Spunti sulla vita trinitaria vissuta nella socialità umana

 

Trinità: modello sociale (II)

di Enrique Cambón

 

In un numero precedente avevamo offerto delle indicazioni su alcune caratteristiche che dovrebbe avere la società per modellarsi secondo la Trinità. L’abbiamo fatto seguendo alcuni teologi contemporanei delle varie tradizioni cristiane1. Aggiungiamo adesso altre riflessioni e suggerimenti, frutto dell’esperienza di un carisma del nostro tempo.

C

ome si può desumere dall’articolo precedente, oggi i teologi per descrivere i valori che devono animare una vita sociale modellata secondo la Trinità, in genere partono dalle singole Persone trinitarie. Chi fonda la sua riflessione su un’esperienza basata nella spiritualità dell’unità, sottolinea piuttosto le relazioni trinitarie, con le novità che esse rappresentano per la socialità. A questo riguardo accenniamo soltanto a qualche aspetto fondamentale.

La «pericoresi»

È questo un termine fondamentale in teologia trinitaria, utilizzato nel suo originale greco per mancanza di una traduzione adeguata nelle lingue moderne. Significa la compenetrazione tra le persone, la mutua presenza l’una nell’altra, che permette la più profonda comunione nel rispetto delle identità. Quando si dà un rapporto di questo tipo, ognuno è se stesso essendo l’altro.

Questa è una delle «leggi», delle caratteristiche tipiche della vita divina intratrinitaria, e quindi della dinamica trinitaria vissuta nella socialità umana. Chi non coglie ciò difficilmente riesce a intuire cosa significa «trinitarietà». E si è facilitati a capirlo se lo si sperimenta comunitariamente. Forse come in nessun’altra realtà di fede, quella trinitaria esige una circolarità vitale nella sua conoscenza: la confessione di fede trinitaria è carica di indicazioni per la prassi, e quanto più viviamo a mo’ della Trinità più cogliamo la verità, la grandezza inimmaginabile, la rilevanza sociale di quelle affermazioni.

Altrimenti si è portati a uno dei due atteggiamenti che oggi sembrano più comuni nelle chiese cristiane: negare la Trinità poiché la si vede come un teorema speculativo frutto di antichi contesti culturali, o affermarla come una realtà fondamentale della fede, perché si sa che è così, ma senza capire cosa abbia a che fare con i nostri rapporti interpersonali o quale importanza rivesta nella vita concreta dell’umanità.

Cosa significa allora vivere «pericoreticamente» fra due o più persone? Così come c’è in ognuno la possibilità di immedesimarsi in se stessi, esiste anche la capacità reciproca di «intuarsi» nell’intimo dell’altro, di «vivere l’altro», d’identificarsi con lui, di essere – per quanto ciò è possibile – l’altro.

Questa relazione che esiste in modo perfetto e assoluto tra le Persone nella Trinità, di unità nella distinzione, di «abitare l’uno nell’altro» senza confusione e senza divisione, senza sovrapposizione né assorbimento, è quella che analogamente siamo chiamati a vivere nel rapporto reciproco, non solo tra le persone, ma anche tra i gruppi, le istituzioni, le chiese, i popoli...2

Un’osservazione che si potrebbe fare in questo contesto, in base all’esperienza, è la seguente: si rileva spesso che la dinamica trinitaria porta a mettere tutto in comune, eccetto la propria peculiarità. Ciò è vero, se si aggiunge che in un amore di stampo trinitario non ci si dona «tenendosi» qualcosa (le proprie caratteristiche), ma si sperimenta che la personalità diviene più pienamente se stessa se si dona totalmente in modo adeguato, così come il Padre è proprio nella sua totale donazione che è Padre; e lo stesso può dirsi di ognuna delle Persone trinitarie.

Personalizzazione
nella socializzazione

Una conferma di questa dinamica di unità e distinzione tipicamente trinitaria, l’ho trovata ad esempio nelle cittadelle del Movimento dei focolari3. Ho sentito dei visitatori pronunciare frasi del tipo: «Ho parlato con tanti di voi ed ho l’impressione di aver parlato con uno solo»; mentre altri dicevano: «Ciò che più apprezzo è che, pur avendo trovato una grande unità tra di voi, ho visto che ognuno è se stesso». Infatti la crescita di una profonda socializzazione unita ad una forte personalizzazione, si mostra come uno dei più chiari indicatori per capire se i rapporti sono vissuti in modo «pericoretico», cioè secondo uno stile trinitario di comunione.

