Dialogo con i lettori

«S

pesso i sacerdoti anziani rimangono con la responsabilità di una parrocchia oltre il limite delle proprie forze e corrono il rischio di rovinare quanto hanno costruito nel passato con tanto sacrificio. In questa situazione si sentono sopportati dalla gente e lentamente vengono emarginati anche dal presbiterio diocesano. Se scelgono di ritirarsi in un ospizio per anziani, devono accettare luoghi dove si spende poco data l’esiguità della loro pensione; se finiscono in ospedale di lunga degenza le prospettive non sono poi rosee, perché ricevono pochissime visite dagli altri sacerdoti, tutti oberati di lavoro e non abituati «a perdere tempo» per costruire la famiglia con gli altri preti. Anche nelle case costruite in alcune diocesi per preti anziani, le cose non cambiano di molto. Che dire poi di quei preti che, per malattia o vecchiaia, non sono più autosufficienti? Possibile che la chiesa, a livello nazionale, non riesca a creare strutture per venire incontro a chi ha speso tutta la vita per servire la comunità cristiana?».

(Don Eraldo Carpanese
ed altri sacerdoti dell’Emilia)

 

 

Cosa fare per i
pre­ti anziani o malati?

La vostra domanda ripropone un problema serio e di non facile soluzione. Certamente un impegno a livello nazionale potrebbe risolvere molti problemi tecnici e finanziari. Finora sono stati fatti degli sforzi da parte di alcune diocesi, ma pare che non sia stata trovata ancora la strada giusta. Forse, anche in questi pochi casi, si è puntato troppo sull’aspetto materiale del problema.

Nella mia diocesi, per esempio, già negli anni ’60 fu costruita una casa per preti anziani in una località molto attraente per il clima e per l’ampio spazio circostante. Era una costruzione con tanti appartamentini dove il sacerdote poteva portare anche una persona di famiglia o la sua perpetua e, se preferiva star solo, aveva la cura delle suore. Il primo ad usufruire di questo ambiente fu proprio un vescovo. C’era tutto in quella casa, ma il vescovo, coccolato come un bimbo, si sentiva isolato come un monaco recluso. Gli mancava l’ambiente umano in cui era abituato a vivere. Dopo alcuni mesi egli preferì affittare per suo conto un appartamentino in città, molto meno comodo, ma col vantaggio di tornare a vivere in mezzo alla gente.

Ultimamente un sacerdote del nord dell’Italia, che conviveva con altri due preti, ha dovuto ricoverarsi in una clinica ben attrezzata per sacerdoti ammalati. Quando i colleghi preparavano la sua valigia gli hanno detto: «Ci mettiamo solo le cose necessarie per alcuni giorni, perché quando vorrai potrai sempre ritornare; altrimenti ti portiamo noi quello che ti serve». Appena fatte le cure necessarie, ha chiesto di andarlo a prendere: «Non vedo l’ora – ha detto al telefono – di tornare a casa».

La casa! Forse è questo il punto nodale del problema. Qualche mese fa ho ascoltato l’esperienza di un gruppo di sacerdoti polacchi. Tra loro c’era un vecchio ottantenne che sprizzava gioia dai suoi occhi vivissimi e diceva: «Nella convivenza con questi fratelli trovo la mia casa, perché tutti noi abbiamo bisogno di una vera casa».

Forse prima di pensare a edificare ricoveri, dobbiamo pensare a costruire la famiglia tra noi. In famiglia c’è posto per tutti, anche per gli anziani. Anzi la loro presenza diventa importante. Non potranno dirigere una parrocchia, ma potranno svolgere il ministero così prezioso del sacramento della penitenza e della direzione spirituale; non potranno affrontare viaggi o compiere corsi di attualizzazione pastorale, ma potranno mettere a servizio di tutti la sapienza che viene dalla vita e soprattutto pregare ed offrire le loro sofferenze, un tesoro questo che dobbiamo ancora riscoprire e valorizzare. Senza dire che la nostra convivenza con loro, quando è fondata sull’amore scambievole, è un’autentica testimonianza evangelica.

Nella diocesi di Cuneo il vescovo ha permesso che tre sacerdoti convivano nella stessa casa per prendersi cura di uno di loro che, nel pieno delle sue energie, è stato colpito da sclerosi multipla e non è più autosufficiente. Solo Dio sa quanti frutti sta dando il loro esempio sia tra i laici che tra i preti. Un vescovo, ordinato di recente e che da prete aveva girato il mondo come giornalista, diceva di aver incontrato tra i sacerdoti troppe situazioni di solitudine. Dopo aver passato una giornata con loro, ha detto: «Sono stato tanto tempo in Italia, a Milano e poi a Roma per motivi di studio, ma non ho mai trovato una tale fraternità tra sacerdoti. Questa è la cosa più bella che finora ho visto: dei preti che si prendono a cuore i loro fratelli ammalati».

Ricordo un episodio della vita di san Bernardo di Chiaravalle. Suo padre aveva dato tutti i figli al monastero ed era rimasto solo nel castello. Bernardo lo invitò a passare con lui gli ultimi anni della sua vita. L’anziano genitore rispose: «Non posso: sono troppo vecchio e sarei un peso inutile in convento». E Bernardo: «Padre, è la prima volta che ti sento dire una cosa sbagliata». «Quale?». «Hai detto che Dio ha fatto una cosa inutile: la vecchiaia!». E l’anziano seguì suo figlio, ponendo però questa condizione: «Che nessuno sappia che sono tuo padre e voglio lavorare nella scuderia».

La malattia e la vecchiaia non sono inutili e tanto meno una disgrazia, ma fanno parte del dono dell’esistenza, anzi fanno riscoprire che la vita in ogni fase può dare i suoi frutti, a condizione che a quest’albero non siano tagliate le sue radici.

E. P.