Per rivivere nei nostri giorni l’esperienza della prima comunità cristiana

 

La spiritualità collettiva
e i suoi strumenti

 

di Chiara Lubich

 

 

Chiara Lubich, nel testo che pubblichiamo, ci svela i risvolti di una spiritualità «collettiva» o comunitaria, nata ai nostri giorni, ma che informa già la vita di centinaia di  migliaia di persone di tutte le chiese cristiane ed anche di altre religioni, sparse in tutto il mondo. Senza nulla perdere dei tesori accumulati nel passato, la spiritualità collettiva si propone quale risposta ai bisogni più urgenti e alle aspirazioni più nobili dell’umanità di oggi. I sottotitoli riportati nel testo sono redazionali.

I

n questi ultimi anni, dopo aver approfondito i vari punti della nostra spiritualità, abbiamo incominciato a rivedere in tutto il Movimento, anche alla luce di particolari avvenimenti successi nel suo seno, i suoi aspetti.

Nel 1991 infatti, dopo due nostri viaggi (nell’America del nord, negli USA, e in quella del Sud, in Brasile), abbiamo parlato del suo aspetto economico-sociale che trova la sua formula più compiuta e la sua attuazione più completa nella cosiddetta economia di comunione.

Nel 1992 si è toccato il tema della nuova evangelizzazione, mettendo in rilievo come il carisma dell’unità proprio del Movimento offra una proposta di evangelizzazione veramente nuova e feconda.

E l’inculturazione, che è uno dei contenuti dell’evangelizzazione, è stata al centro di un nostro viaggio in Africa, dando la speranza che anche in questo campo particolare il Movimento possa dire una sua parola.

Quest’anno si vorrebbe incominciare ad intrattenersi sull’aspetto spirituale del Movimento ed in particolare sulla sua spiritualità in quanto ha di proprio, di caratteristico: l’essere comunitaria o, meglio, collettiva, come diceva Paolo VI.

Lo splendore delle spiritualità

Si sa come, in questi duemila anni dalla venuta di Gesù, tutte le chiese, in quanto sono state fedeli alla Parola del Signore e all’ispirazione dello Spirito Santo, hanno visto fiorire nel loro seno, l’una dopo l’altra, e a volte contemporaneamente, le più belle, le più profonde, le più ricche esperienze di vita spirituale, sicché la Sposa di Cristo si è vista adorna delle perle più preziose, dei brillanti più rari.

In questo modo – come noi diciamo – se Gesù è il Verbo incarnato, la chiesa – nella pienezza di tutte le esperienze spirituali della storia – è un vangelo dispiegato nel tempo e nello spazio.

Si va a Dio singolarmente

E in tutto questo splendore una nota è sempre costante: è soprattutto l’individuo, la persona singola che va a Dio.

Da studi di nostri esperti e da loro lavori in proposito, risulta – almeno in una prima visione generale – che una spiritualità collettiva – come la nostra, ad esempio – appare per la prima volta nella chiesa.

Essi dicono che ci sono state nel passato esperienze che si avvicinano ad essa, soprattutto sorte da chi metteva l’amore a base della vita spirituale.

Ricordiamo in modo speciale san Basilio, per il quale il primo comandamento riguardante l’amore di Dio ed il secondo riguardante l’amore del prossimo erano posti a base della vita della sua comunità.

E soprattutto pensiamo a sant’Agostino, per il quale l’amore reciproco e l’unità avevano il supremo valore. È a lui che noi ci sentiamo, infatti, particolarmente vicini.

Ma secondo P. Jesùs Castellano, professore di teologia spirituale presso il «Teresianum» di Roma, che conosce profondamente la nostra spiritualità, «nella storia della spiritualità cristiana si dice: “Cristo è in me, vive in me’’, ed è la prospettiva della spiritualità individuale, della vita in Cristo; o si afferma che Cristo è presente nei fratelli e si sviluppa la prospettiva della carità, delle opere di carità, ma manca in genere il passo decisivo: scoprire che se Cristo è in me e nell’altro, allora Cristo in me ama Cristo che è in te e viceversa (...) e scatta la reciprocità del donare e del ricevere». (Anche l’amore reciproco – dico io – è raccomandato in varie regole di grandi fondatori).

Si va a Dio insieme

«Esiste – continua P. Castellano – anche una spiritualità comunitaria, ecclesiale, a corpo mistico. (...) Si parla in genere di questa spiritualità come di una nota attuale, di una corrente di spiritualità del nostro secolo; secolo della riscoperta della chiesa. Quel ‘‘di più’’ che (il Movimento) ci dà con la spiritualità collettiva è la visione e la prassi di una comunione, di una vita ecclesiale, ‘‘a Corpo mistico’’, nella quale esiste e la reciprocità del dono personale e la dimensione del diventare ‘‘uno’’. Anche quando esistono intuizioni o affermazioni negli autori di oggi su questa dimensione della teologia e della spiritualità, manca in loro il modo concreto di proporre questo come stile di vita, e di incarnarlo in una esperienza, come quella che il Movimento fa: dalle cose più semplici come ‘‘tenere Gesù in mezzo a noi’’, che è il massimo ed il minimo, alle dimensioni più impegnative come l’economia di comunione, l’inculturazione...

