Edificare comunità cristiane che siano segno di speranza per il mondo d’oggi

 

Per una teologia della comunità

di Piero Coda

 

 

L’identità e la rilevanza del cristianesimo, cioè la sua autenticità ed efficacia nel mondo d’oggi, sono forse il tema più urgente per le chiese cristiane. La presente relazione teologica, svolta presso l’Istituto Pastorale di Budapest durante un convegno di sacerdoti e laici promosso dalla Conferenza episcopale ungherese, costituisce un apporto che va alla radice del problema in modo profondo, preciso e vitale.

A

pprofondire oggi la teologia della comunità può apparire una cosa allo stesso tempo scontata e nuova.

Scontata, perché – sia dal punto di vista sociologico che da quello più propriamente teologico – è evidente che la chiesa è se stessa in quanto è comunità, e cioè forma concreta, visibile e strutturata in cui si esprime la vita del nuovo popolo di Dio convocato e salvato da Gesù Cristo.

Nuova, direi anzi nuovissima, perché se oggi viviamo un kairós dello Spirito Santo, questo è proprio la ricomprensione e la riconfigurazione della chiesa in ciò che la definisce comunità in senso unico e originale.

Vorrei perciò tentare, con queste poche riflessioni, di offrire un filo conduttore per esprimere questa novità, tenendo conto, soprattutto, di due riferimenti: la novità del vangelo di Gesù Cristo e la novità dei segni dei tempi e di ciò che – anche attraverso di essi – lo Spirito dice oggi alla Chiesa1.

Chiesa: comunità in quale senso?

Sarebbe importante, come primo passo, rendersi conto di questo fatto tanto semplice quanto importante: parlare della chiesa come comunità ha oggi un significato più profondo e più centrale che in passato. Perché?

A mio parere, soprattutto per due motivi strettamente congiunti tra di loro: da un lato, la riscoperta dell’ecclesiologia di comunione nel Concilio Vaticano II; dall’altro, l’emergere – anche se non sempre univoco e coerente – della centralità della persona umana e della sua intrinseca natura sociale nel mondo moderno e contemporaneo. Su questi due temi rispettivamente la Lumen gentium e la Gaudium et spes ci hanno offerto una riflessione organica e innovativa.

Questo fatto ha provocato – inizio con una semplice costatazione fenomenologica – un cambiamento di percezione della realtà-chiesa. Se, fino a questo momento, era pacifico identificare e definire la chiesa come comunità «dei credenti» e «dei battezzati», ora invece si avverte l’insufficienza di questa visione. La chiesa – si sottolinea – è chiamata ad essere comunità «di comunione». Si tratta di un’esigenza e di una consapevolezza che affiora non solo tra i cristiani impegnati, ma anche tra chi – per così dire dall’esterno – osserva la chiesa. E si sente, allo stesso tempo, attratto e respinto da essa: attratto, perché intuisce che vi è custodito un tesoro prezioso per il significato della sua vita; respinto, perché non lo trova sufficientemente espresso nel modo di essere e di agire della comunità cristiana.

In effetti – e tento così un approfondimento teologico – che cosa significava, in passato (e spesso ancora tuttora), definire la chiesa come comunità (o societas) in riferimento alla fede e ai sacramenti? Significava mettere in rilievo due principi certamente fondamentali e costitutivi della comunità: l’annuncio della Parola di Dio e la sua accoglienza nella fede (fides ex auditu); e l’inserzione visibile ed efficace nel popolo di Dio attraverso i sacramenti.

Ma ciò che di fatto veniva così considerato primario ed essenziale era il rapporto del singolo individuo con Gesù Cristo per la sua salvezza eterna. La chiesa, in tal modo, era considerata comunità di salvezza, ma in primo piano era il rapporto io-Dio, senza riflettere sulla dimensione comunitaria dell’evento della salvezza. E anche la carità verso il fratello (che costituisce la «pienezza della Legge» [cf Gal 5, 14; Rm 13, 8-10]) non era tanto considerata nel suo valore intrinseco ed ecclesificante2, quanto piuttosto in riferimento alla necessità della virtù da parte dell’individuo «soggetto di carità», e del bisogno materiale o spirituale da parte dell’individuo «oggetto di carità».

