La croce, fondamento della spiritualità collettiva

 

 

La sapienza della croce oggi

 

del card. Miloslav Vlk

 

 

In occasione del terzo centenario della nascita del loro fondatore, san Paolo della croce, i padri passionisti hanno invitato il cardinal Miloslav Vlk, arcivescovo di Praga, a donare la sua esperienza durante una sessione solenne all’Antonianum di Roma. La offriamo ai nostri lettori, perché contiene nella sua semplicità narrativa la profondità di una teologia della croce di grande attualità.

Compimento di una promessa

L’invito a partecipare a questo Congresso internazionale sul tema «La sapienza della Croce oggi. La Croce di Cristo Unica Speranza», mi ha dato una grande gioia. Lo dico non per semplice cortesia, ma perché questo invito costituisce per me una possibilità di realizzare un voto a Gesù Crocifisso che ho formulato un giorno d’inverno negli anni ’70, sulle strade di Praga, quando pulivo i vetri dei negozi dello Stato comunista. Io, un sacerdote sconosciuto, privato della possibilità di esercitare il mio ministero.

Pulivo la vetrina di una mostra, quando improvvisamente mi si è accostato un compagno di scuola elementare del paese dove sono nato. Ha espresso la sua compassione per la mia situazione: «Tu sei sacerdote e devi esercitare un lavoro così umile e miserevole!». Ed ha cominciato ad imprecare contro i comunisti che avevano causato quella mia situazione, tirando in ballo tutta una serie di nomi di animali che affibbiava ai nostri «nemici», aggiungendo anche qualche bestemmia. Mi sono sforzato di spiegargli che la chiesa deve sempre patire nei suoi membri, in qualche angolo del mondo, per completare «ciò che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo» (Col 1, 24). Ma lui non mi ha capito e ha continuato ad inveire ripetendo le stesse cose. Anch’io ho ripreso il mio sforzo, ma invano...

Sono rimasto desolato: un cristiano si trova di fronte ad una presenza della croce viva e non riesce a capire! Con grande dolore dentro di me, ho fatto allora proprio lì, sulla strada, un semplice voto: «Gesù, tu hai subito per noi la tua passione sulla croce e noi cristiani siamo alle volte come gli apostoli prima della tua passione: non capiamo “un tale parlare” (Mc 9, 32) della tua croce e non ci preoccupiamo “delle cose di Dio, ma di quelle degli uomini” (Mc 8, 33). Ti prometto, Signore, di parlarne un giorno, quando sarò libero, quando avrò di nuovo la possibilità di annunciare il tuo oltraggio e di parlare della tua croce beata».

Oggi è un grande momento che mi permette di fare quello che avevo promesso, ed è questo il motivo per cui vi ringrazio di cuore.

Il punto di partenza:
la Parola di Gesù

Il sottotitolo della mia relazione, «Voci profetiche sulla Croce», m’invita a raccontare la vita sulla strada della croce, non a insegnare una dottrina o a dettare una meditazione. Ma permettetemi di spiegare un po’ il punto di partenza di questa «voce profetica», di questa mia piccola esperienza.

Nei tempi duri della persecuzione, una volta mi hanno colpito tantissimo i capitoli 8–10 del Vangelo di S. Marco. Gesù annuncia tre volte la sua passione. E collega strettamente quest’annuncio con quello della sua risurrezione. È interessante che Gesù lo fa sempre dopo un momento solenne: per esempio, dopo la professione di fede di Pietro, dopo la trasfigurazione o la guarigione di un indemoniato, o di fronte all’incomprensione degli apostoli: Gesù parla della sua morte e Giacomo e Giovanni chiedono di sedere alla sua destra e alla sua sinistra nella gloria!

Gesù rimprovera Pietro in modo durissimo: «Hypage, Satana» (Mc 8, 33), quando questi vuole distoglierlo da questa sua strada. Con le stesse parole: «Hypage Satana» (Mt 4, 10), aveva cacciato nel deserto il diavolo che per primo aveva cercato di sedurlo.

È la tentazione di percorrere delle vie umane, troppo umane, solo umane, per raggiungere la felicità, il benessere, la pace, la comunione con Dio e tra gli uomini. Dopo la caduta del primo Adamo e la venuta in mezzo a noi del nuovo Adamo, non c’è invece nessun’altra strada alla felicità, nel futuro dell’umanità, che quella di Dio, la strada dell’amore estremo, il più dispiegato: quello rivelato sulla croce.