Ciò costituisce un riflesso di quello che succede nella vita intratrinitaria, dove «la distinzione delle persone divine è così grande che non può essere pensata più grande, mentre l’unità è così intensiva che non può essere pensata più intensiva» (H. Mühlen). Per cui dove si vive quella stessa qualità d’amore che esiste nella Trinità si produce – per dirla con un’espressione di H. U. Von Balthasar – una «simultanea personalizzazione e socializzazione». L’aspetto più interessante è che la crescita reciproca diqueste due realtà non è soltanto simultanea, ma «direttamente proporzionale» (P. Coda): quanto più grande è la comunione autentica, tanto più cresce la persona, e viceversa.

Attraverso i secoli i cristiani hanno sviluppato una spiritualità trinitaria, ma soprattutto nel senso dell’esperienza dell’inabitazione della Trinità in noi. E ciò è evangelico: «Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23; cf 1 Gv 3, 24; 4, 12-13.15-16). Si tratta quindi di un patrimonio da valorizzare e da vivere profondamente.

Tuttavia un’accentuazione tipica dei nostri tempi attraverso la spiritualità dell’unità è l’esperienza, non solo dell’inabitazione della Trinità nella persona, ma anche nella comunità, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Non solo nelle persone individuali ma anche nella loro unità, non soltanto in me ma anche negli altri e nella nostra comunione reciproca, non soltanto nel prossimo ma anche nel rapporto tra le persone4.

Permettere, attraverso la carità reciproca, che si manifesti una tale presenza di Dio nel convivere umano, costituisce «la più forte testimonianza di Dio al mondo» (C. Lubich)5.

Quello che qui vogliamo sottolineare è che si tratta di una presenza che non deve darsi soltanto a livello di piccoli gruppi, ma la grande sfida di oggi è riuscire a viverla anche a livello sociale, nella famiglia come nel rapporto tra ricercatori scientifici, nell’arte come nella politica o l’economia (nel prossimo e ultimo articolo vorremmo infatti affrontare più specificamente questi ambiti).

Trinità e legge dell’esistenza

A questo riguardo, un secondo aspetto messo fortemente in rilievo dal carisma dell’unità è la dimensione sacrificale che è costitutiva dell’amore autentico e che s’esprime in modo paradigmatico nell’evento pasquale: Gesù crocifisso, abbandonato e risorto come rivelazione del volto trinitario di Dio e della vocazione trinitaria di tutta l’umanità6.

Lì si trova la più alta concretizzazione nella storia della dinamica che costituisce la vita stessa della Trinità, cioè l’altruismo e la donazione totale, il perdersi per ritrovarsi, il non-essere per essere. Questa «dinamica pasquale» è la legge dell’esistenza.

Senza avere come misura del nostro amore la crocifissione e l’abbandono di Cristo in croce, si riducono notevolmente le nostre possibilità di concretizzare socialmente un’esperienza trinitaria.

Infatti senza una tale «alchimia» che trasforma ogni sofferenza in amore, come si andrebbe avanti nel nostro impegno sociale, a qualunque livello esso sia, quando si è «perseguitati a causa della giustizia», quando le divergenze (politiche, ideologiche, tecniche, culturali) sembrano insuperabili, quando di fronte a situazioni concrete non si vede con chiarezza attraverso quali soluzioni avviare una dinamica di tipo trinitario, e nelle altre mille difficoltà che pone la costruzione di una società secondo criteri evangelico-trinitari?

Una delle caratteristiche che non fanno apparire illusorio lo sforzo delle nostre comunità di vivere una socialità trinitaria, è appunto il fatto di avere questa misura dell’amore. Solo così maturano in esse delle persone sempre meno condizionate, capaci di non scoraggiarsi e ricominciare dopo ogni fallimento, di trasformare ogni ostacolo in materia prima per quell’amore trinitario in cui hanno trovato il senso della vita.

«Gesù in mezzo» e vita trinitaria

Come sappiamo la parola agápe è stata usata nel Nuovo Testamento per manifestare quel tipo nuovo di amore che Gesù aveva portato, lo stesso amore della vita intratrinitaria vissuto nella storia7.

È ovvio che sia questa carità a rendere possibile l’unità di stampo trinitario. Infatti quando si vive l’amore evangelico, anche nel suo livello più semplice – «ama il prossimo tuo come te stesso» – si sta già concretizzando, almeno in modo incipiente, la dinamica trinitaria, poiché si riflette quello che è l’essenza della vita intima di Dio: «Ognuna della Tre Persone ama l’altra come se stessa. Incarna la legge evangelica: “ama il prossimo tuo come te stesso”; e l’amore è la regola di vita di tutta la creazione uscita dalla Trinità»8.