La messa in evidenza del valore della persona e della sua natura storico-incarnata e sociale nella cultura moderna da un lato, e la riscoperta dell’ecclesiologia di comunione dall’altro, hanno modificato questa percezione. Non bastano la fede e il sacramento; non bastano la grazia e l’impegno per la salvezza eterna. Occorre fare esperienza insieme e già nella storia di un’esistenza comunitariamente significativa come luogo e strumento di realizzazione della persona.

Questo è, in fondo, il grande «segno dei tempi» che spiega per tanta parte la crisi di significanza della fede e di appartenenza alla chiesa di tanti nostri contemporanei, almeno nel mondo occidentale; e, insieme, l’urgenza del compito della «nuova evangelizzazione», di cui parla Giovanni Paolo II.

Il messaggio e la prassi di Gesù

Tutto ciò ci spinge a una rinnovata comprensione della chiesa come comunità di comunione quale ci è descritta nel messaggio e nella prassi di Gesù e della primitiva comunità apostolica. Non è un caso che oggi molte delle istanze più vive della chiesa, a livello di nuove correnti spirituali e di nuove esperienze pastorali, si chiedano – faccio mia una felice espressione di G. Lohfink – «Gesù come voleva la sua comunità?»3.

Ora, la cosa centrale che emerge nel Nuovo Testamento – mi pare – è questa: la comunità cristiana si definisce e viene percepita come tale là dove la fede in Gesù Cristo si esprime, direi di più, si «realizza» nell’amore reciproco tra i credenti. C’è un testo della 1 Gv che più d’ogni altro sottolinea in forma incisiva questa caratteristica della comunità cristiana: «questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato» (3, 23). Riflettiamo un attimo su questa «carta d’identità» della comunità cristiana.

Essa è definita – ed è ovvio – dalla fede in Gesù Cristo come inviato del Padre e segno efficace e definitivo della sua agape per noi: «noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore di Dio per noi» (1 Gv 4, 16). Ciò significa che essa nasce dal dono (chàris) di Dio ed esige la scelta di lui in Cristo come Senso assoluto della propria esistenza: è la fede suscitata dal kerigma della salvezza, che diventa pienamente efficace in noi nel battesimo.

Ma, proprio per questo e di conseguenza, la comunità cristiana è definita anche dall’amore reciproco tra i credenti in Cristo. È così che la fede diventa «operante» – come dice S. Paolo (cf Gal 5, 6) –; è così che l’agape di Dio diventa «perfetta» in noi, raggiungendo il suo scopo e il suo compimento – come dice la 1 Gv (cf 4, 12). Non per nulla, la teologia cattolica ha sempre parlato di una fides caritate formata.

Ma non basta ancora sottolineare semplicemente questo. Il comandamento che Gesù definisce «suo» e «nuovo» è quello della carità reciproca (cf Gv 13, 34-35; 15, 12-13). È qui la radice di quella vita di koinonia che costituisce il proprium della comunità cristiana. Paradossalmente, il comandamento della carità reciproca è insieme il «massimo» e il «minimo» della vita della comunità cristiana: il «massimo» perché è la fede che diventa operante e la carità che giunge a perfezione; il «minimo» perché, se non c’è questo «patto» esplicito di amarsi reciprocamente in Cristo e come Cristo, non si può parlare di comunità!

Una salvezza che si fa storia

Attraverso la reciprocità della carità, il rapporto io-Dio include in sé il rapporto col fratello e, in pienezza, il rapporto tra i fratelli. Così la salvezza eterna si mostra già attiva nella storia e come storia degli uomini. Il comandamento dell’amore reciproco, infatti – come ha scritto R. Pesch – fa diventare la «prassi del cielo» anche «prassi della terra»4. Secondo l’invocazione di Gesù: «come in cielo così in terra».

In realtà, Gesù propone ai suoi discepoli come forma e come misura del loro reciproco rapporto – sul modello e insieme con lui – lo stesso rapporto che egli vive col Padre nel reciproco abbraccio dello Spirito Santo: «come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi uno in noi» (Gv 17, 21). Tanto che questo è il segno distintivo della comunità dei suoi discepoli: «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli» (Gv 13, 35), «siano uno perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21).