Quando Gesù ha annunciato il memoriale della sua passione, della sua croce, della sua kenosis abissale nella santissima Eucaristia – allo stesso modo come di fronte all’annuncio della croce – molti non hanno capito e se ne sono andati via (cf Gv 6). E quando Pietro ha rifiutato la kenosis di Gesù nel cenacolo, il suo atteggiamento di croce nel gesto della lavanda dei piedi, Gesù ha detto chiaramente: «Non avrai parte con me» (Gv 13, 8).

Avere comunione con Gesù significa camminare con lui – che è la Via – sulla stessa sua strada della croce. Paolo lo esprime con il suo tipico ed eloquente syn-: synstaurothênai (essere con-crocifissi: cf Rm 6, 6; Gal 2, 20), synegerthênai (essere con-risorti: cf Col 3, 1). Portare la croce significa essere con-crocifissi con Lui, aver con Lui, il Crocifisso, una comunione di cammino e di destino. I tedeschi lo esprimono con una bella parola: Weggemeinschaft, Schicksalsgemeinschaft.

Il crocifisso non è un simbolo
ma Gesù in persona

All’inizio del governo comunista nel mio Paese, negli anni ’50, abbiamo aspettato la salvezza dagli Stati occidentali democratici, dalle armi americane, dalle forze umane. Dio ci ha fatto capire pian piano, come chiesa, che la sua strada, la strada del futuro, era un’altra. Anche alcuni sacerdoti sono stati tentati di salvare la chiesa per altre strade, con il compromesso. Ma in questo modo la strada non si è aperta.

Finita la Primavera di Praga, l’atmosfera è diventata più dura. Siamo rimasti soli, come abbandonati. Ma la cortina di ferro non era così fitta da non lasciar filtrare le nuove correnti spirituali nate in occidente. Penso qui in particolare alla spiritualità dei Focolari e alla sua visione di Gesù crocifisso ed abbandonato.

Paragonando il mio capire la croce con quello di chi viveva questa spiritualità, mi sono accorto ben presto che vedevo la croce di Gesù soprattutto come un oggetto sacro, come lo strumento della salvezza, come un simbolo di tutti i dolori miei e del mondo, delle sofferenze e persecuzioni che prendevo su di me spiritualmente come croce con Gesù, unendomi così a lui. A contatto con questa spiritualità ho avvertito che la croce per me era come depersonalizzata: era una cosa, non era Lui, Gesù, una persona.

Già l’insegnamento del Concilio Vaticano II mi aveva messo nel cuore il desiderio di un rapporto più personale con il mistero della croce. Là dove sottolinea, ad esempio, nella Dei Verbum (n. 2), il carattere personale della rivelazione: Dio «rivela Se stesso», «parla agli uomini e si intrattiene con essi come con amici»; o dove nella Sacrosanctum Concilium (n. 7) richiama la presenza viva del Signore attraverso la sua Parola, i sacramenti, la comunione sotto la guida dei pastori...

Mi affascinava questa figura di Gesù abbandonato così come la presentava la spiritualità dei Focolari. Leggendo e meditando una volta il profeta Isaia, mi hanno colpito le sue parole: «Egli ha portato i nostri affanni, egli si è addossato i nostri dolori» (53, 4). Non soltanto i peccati, ma tutti i dolori e tutte le sofferenze: non soltanto quelli del passato, ma anche i miei e quelli di tutti gli uomini di oggi.

Quando m’incontro con i dolori della mia vita di oggi, che Gesù «si è addossato» allora, essi mi stringono adesso, misticamente, con Lui che li porta su di sé. È per via di una pericoresi del tempo, di una pericoresi del passato col presente che si dischiude in un futuro nuovo, che essi s’intrecciano e sono una cosa sola in Cristo. Ecco allora che abbracciando i miei dolori e le mie sofferenze presenti, abbraccio in essi Gesù crocifisso.

Le mie sofferenze e la mia persecuzione hanno ricevuto un volto vivo, quello del Crocifisso. È stata una scoperta grande, come l’entrare in un «gioco» divino: riscoprire in tutte le sofferenze questo «uomo dei dolori» «disprezzato e reietto dagli uomini» (Is 53, 3).

Non mi ha frenato in questo «gioco» l’apparenza rischiosa e audace di questa idea. La scoprivo totalmente consentanea con la teologia di San Paolo, con il suo essere con-crocifissi e con-risorti, e con la teologia del capitolo 25 di Matteo, dove si svela la nascosta presenza di Gesù nei malati e nei sofferenti, negli affamati e negli assetati, nei carcerati e negli abbandonati. Lo insegna anche il Concilio nella Lumen gentium, affermando che «la chiesa riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Fondatore, povero e sofferente (...) e in loro intende servire Cristo» (n. 8); e nella Gaudium et spes, sottolineando che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (n. 22).