Una caratteristica tipica del carisma dell’unità è l’aver dato nuovo rilievo a quella presenza di Gesù promessa in Mt 18, 20: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». Quando si manifesta tra di noi questa presenza con i suoi effetti propri, è un sintomo sicuro della trinitarietà dei nostri rapporti, dal momento che Dio è presente nella comunità nella misura in cui scorre tra di noi l’Amore trinitario. Per cui, echeggiando il grande teologo ortodosso S. Bulgàkov9, si potrebbe dire che quel testo evangelico su Gesù in mezzo è il crittogramma, una specie di «testo cifrato», della Trinità vissuta socialmente.

Una «metodologia» trinitaria

C’è un aspetto fondamentale per costruire rapporti trinitari, che può sembrare secondario o apparire come qualcosa che ha poco a che vedere con le problematiche sociali. Si tratta della capacità di ascolto.

Quella sfumatura della carità che è l’autentico ascoltare, ha anche una profonda incidenza sociale. Esprime tra l’altro la misura del nostro interesse per gli altri (e senza vero interesse reciproco non si può «essere una sola cosa»). Si parla frequentemente della necessità del silenzio interiore per ascoltare Dio; raramente si dà la giusta importanza al profondo silenzio necessario per ascoltare gli altri.

Solo quel silenzio – come ripetutamente insegna C. Lubich10 – ci permette di «farci uno» con ogni persona, lasciando da parte, mentre ascoltiamo, i nostri pensieri, competenze, esperienze, gusti, eventuali obiezioni, per cogliere veramente ciò che l’altro esprime. È un «metodo» unico, non solo per cogliere in profondità ciò che l’altro è o vuol trasmetterci, ma anche per la qualità di rapporti che si riesce a stabilire. Se poi l’altra persona ha lo stesso atteggiamento con noi, ciò rende possibile quel pensiero trinitario «dove io sono io in te e tu sei tu in me» (G.M. Zanghì). È questo un altro modo fondamentale per descrivere cos’è un rapporto trinitario.

È diventata molto nota l’espressione di Dante nella Divina Commedia dove riesce a dire questa realtà creando dei neologismi: «s’io m’intuassi come tu t’immii»11. Eppure l’espressione precedente è ancora più «trinitaria» di quella di Dante. Infatti il detto evangelico «io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14, 11; cf 17, 21), non equivale a «io sparisco» nel Padre, «mi annullo», «lascio d’essere me stesso» per essere il Padre... Dove c’è trinitarietà l’identità propria è simultanea alla presenza nell’altro, l’unità più piena coincide con la distinzione: «io sono io in te e tu sei tu in me».

Ciò non è decisivo soltanto nel dialogo interpersonale. Una tale «metodologia trinitaria» – perdere se stesso nel più profondo ascolto dell’altro – apre nuove possibilità alla reciproca comprensione e alla ricerca di soluzioni ai problemi concreti a tutti i livelli: nel rapporto tra partiti politici in un Parlamento o tra gruppi sociali in conflitto d’interessi; nel modo come il medico ascolta i suoi pazienti e l’avvocato o il commerciante i propri clienti; agevola l’architetto o l’urbanista che cercano d’individuare i veri bisogni della famiglia o delle istituzioni per le quali progettano e il compito dei diplomatici nelle discussioni internazionali; permette uno scambio più proficuo tra artisti di scuole differenti o tra culture diverse che s’incontrano...

Si potrebbero riferire tante esperienze che confermano questo, e costituiscono dei veri semi di un mondo nuovo. Le persone che sanno ascoltare, dialogare trinitariamente, pongono delle basi fondamentali per una trasformazione profonda della vita sociale.

Unità di pensiero?

In questo contesto i cristiani spesso si domandano cosa può significare la richiesta paolina di essere «tutti unanimi... in perfetta unità di pensiero» (1 Cor 1, 10; cf Fil 2, 2). E ciò non soltanto a livello della fede, ma nel nostro caso soprattutto a livello sociale.

Ricordo di aver ascoltato una volta Chiara Lubich descrivere così l’unità di pensiero: essa non significa che tutti pensiamo allo stesso modo – ciò sarebbe uniformità – ma che ognuno sia illuminato dalla sapienza che viene da Dio; allora io capisco l’altro perché sotto c’è la sapienza, e viceversa; però non necessariamente facciamo la sintesi dei due pensieri, né ci esprimiamo allo stesso modo. Perciò si dice che la verità è «sinfonica», nel senso che, come nella musica, s’esprime attraverso un insieme di strumenti differenti ben armonizzati tra loro. Questo dà gloria a Dio, che proprio per essere Uno e Trino può manifestarsi in ognuno in modo diverso ma non contrapposto.