D’altra parte, se il battesimo è il sigillo della fede in Gesù Cristo (sacramentum fidei), l’eucaristia è «culmen et fons» (cf SC 10; 2) della carità reciproca tra i credenti (sacramentum unitatis). Dunque, senza la carità reciproca, non solo la fede non è «perfetta»; non solo la grazia non è portata ad efficacia di vita; ma anche la chiesa non esprime a livello storico-visibile – come comunità di carità reciproca, appunto – il mistero profondo che è, per dono dell’eucaristia: «poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo, tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor 10, 17).

In una parola, senza la prassi della carità reciproca la chiesa non diventa pienamente ciò che è: «sacramento in Cristo dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1).

Chiesa-sacramento
in quanto comunione

Vorrei soffermarmi un momento su questo importante concetto di «sacramento» che – come noto – non solo è centrale nell’ecclesiologia del Concilio, ma anche in quella del Nuovo Testamento: penso soprattutto a san Paolo. La chiesa è popolo in mezzo al quale Dio ha posto la sua dimora; è corpo di Cristo; è tempio dello Spirito Santo... È, in una parola, segno e strumento della presenza di Cristo tra gli uomini. Questo è il punto. Dire che la chiesa è comunità significa dire che essa è – proprio grazie e attraverso la figura storica e concreta che in essa assumono le relazioni personali sulla base della fede e dei sacramenti – sacramento della presenza viva e attuale di Gesù Cristo risorto. D. Bonhoeffer lo esprimeva con questa incisiva espressione: la chiesa è «Cristo esistente come comunità»5.

Una rinnovata teologia della comunità cristiana, sviluppata secondo le riflessioni che ho cercato di esporre, rende pienamente comprensibile e concretamente realizzabile questa realtà sacramentale della chiesa, in cui si congiungono – «senza separazione e senza confusione» – la dimensione misterica e la dimensione storica della chiesa, così come in Gesù Cristo sono intimamente unite la natura divina e la natura umana.

Cosa significa, infatti, che «Cristo si rende sempre presente alla sua chiesa», come afferma la Sacrosanctum Concilium (n. 7)? Non soltanto che egli – come ivi si precisa – è presente nella sua parola, nei sacramenti, nella persona del ministro, ma anche che egli si rende presente là dove sono due o tre riuniti nel suo nome (cf Mt 18, 20), facendoli suo Corpo non solo singolarmente e misticamente, ma comunitariamente e storicamente.

Alla luce della tradizione veterotestamentaria e della testimonianza del Nuovo Testamento, si deve dunque dire che Cristo si rende presente in modo efficace, grazie al suo Spirito, là dove la fede e la grazia diventano «perfette» nella carità reciproca6. In tal modo, la chiesa come comunità, e non solo la chiesa come dispensatrice della Parola e dei sacramenti, è sacramento del Signore risorto. Altrimenti la comprensione sacramentale della chiesa resta incompleta, non fruibile dai credenti e non percepibile da tutti nella sua ricchezza vitale e nella sua affascinante bellezza.

Una carità «aperta»

Questa centralità della carità reciproca – lo enuncio solamente come principio, ma andrebbe debitamente sviluppato – non significa per nulla chiusura della comunità su se stessa.

Se è autentica, la carità reciproca è aperta a tutti e in primo luogo ai «poveri» (nel senso materiale e spirituale del termine); perché la comunità cristiana non può non esprimere e non ritrovare se stessa «fuori di sé», nella missione7. Anzi, mi verrebbe da dire che la carità reciproca, in quanto è il segno e lo strumento della presenza di Cristo risorto tra i discepoli, è il presupposto per un’azione sociale ed evangelizzatrice che abbia come suo soggetto un cristiano che ha vera esperienza di ciò che è la chiesa-comunità e che, perciò, sa agire nel mondo comunitariamente secondo l’ispirazione e il progetto di Gesù.

– Sotto il profilo dell’evangelizzazione risulta evidente che la comunità in cui vive la comunione di Cristo è insieme la sorgente e il fine della missione della chiesa, secondo la bellissima formula che troviamo nel prologo della 1 Gv (1, 1-3). Nella missione, infatti, si tratta di partecipare a tutti, con la parola e con la testimonianza di vita, la comunione, in Cristo, con Dio e tra i credenti. Illuminata poi dall’esperienza della carità reciproca, l’evangelizzazione saprà assumere quella forma di «dialogo di salvezza» (con i cristiani delle altre chiese, con i seguaci delle altre religioni, con le persone di altre convinzioni) che ci è proposta dal Concilio.