Sorgente di luce e di forza

Questa visione del Crocifisso è diventata per me la sorgente di luce e di forza nel periodo della persecuzione, quando, dopo i primi tre anni di vita presbiterale (avevo dovuto aspettare 12 anni prima di essere ordinato!), lo Stato comunista mi ha dimesso dall’incarico di segretario del mio vescovo. È stato per lui ed anche per me un grande dolore. Dopo una breve lotta nel mio intimo, ho detto il mio «sì!». Gesù, sulla croce, è stato espulso dalla terra per opera dei suoi persecutori. Questa mia espulsione è sua, mi dicevo.

Nessuno mi poteva aiutare. Sono rimasto solo. Con quell’atteggiamento sono partito per il mio «esilio» in un paesino di montagna. Ma l’esperienza dell’esilio non finiva lì: cominciava appena. Dopo sedici mesi di permanenza, la mia presenza cominciava a dar fastidio. I comunisti dicevano che influivo troppo sulla gente, che non si curava delle loro direttive mentre quando parlavo io ascoltava.

Il giorno dei defunti, uscendo di chiesa dopo la celebrazione della Messa mattutina, mi telefonò il segretario degli affari ecclesiastici della provincia, per dirmi che il mio incarico era terminato. Cercai di difendermi rispondendo che avrei almeno dovuto celebrare la Messa della sera, che era stata già annunciata e alla quale, trattandosi del giorno dei morti, avrebbero partecipato anche i non praticanti. Il segretario replicò che non avevo più la licenza dello Stato e che quindi non potevo più celebrare nessuna Messa.

Fu un colpo durissimo. Dovetti lottare dentro di me per accettare questa nuova partecipazione all’abbandono di Gesù in croce. La sera, alla presenza di tantissime persone venute per la Messa, dissi che non potevo celebrare e che era venuto per me il momento di testimoniare con i fatti quello che avevo loro predicato: la croce. Poi aggiunsi che perdonavo a coloro che mi avevano fatto del male. Subito dopo dovetti partire, perché nella piazza c’era la polizia e volevo evitare una possibile provocazione della quale, naturalmente, mi avrebbero ritenuto responsabile.

Sono rimasto di nuovo solo, abbandonato, nel buio. Ma questo buio si rischiarava... Capivo che anche Gesù era stato abbandonato nel buio e che il mio buio di quel momento era contenuto nel Suo buio sulla croce, e che perciò esso faceva da tramite fra me e Lui. A questo mio buio gli ho dato nuovamente un nome pur senza intravederne il volto: era Gesù. Ero solo, ma nella pace e addirittura nella gioia, in quella gioia che nasce dalla croce.

Dopo un po’ di tempo mi fu assegnata una nuova parrocchia, fuori della Boemia meridionale, ai limiti della diocesi. La piaga a poco a poco era sanata, ma l’esperienza non si è più cancellata. Il Crocifisso era entrato nella mia vita e aveva impresso per sempre il suo sigillo nel mio cuore.

Dopo sette anni di gioiosa attività, durante i quali si era venuta creando una grande famiglia parrocchiale, mi fu tolta di nuovo la licenza statale e con essa questa volta anche la possibilità di lavorare pubblicamente come sacerdote. Era il 1978, e presentandomi per l’ultima volta ai miei parrocchiani dovetti appoggiarmi all’ambone per non cadere, tanta era la mia sofferenza.

Ero rifiutato. Anche Lui, Gesù crocifisso, era il Rifiutato dagli uomini, fino al momento più profondo della sua vita, quando aveva gridato il suo sentirsi abbandonato persino dal Padre suo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46; Mc 15, 34). Mi sforzai di abbracciare quella situazione come il Suo abbandono, come Lui stesso.

La croce: speranza che non delude

Divenuto un «rifugiato», ho vissuto a Praga per nascondermi meglio dalla polizia. Non avevo dubbi: era iniziata per me la «notte oscura». Dicevo sempre il mio «sì» al Signore, ma dovevo lottare per mantenermi fedele, perché tutto in me si ribellava e spesso gridavo: «Perché, Signore?». Una volta, mentre mi facevo questa domanda, avvertii dentro di me anche la risposta: «Perché ti voglio bene». Erano le parole di una canzone, ma la mia anima fu illuminata e capii che cosa voleva dirmi il Signore: «Non voglio il tuo lavoro. Voglio te, voglio il tuo tempo per me. Il tuo lavoro poteva ancora essere un ostacolo tra noi, e io voglio che tu viva per me, non per il lavoro».

Compresi che Dio tiene nelle mani il tempo, la storia, i potenti di questo mondo. Capii che ogni situazione ci rivela il disegno dell’amore divino per noi ed esclamai: «Di nuovo ho creduto all’amore di Dio» (cf 1 Gv 4, 15).

