Camminare insieme per andare più speditamente verso Dio
e verso il prossimo

 

 

Essere famiglia tra sacerdoti

 

di Silvio Bernardi

 

 

Un gruppo consistente di sacerdoti della diocesi di Cuneo da anni sta portando avanti un’esperienza di comunione fraterna. La grave malattia di un sacerdote ha permesso a tre di loro di abitare nella stessa casa. La convivenza nell’amore fraterno è di luce per tutti coloro che li avvicinano.

A

ssetati di vita, di vangelo, anche noi sacerdoti ci siamo sentiti rivivere incontrando la spiritualità collettiva del Movimento dei focolari.

Fin dall’inizio è stato nostro desiderio vivere nella stessa casa per aver la presenza di Gesù tra noi, ma il servizio alle comunità parrocchiali ci ha portati ad abitare ognuno nella propria canonica. Abbiamo cercato allora tutte le occasioni per collegarci tra noi e passare insieme ogni lunedì, il nostro giorno libero. Questi momenti di comunione concreta nel dono reciproco delle nostre esperienze o in una partita a pallone, nell’approfondimento della spiritualità o nel preparare da mangiare, vissuti alla luce del comandamento nuovo, rinnovano sempre in modo profondo la nostra vita.

Un’occasione preziosa

Qualche tempo fa si è presentata ad alcuni di noi l’occasione di poter vivere insieme in modo stabile. Don Gianni Beraudo, colpito da sclerosi multipla, non poteva più reggere il ritmo dei suoi impegni in parrocchia. È stato quasi naturale allora cercare tra noi sacerdoti una soluzione.

Ci siamo consultati per affrontare questo problema alla luce del vangelo ed abbiamo pensato di presentarci al vescovo con la disponibilità a lasciare i nostri incarichi (alcuni eravamo parroci, altri con responsabilità a livello diocesano) per stare con il nostro confratello ammalato. Il vescovo è rimasto sorpreso della nostra proposta ed ha chiesto una settimana di tempo per pensarci. Ma già il giorno seguente ha chiamato uno di noi per dirci che era contento e che andassimo avanti.

Don Gianni ne era felicissimo e diceva: «La cosa più terribile delle mie giornate è proprio il buio di fronte al futuro, ma ora ho una speranza».

Così da due anni viviamo nella stessa casa, don Gianni, don Eraldo ed io, anche se con incarichi diversi in diocesi. È un’occasione preziosa per credere e per dire con la vita che prima di ogni attività, anche tipicamente ministeriale, c’è l’essere famiglia, conta il dare vita a Gesù tra noi, mentre tutto il resto deve sgorgare da questa fonte.

Ora tutto è diverso: partire ogni mattino è un incrociare le nostre vite, è un accordarsi, un sintonizzarsi che dura tutta la giornata e illumina ogni pensiero e azione. Fatti a immagine di Dio che è Trinità, che è relazione, anche noi abbiamo bisogno di perderci nell’altro per amore, per esser dono e sperimentare la vera vita.

«Tu, come vivi la Trinità?»

Qualche tempo fa don Gianni ha parlato ad un gruppo di giovani della vita trinitaria in Dio come modello del rapporto tra noi. Alla fine un giovane gli ha chiesto: «Ma tu, come fai a vivere a mo’ della Trinità?». Lui allora ha parlato della nostra vita dicendo tra l’altro: «A me piace coltivare i bonsai: mi aiutano, con lo sbocciare di un fiore o l’appassire di una foglia, a meditare, a cogliere qualcosa del mistero della vita; però sovente faccio fatica a vedere, a padroneggiare le mani. Allora i miei amici che vivono con me mi prestano le loro mani per potare, i loro occhi per vedere. In quei momenti sento che viviamo la stessa vita che c’è in Dio, perché scorre lo stesso Amore». È proprio questa piccola vita quotidiana che è trasformata.

È sempre stata una fatica enorme per me scrivere un biglietto di partecipazione, inviare un augurio. Da quando lo facciamo insieme, sento che si consolida e cresce il rapporto con la persona a cui ci facciamo presenti, perché è farla partecipe di una vita che c’è tra noi, una vita che nasce dal dono reciproco. Insieme infatti si sceglie ogni parola, si cerca il biglietto più adatto. Questo ci butta fuori di noi, ci porta ad amare.

La Parola vissuta,
condivisa e annunciata

Chiamati a proclamare la Parola di Dio, a spezzarla come un pane, soprattutto nell’omelia, sentiamo la necessità di confrontarci su di essa.

È sempre un’esperienza nuova, perché non è tanto un prendere dall’altro una bella idea, ma è il dono di una luce che la Parola ha acceso in te, purificandoti e portandoti a metterla in pratica, e tu doni i suoi preziosi effetti in te. Comunicare tutto questo crea già tra noi la presenza di Gesù.

Così quando vai in un’assemblea senti che quella Parola che annunci ti ha già dato vita, ti ha generato e allora basta una persona che ascolti perché si ripresentino gli stessi effetti di luce e di vita.