Il «disincanto» della
concretizzazione sociale

Per riuscire a ideare e a portare avanti dei progetti sociali in chiave trinitaria, la propria esperienza è decisiva, almeno per due motivi: a) per il fatto che ogni programmazione sociale è basata su una concezione dell’esistenza (in questo caso, trinitaria); b) perché soltanto chi è esperto nella dinamica trinitaria riesce a diffonderla, dato che una vita di tipo trinitario, come ogni esperienza umana, esige un apprendistato.

Tuttavia spesso si trovano delle persone che hanno fatto una certa esperienza di tali rapporti, però quando devono trasferirla nel sociale si trovano a dover superare una sorta di delusione e di scoraggiamento. Frequentemente ciò è dovuto a un errore di prospettiva. Quando non arrivano immediatamente a trovare nelle loro attività sociali la stessa pienezza spirituale che hanno provato nell’esperienza di unità fatta magari a livello di piccolo gruppo, interpretano ciò come un segno che «non è possibile» vivere quell’esperienza di unità trinitaria nel sociale, o che loro «non sono capaci» di portarla avanti.

Per far crescere questa esperienza in campo sociale, oltre certi presupposti necessari – come maturità evangelica, competenza nell’attività che si svolge, mezzi adeguati – è necessario tener conto anche di certe «leggi» proprie del sociale. Tra l’altro, bisogna tener presente il fatto che ogni azione a livello sindacale, politico, giuridico, commerciale, educativo, ecc. implica un ampio margine di relatività, spesso offre un ventaglio di opzioni concrete che possono apparire ugualmente valide e quindi opinabili. Per cui sono imprescindibili – soprattutto quando s’intraprende una strada per certi versi nuova – la sperimentazione, approcci successivi, eventuali rettifiche quando si avvertono inadeguatezze o errori. Sapendo che, sebbene i valori autentici sono capaci di suscitare un notevole consenso dei settori sociali più diversi, la perfezione e la totale unanimità sono difficili da raggiungere.

Chi rimane nel piano dei principi evangelici e narra delle esperienze spirituali a livello interpersonale, più facilmente raccoglie approvazione ed adesione. Quanto più si entra nel concreto, nelle misure decisionali, nei complessi meandri tecnici entro cui spesso bisogna muoversi per organizzare la società, più bisogna essere disposti ad affrontare la croce del dissenso, del pluralismo, dei contrasti, delle differenze di opinione non sempre espresse nel modo più adeguato e gentile, delle varie sensibilità ed interessi, della permalosità propria ed altrui, e via dicendo.

Coloro che hanno fatto delle esperienze profonde di comunione in piccole comunità, diventano da un lato più sensibili ed esperti nel costruire rapporti solidali e fraterni; ma dall’altro – a causa proprio di quella sensibilità – soffrono di più nell’affrontare le diversità, l’opposizione e il conflitto, facilmente riscontrabili nei confronti a cui porta la vita sociale.

E. Mounier rimproverava agli «spirituali» di essere troppo assenti nei momenti duri. Una causa di ciò forse si trova nel fatto che devono imparare a superare il disagio e il disincanto che a volte provano, avendo la sensazione che quella luce che hanno visto, quella sapienza che viene dall’alto e che hanno assaporato, perda qualcosa quando deve calarsi nel sociale. Mentre in realtà guadagna, poiché non rimane chiusa in una élite d’iniziati o limitata ad una «minoranza conoscitiva», ma s’impara ad universalizzarla, diventa comprensibile e vivibile da tutti, nelle concrete vicissitudini della storia.

Perché la lentezza umana?

Vorrei concludere con una domanda che penso sia condivisa da molti: perché l’umanità ed ognuno di noi camminiamo sì, ma così lentamente, verso una meta talmente bella e sublime com’è la vita trinitaria incarnata in tutte le realtà umane? Perché l’umanità, attraverso tutta la sua storia, deve pagare un tributo così alto di sofferenze nella sua maturazione verso una società più trinitaria e quindi più umana?

Questo interrogativo, con lo scorrere degli anni, mi ha fatto scoprire sempre più chiaramente quanto l’Amore di Dio prenda sul serio l’essere umano e la sua storia, senza «paternalismo» e senza lasciarci appoggiare a false sicurezze. È tipico dell’amore infatti offrire all’altro lo spazio per essere se stesso, per diventare protagonista della propria realizzazione. Qui si trova uno dei misteri più profondi, seri e liberanti dell’esistenza umana: nella nostra vita e nella costruzione della storia, tutto dipende da Dio e tutto dipende da noi. Non è questo l’unico modo possibile a Dio e degno di lui – un modo «trinitario» appunto – di rapportarsi con l’umanità?