Così la fede mi accompagnò con la sua pace anche durante il mio nuovo lavoro di pulitore di vetri per le strade di Praga. Per quasi dieci anni percorsi quelle strade, con il caldo e con il freddo, sostenuto dalla fede e dall’amore.

Capii che la croce Gesù l’ha vissuta costantemente nella sua vita, non soltanto alla fine. Gesù, la croce, l’ha vissuta dal momento in cui si è incarnato: perché faceva la volontà del Padre, non la sua (cf Gv 5, 30; 6, 38). Capii che la croce doveva essere una coordinata costante della mia vita, una coordinata normale. Pulire le vetrine come lavoro quotidiano era una croce: non l’avevo scelta io, e forse avrei dovuto pulirle per tutta la vita.

Questi dieci anni sono stati i più benedetti della mia vita sacerdotale. Sentivo che vivevo il sacerdozio in pienezza e se ancora ero assalito da momenti di sconforto subito riemergeva la forza del Crocifisso. Abbracciare Gesù abbandonato sulla croce è stato per me sempre e di nuovo una fonte di luce e di forza! Gesù ha emesso lo Spirito sulla croce (cf Gv 19, 20), e io sulla croce ero ogni volta più pienamente suo sacerdote.

Non si può immaginare la mia gioia quando un giorno ho letto le parole di Giovanni Paolo II rivolte a numerosi sacerdoti radunati per un congresso nella Sala Nervi, nel 1982: «Abbracciando nelle prove quotidiane Gesù sofferente, ci si unisce immediatamente con lo Spirito del Risorto e la sua forza corroborante (cf Rm 6, 5; Fil 1, 19)»1. Ecco il segreto della forza che mi ha sostenuto in questi dieci anni, ecco la luce della speranza, la croce, che non era più soltanto un oggetto sacro, ma una persona viva: Gesù crocifisso e abbandonato, incontrato e abbracciato nei dolori e nelle sofferenze!

Sì, la croce è la speranza che è luce per la vita e per il futuro. Speranza che non delude. E che puoi sperimentare come tale. Un anno prima della rivoluzione di velluto, potevo ritornare in una piccola parrocchia. Tre mesi dopo la rivoluzione sono stato nominato vescovo di Ceské Budejovice, un anno dopo arcivescovo di Praga.

La croce, unica speranza

Quasi come riassunto di questa testimonianza, vorrei raccontare un’esperienza forte di questi ultimi mesi. Alla fine dello scorso novembre sedevo nell’Aula Paolo VI, al primo posto della fila destra vestito da cardinale, davanti alla grande scultura di Gesù Risorto. Era come un sogno per me: un rifugiato, un pulitore di vetrine a Praga, condannato a tacere e sparire... Guardando quell’immagine davvero impressionante del Risorto, ho ascoltato la lettura della prima lettera di San Pietro (1 Pt 5, 6) nella liturgia della creazione dei nuovi cardinali: «Umiliatevi sotto la potente mano di Dio...».

I miei pensieri tornano ad un luogo di pellegrinaggio nella Boemia del Sud. È l’anno 1952, due giorni dopo il mio esame di maturità superato con la qualifica eminenter in tutte le discipline, ma con l’unica prospettiva di diventare operaio semplice in una fabbrica o in una mattonaia, perché non facevo parte della gioventù comunista. Anche in quel giorno si leggeva nella Messa questa lettura. Mi ricordo: allora ho detto di sì, ho accettato questa parola di Dio come parola-guida per il mio futuro: «umiliatevi sotto la potente mano di Dio». Prendi la tua croce, la tua debolezza, il tuo buio, l’essere niente...

E adesso qui, davanti alla raffigurazione del Risorto, così grande che non puoi non essere tutto preso da Lui, sento le stesse parole. Ma subito mi pervade una grandissima gioia quando sento anche la frase seguente: «affinché vi esalti a suo tempo... dopo un breve soffrire...». Capisco! Adesso è il «suo tempo». Io lo vivo! Non per un’esaltazione e un onore personale, ovviamente, ma per continuare a lavorare esplicitamente e pubblicamente per il suo Regno

La croce, la luce, la speranza. Comincio umilmente a capire di più. Lo vedo, lo tocco con le mie mani. È vero, Lui è fonte della forza, della luce, della speranza, della realtà piena di gioia.

La croce di Cristo è ancora oggi – e lo sarà sempre – l’unica speranza!

Miloslav Vlk

 

 

1)   Omelia del Santo Padre Giovanni Paolo II nella S. Messa per il Congresso internazionale «Il sacerdote oggi – il religioso oggi», 30 aprile 1982, n. 3.