L’anima di una radura è l’usignolo

All’inizio dell’ultima quaresima avevamo scelto come impegno comune di «dare il nome di Gesù ad ogni dolore che si sarebbe presentato per stare nella gioia». Ce lo ripetevamo all’inizio di ogni giornata. Una sera don Eraldo non è stato bene: un piccolo collasso. Mentre andavamo al pronto soccorso e si era un po’ ripreso, ha detto: «Ho la gioia in cuore, perché mentre mi sentivo male – non sapevo più dov’ero e non riuscivo a parlare – mi sono ricordato di Gesù crocifisso nel suo abbandono e gli ho dato tutto». La gioia nasceva nel costatare che Gesù è fedele.

Negli otto giorni in cui è rimasto all’ospedale era una gara fargli avere la meditazione, riportare a don Gianni, che non poteva muoversi, i biglietti di risposta di don Eraldo, i suoi sì. Lo scambio intenso diceva fraternità vera. Ci aiutava molto in quei giorni questo detto: «L’anima di una radura (colui che le dà vita) è l’usignolo». Anche se lontani l’uno dall’altro potevamo essere l’anima dell’ospedale, dove era don Eraldo, o della curia, dove io andavo a lavorare.

Un tesoro in vasi di creta

Se abbiamo un grande dono, un grande tesoro, è però custodito in fragili vasi di terra quali siamo noi. Un sabato sera, giocando alle carte, siamo arrivati ad alzare la voce uno contro l’altro. Ci siamo sentiti un nulla, capaci solo di belle parole; ma su quel nulla riconosciuto, accolto e chiamato per nome – il nome di Colui che sulla croce si è fatto peccato per noi – con una stretta di mano prima di andare a dormire, è nata una unità nuova tra noi.

Il giorno seguente siamo andati in posti distinti: don Gianni a guidare due incontri di giovani in parrocchie diverse, io ad animare l’incontro diocesano delle famiglie. Non eravamo soli, però: la presenza di Gesù tra noi, costruita sul nostro nulla, ci dava una luce nuova. Ricordo che guardavo quell’assemblea di circa duecento persone, vedendo solo Gesù, come dialogando con lui in ognuno.

Una sera ero già salito in camera, ma avevo salutato Gianni ed Eraldo senza calore, come se non avessi nulla in comune con loro. Ho visto sul comodino questa Parola: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede era un cuor solo ed un’anima sola». Non potevo andare a letto così e sono ridisceso, con una scusa qualsiasi, per riaccendere la vita.

Certamente quello che facciamo non ha ancora la dimensione perfetta dell’unità, tuttavia, accettandone la dinamica, facciamo quotidianamente l’esperienza di rialzarci ad ogni sbaglio e di far scoppiare la festa tra noi. È questa un’espressione che usiamo sovente, perché dice lo stupore che ci ritroviamo dentro come dono assolutamente gratuito ogni qual volta ravviviamo l’unità tra noi.

Gli altri vedono...

Più volte a chi, soprattutto fuori diocesi, mi chiedeva quale lavoro svolgo come sacerdote, il nostro vescovo, anticipandomi nella risposta, interveniva dicendo che il mio primo compito è stare con don Gianni. In una cena con un gruppo di parrocchiani egli esprimeva la sua gioia per la nostra esperienza: «È la prima volta che vedo dei sacerdoti risolvere loro stessi la situazione di un confratello malato facendosene carico, prendendo loro l’iniziativa».

È stato tra noi anche un vescovo polacco, mons. Chrapek, venuto a Cuneo per partecipare al convegno «Cristianesimo ed Europa». A chi l’aveva accolto all’aeroporto e accompagnato in città esprimeva che il suo intento principale come vescovo era quello di creare la comunione e la solidarietà tra i sacerdoti. Era stato consacrato vescovo da pochi mesi e nel suo girare per il mondo quale esperto in giornalismo aveva incontrato tra i preti troppe situazioni di solitudine.

Terminato il convegno è stato un giorno intero nella nostra casa. Quando lo abbiamo accompagnato all’aeroporto, è tornato più volte su questa giornata trascorsa con noi, dicendo tra l’altro: «Sono stato tanto tempo in Italia, studiando a Milano e poi a Roma, ma non ho mai trovato una tale fraternità tra sacerdoti». E sempre rifacendosi alla nostra convivenza, ha commentato: «La cosa più bella è che dei preti si prendano a cuore i loro fratelli». Era visibilmente commosso di quanto aveva vissuto in quei giorni.

Essere insieme è una ricerca che ci porta oltre noi stessi, verso Dio e verso i fratelli. Una meta che su questa terra non raggiungeremo mai pienamente, ma a cui possiamo sempre avvicinarci. E in questo cammino Dio si svela a noi molto vicino, anzi compenetra tutta la nostra vita.

Anche questa testimonianza allora non può essere che un grazie a Lui e anche a chi ci ha aperto questa strada di luce.

Silvio Bernardi