesa. Lo si notava dai loro sguardi. Per me era un dono grande: mi sentivo accolto nella loro famiglia, uno di loro.

Certo il farsi uno, specialmente con gente e culture diverse è un processo anche doloroso: è un rinascere quando si è già adulti, un ricominciare da capo ad imparare, perché il patrimonio acquistato serve poco o nulla se non va ripensato. A volte ti senti tagliato fuori, inutile, incapace di farcela, ma poi viene il centuplo che non consiste solo nella nuova ricchezza che ti senti dentro, ma anche nell’amore di Dio che ti ritorna attraverso l’amore della gente.

Devo anche dire che se in questi anni ho dato qualcosa, ho anche ricevuto tantissimo. Soprattutto sono stato aiutato a riscoprire e a vivere certi valori evangelici che l’Africa genuina vive spontaneamente.

Mentre l’Occidente ha sviluppato una cultura basata sulla tecnica, l’Africa coltiva una cultura basata sui rapporti. «Per l’africano – scrive il teologo Ngindu Mushete – la persona umana non è mai una monade. Ciò che definisce l’uomo come persona è il fatto che egli è un fascio di relazioni interpersonali e cosmiche. L’uomo africano è un essere solidale».

Questo mi ha insegnato a non rompere mai un rapporto per risolvere una situazione difficile. Piuttosto aspettare con pazienza che la situazione si risolva da sé, ma salvare il rapporto.

O cose più semplici: in parrocchia le persone si ricevono non in ufficio, ma in salotto, offrendo la poltrona. Poi si accompagnano non fino alla porta, ma fino al cancello del cortile di casa... Un’altra realtà interessante è il concetto del tempo, che è per la persona, non per il guadagno o, semplicemente, per quello che devo fare. Il tempo è per me, per te, per noi.

I primi tempi che ero a Fontem sono andato in un villaggio a celebrare la messa. Arrivo puntuale, ma non c’è nessuno. Ho chiesto se i cristiani sapevano che sarei venuto e mi hanno risposto di sì, invitandomi a prendermi un po’ di riposo: alle dieci sarebbero venuti tutti... In breve: la messa è iniziata alle quattro del pomeriggio.

Dopo questi anni di vita e di lavoro in Camerun mi sembra di dover veramente ringraziare Dio di avermi fatto sperimentare come il farsi uno per amore porti ad un arricchimento e a una pienezza impensate. Ho toccato con mano come siano vere le parole di frère Roger Schutz, il fondatore di Taizé: «Il semplificarsi e il condividere sono una delle più pure gioie del vangelo».

Beppe Costamagna