In questo contesto, molte volte mi è stato domandato perché nello stesso Movimento dei focolari, di cui ho esperienza diretta, cresce lentamente la concretizzazione nel sociale. Una risposta l’ho trovata in una piccola frase nella presentazione che Tommaso Sorgi ha fatto di Chiara Lubich, quando le è stato attribuito il premio «Igino Giordani» dalle autorità cittadine di Tivoli12. Già dai primi tempi – dice – si avvertiva che il Movimento che nasceva dal suo carisma aveva come scopo «il divino aperto sul sociale».

Quel «divino» mi sembra la parola chiave. Infatti portare avanti delle iniziative sociali, buttarsi nella mischia politica, tentare un’economia solidale, promuovere una società più partecipata, lavorare per gli ultimi e altre attività, si potrebbero moltiplicare con una certa alacrità. Basterebbe generosità e un’adeguata preparazione. Mentre «far passare il Paradiso», costruire attraverso quelle attività una società che non soltanto imiti come dal di fuori la vita trinitaria ma sia innestata nella Trinità, che faccia crescere nell’esperienza e nell’amore di Dio, è inevitabile che prenda tempi più lunghi, esigendo un’esperienza più profonda, divina, nuova per tanti versi, dell’unità. Ciò non giustifica passività e ritardi, ma ci fa più attenti a cercare di assecondare «la fretta dello Spirito Santo».

Enrique Cambón

 

 

1)   Cf Gen’s 6 (1994), pp. 191-196.

2)   Per un’illustrazione di come vivere ciò all’interno della chiesa, tra le chiese, tra le religioni, ecc. cf M. CERINI, Trinità e Chiesa: una riflessione teologica a partire dall’esperienza di «Gesù in mezzo», in: Nuova Umanità 30 (1983), pp. 99-115.

3)   Sono piccole «città» costruite dal Movimento, che ormai si sono moltiplicate nel mondo, dove la legge di vita è il vangelo. Costituiscono una specie d’esperimento di laboratorio di cosa sarebbe la società se la sua vita e le sue strutture fossero impostate sulla carità reciproca.

4)   Per una panoramica del patrimonio spirituale precedente e una messa a punto della novità che apporta la mistica trinitaria comunitaria di Chiara Lubich, cf G. M. ZANGHI’, La vita interiore. Riflessioni sull’oggi, in: Nuova Umanità 93 (1994), pp. 5-40. Vedi anche J.M. POVILUS, Considerazioni su un’esperienza comunitaria del Dio Trinità, in: UNIVERSITA’ POPOLARE MARIANA, Il Dio di Gesù Cristo, Città Nuova Ed., Roma 1982, pp. 275-282.

5)   Cf una raccolta di scritti di C. LUBICH sulla vita trinitaria vissuta nella socialità umana, eccezionali per profondità spirituale e genialità, in: J.M. POVILUS, «Gesù in mezzo» nel pensiero di Chiara Lubich, Città Nuova Ed., Roma 1981, spec. pp. 67-98, 112-121, e in: M. CERINI, Dio Amore nell’esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich, Città Nuova Ed., Roma 1991, spec. capp. 4 e 5.

6)   Per una prima approssimazione e un approfondimento di questa importante affermazione, cf P. CODA, Dio nella riflessione teologica contemporanea, in: UNIVERSITA’ POPOLARE MARIANA, Il Dio di Gesù Cristo, cit., spec. pp. 244-246, 249-250; è anche il senso di tutto il suo libro Evento Pasquale. Trinità e storia, Città Nuova Ed., Roma 1984 (con l’aggiornamento, dopo 10 anni di quella pubblicazione: Quali prospettive per la teologia trinitaria?, in: Nuova Umanità 96 (1994), pp. 119-128).

7)   Cf P. CODA, L’agape come grazia e libertà. Alla radice della teologia e prassi dei cristiani, Città Nuova Ed., Roma 1994.

8)   I. GIORDANI, Le due città, Città Nuova Ed., Roma 1961, p. 69.

9)   Cf Il Paraclito, Ed. Dehoniane, Bologna 1971, p. 371.

10) Cf Farsi uno, in: Scritti spirituali/3. Tutti uno, Città Nuova Ed., Roma 1979, pp. 86-88.

11)  Paradiso, IX, 81.

12) Tivoli è la città natale di I. Giordani, che ha istituito un premio di saggistica, giornalismo e promozione umana per tener viva la memoria di questo suo illustre figlio. Un ampio stralcio della presentazione di T. SORGI, in Mariapoli 10 (1984), pp. 9-11.