– Sotto il profilo dell’impegno sociale, l’amore preferenziale per i poveri e l’amore per i nemici sono il banco di prova dell’autenticità della carità reciproca. Mostrano coi fatti che, grazie a Gesù crocifisso che ha spinto il suo amore per noi sino a identificarsi con gli ultimi e con i peccatori, ogni persona è raggiunta dall’amore di Dio e perciò è chiamata alla reciprocità della carità con Dio e con i fratelli.

Così la comunità cristiana può scoprire che il comandamento nuovo – come scrive la Gaudium et spes – è la legge non solo della sua vita interna, ma anche della «trasformazione del mondo» (n. 38). La vita sociale, economica e politica trovano infatti in questa legge il loro criterio, la loro misura, il loro scopo definitivo, che la comunità cristiana è chiamata a testimoniare profeticamente come «germe e inizio del Regno» (cf LG 5). Basti pensare, per non fare che un esempio, al significato profetico della «comunione dei beni» vissuta nella comunità apostolica di Gerusalemme (cf At 4, 34-35).

Per una pastorale rinnovata

A questa rinnovata comprensione teologica della comunità è strettamente collegata una rinnovata comprensione della pastorale. Ed è evidente. Non per nulla Giovanni Paolo II, quando parla di «nuova evangelizzazione», intende riferirsi al compito di «rifare il tessuto della comunità ecclesiale» per poter così, allo stesso tempo, «rifare il tessuto della società» (cf Christifideles laici, 34).

E ciò significa che il tessuto – e cioè quell’insieme di rapporti e di strutture che costituisce la comunità ecclesiale – non solo va fatto di nuovo, perché si è consunto e sfilacciato col venir meno della situazione socio-ecclesiale di cristianità; ma va fatto in modo nuovo. Secondo la novità sempre nuova del vangelo – ripeto ciò che dicevo all’inizio – e ascoltando ciò che, attraverso i segni dei tempi e i carismi che ad essi rispondono, lo Spirito dice oggi alla chiesa. Ma che cosa occorre fare concretamente?

Tante volte, la grandezza del compito che ci attende, la povertà delle nostre forze, il peso dei nostri limiti, il pensiero delle innumerevoli difficoltà concrete rischiano di scoraggiarci. Ma non dobbiamo dimenticare che Dio Padre ha detto per noi e per tutti il suo «sì» definitivo in Gesù Cristo (cf 2 Cor 1, 20); e che il compito che ci attende è un kairós dello Spirito e un’esigenza dei nostri tempi. Viviamo in una grande epoca di svolta e il Signore ci assicura: «Ti basta la mia grazia, la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12, 9).

Tutto questo ci dice che il presupposto unico e permanente per rendere viva e operante questa figura di chiesa come comunità è la spiritualità. E cioè l’azione dello Spirito Santo in noi e fra noi. È Dio, Padre Figlio e Spirito Santo, Colui che edifica la sua chiesa nell’unità: «vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1 Cor 12, 4-6).

– Ciò che occorre, innanzi tutto e per tutti (presbiteri, religiosi e laici), è dunque uno spirito profondo e semplice di conversione a ciò che lo Spirito oggi dice alla chiesa. Conversione fatta di fede, di gioia, di capacità di lasciarsi sorprendere e coinvolgere dalla novità di Dio.

– Occorre poi, di conseguenza, una pedagogia di formazione a questo spirito di comunione e a questa vita di comunità. Giovanni Paolo II, nel corso della celebrazione del recente Sinodo romano, ha parlato in questo senso della urgente necessità di «scuole di ecclesiologia di comunione», in cui essere formati alla nuova figura di chiesa che ci è offerta dal Vaticano II.

– Occorre, infine, anche una messa in opera di quegli strumenti e di quelle strutture di partecipazione e di corresponsabilità attraverso cui la comunione diventa vita non solo nei rapporti interpersonali, ma anche nelle scelte e nelle azioni della comunità e nei rapporti tra le diverse realtà che la compongono. Penso, ad esempio, ai consigli pastorali ed anche a quelle comunità più piccole in cui necessariamente deve articolarsi la comunità più grande, diventando, appunto, una comunità di comunità.

Che cos’è
«spiritualità di comunione»?

Poiché altri si occuperanno di questi aspetti più tipicamente pastorali, vorrei concludere con una parola soltanto sul tema, che ritengo centrale nel senso prima detto, della spiritualità.

Siamo tutti d’accordo che occorre una spiritualità di comunione. K. Rahner, riconoscendo l’inefficacia oggi di quella più individuale del passato, l’ha definita la spiritualità «del futuro», e W. Kasper ne ha riconosciuto il fulcro nell’unità dell’amore per Dio e per il prossimo8. Ma quali ne debbono essere le caratteristiche? Meglio ancora, quale la via per realizzarla?

L’esperienza – spirituale e insieme teologica e pastorale che ho maturato in questi anni – mi fa dire che la via è l’amore ardente ed esclusivo a Cristo e a Cristo crocifisso. Come sempre nella spiritualità cristiana. Solo che, mentre in una spiritualità più individuale, l’unione al Signore crocifisso mediante la spogliazione di sé era vissuta soprattutto come la strada per la comunione con Dio, oggi, la spogliazione di sé, e cioè la capacità di donarsi sino in fondo al prossimo e di accoglierlo fino in fondo in sé – e reciprocamente – si rivela anche come la strada della comunione tra i discepoli in Dio. È il kairós spirituale del nostro oggi!

Forse, proprio a causa dell’accento più individuale della precedente spiritualità, non si è badato a sufficienza al fatto che, quando l’apostolo Paolo parla nella lettera ai Filippesi (cap. 2) della spogliazione – kenosi – vissuta dal Cristo, lo fa nel contesto di un’esortazione rivolta ai discepoli perché giungano alla pienezza della koinonia. Sì, per essere in comunione nella comunità occorre far propria la stessa phrónesis (il modo di vedere e di agire) del Cristo, il quale «spogliò se stesso». Giustamente von Balthasar nota che il sottofondo di questo famoso inno cristologico è, almeno implicitamente, trinitario9. La carità reciproca tra il Padre e il Figlio nello Spirito Santo che viene riversato nei nostri cuori (cf Rm 5, 5), nasce da quella gioiosa, libera e infinita rinuncia a Sé in cui si realizza la «pericoresi» tra le Persone divine.

Rifacendosi a questo testo paolino, la Dichiarazione del Sinodo dei vescovi per l’Europa del ’91 sottolinea che la Carità trinitaria si è rivelata in modo supremo nella kenosi di Gesù Cristo. «Per questo – aggiunge – la comunione nella carità e la rinuncia a se stessi appartengono al cuore del vangelo che dev’essere predicato all’Europa e a tutto il mondo, perché si realizzi il nuovo incontro tra la Parola di vita e le varie culture» (n. 4).

Sono convinto che questa è la via da cui possono nascere oggi delle comunità cristiane segno e strumento di speranza per il mondo, perché Gesù risorto vive in mezzo a loro.

Piero Coda

 

 

1)   Cf quanto scrive Giovanni Paolo II nella Tertio millennio adveniente: «La preparazione del Giubileo dell’anno 2000 deve suscitare una particolare sensibilità per tutto ciò che lo Spirito dice alla Chiesa e alle Chiese (cf Ap. 2, 7 ss.), come pure alle singole persone attraverso i carismi a servizio dell’intera comunità» (n. 23).

2)   Cf l’istruttivo R. Penna, «La carità edifica». Aspetti ecclesiologici dell’agape in S. Paolo, in: Lateranum, LI (1985), pp. 1-19.

3)    G. Lohfink, Gesù come voleva la sua comunità? La chiesa quale dovrebbe essere, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1987.

4)   Cf R. Pesch, Cristianesimo critico e prassi dell’amore alla luce del Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia 1972.

5)   D. Bonhoeffer, Sanctorum Communio. Eine dogmatische Untersuchung zur Soziologie der Kirche, hrsg. v. Joachim von Soosten, Dietrich Bonhoeffer Werke, Band 1, Chr. Kaiser Verlag, München 1986, p. 87.

6)   Cf G. Rossé, L’ecclesiologia di Matteo. Interpretazione di Mt 18, 20, Città Nuova, Roma 1987.

7)            L’espressione è di Giovanni Paolo II, al Sinodo Romano.

8)   Cf Introduzione alla fede, Queriniana, Brescia 1973, p. 204.

9)            Cf Mysterium paschale, in: Mysterium salutis, Queriniana, Brescia 1971, vol. VI, p. 189.