Esistono nella storia della spiritualità alcuni esempi di esperienze di spiritualità collettiva, di reciprocità nel dono; pochi in verità. (...) Ma anche queste rare esperienze non sono state proposte né come una dottrina né tanto meno come una spiritualità da vivere quotidianamente, possibile a tutti.

Certamente, esiste la spiritualità centrata sulla inabitazione trinitaria, ma a livello individuale; non scatta normalmente negli autori la conseguenza di tale inabitazione come consapevolezza di una comunione fra le persone che hanno la stessa grazia. (...) Non si arriva a dire, come nel Movimento: se la Trinità è in me ed in te, allora la Trinità è fra noi, siamo in una relazione trinitaria; (...) allora il nostro rapporto è a modo della Trinità, anzi è la Trinità che vive in noi questo rapporto»1. Fin qui P. Castellano.

Lo esigono i tempi

Nello stesso tempo una spiritualità collettiva è stata prevista per i nostri tempi da teologi contemporanei ed è richiamata dal Concilio Vaticano II.

Karl Rahner, parlando della spiritualità della chiesa del futuro, la pensa – dice – nella «comunione fraterna in cui sia possibile fare la stessa basilare esperienza dello Spirito». Egli afferma: «Noi anziani siamo stati spiritualmente degli individualisti, data la nostra provenienza e la nostra formazione. (...) Se c’è un’esperienza dello Spirito fatta in comune, comunemente ritenuta tale, (...) essa è chiaramente l’esperienza della prima Pentecoste nella chiesa, un evento – si deve presumere – che non consistette certo nel casuale raduno di una somma di mistici individualistici, ma nell’esperienza dello Spirito fatta dalla comunità. (...) Io penso che in una spiritualità del futuro l’elemento della comunione spirituale fraterna, di una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisamente si debba proseguire lungo questa strada»2.

Il Vaticano II, orientando la sua attenzione sulla chiesa come corpo di Cristo e popolo adunato nel vincolo di amore della Trinità, «modifica – scrive De Fiores – l’impostazione della spiritualità e della pastorale in senso ecclesiale. La salvezza e perfezione della propria anima, su cui hanno tanto insistito predicatori e autori spirituali, è liberata dalla preoccupazione individualistica. (...) Si sente l’esigenza (...) di vivere intensamente i legami di fraternità evangelica fino a formare comunità sul tipo di quella primitiva descritta come ideale dagli Atti degli Apostoli»3.

Il Santo Padre Paolo VI, quando era ancora cardinale, ha detto che in questi tempi ormai l’episodio deve farsi costume e che il santo straordinario, pur essendo venerato, cede il posto in certo qual modo alla santità di popolo, al popolo di Dio che si santifica4.

È un’era infatti la nostra in cui il collettivismo cristiano viene in piena luce, in cui si cerca, oltre il regno di Dio nelle singole anime, il regno di Dio in mezzo alle persone.

Primi sintomi di una
spiritualità «collettiva»

Ma come è la nostra spiritualità comunitaria? E quali le sue caratteristiche?

Vediamo innanzitutto come è nata, vediamo se ci sono primi episodi sintomatici che preludono ad essa.

Un sintomo rivelatore può esser stato già quell’anelito espresso sotto la furia della guerra: se avessimo dovuto morire era desiderio comune essere poste in una sola tomba con scritto sopra: «E noi abbiamo creduto all’amore» (1 Gv 4, 16).

È stata questa fede nell’amore che ci ha fatto iniziare la nuova vita amando i poveri in quei molti modi che tutti conosciamo.

Esperienza che ci ha ben presto illuminati sulla necessità di amare ogni fratello per essere cristiani.

E di qui, trovandoci tutte noi, prime focolarine, ad amare il prossimo, ecco fiorire l’attuazione del comandamento nuovo e la decisione di ognuna formulata in una specie di patto: «Io sono pronta a morire per te. Io per te. Io per te: tutte per ognuna».

Un patto che venne riconosciuto poi, negli anni, come base su cui è stato costruito tutto il Movimento; patto che manifestò quella che doveva essere la natura di esso: il reciproco amore (fino a dare la vita) che dava origine ad una spiritualità collettiva.

È stato quello l’avvenimento fondamentale di quei primi giorni della nostra vita. Esso chiamò come conseguenza la comunione spirituale delle nostre esperienze e la comunione dei beni.

E quest’amore reciproco doveva arrivare fino a consumarci in uno, fino a farci sperimentare l’unità.

Poi l’episodio della cantina con la lettura del testamento di Gesù, che ci apparve come la magna charta di ciò che stava per nascere.

E c’era un amore così radicale e totalitario per il fratello da farci perdere ogni altro obiettivo, persino quello della santità come allora s’intendeva. Se noi, chiamate ad una nuova via, l’avessimo perseguito, non sarebbe stato immune di amor proprio, di egoismo. La santità personale sarebbe emersa dal nostro vivere l’unità.

Poi le prime idee sull’unità fraterna.

È del ’47, una definizione dell’unità, data dopo averla sperimentata:

«Oh! L’unità, l’unità! Che divina bellezza! Non abbiamo parole umane per dire che cosa sia! È Gesù».

In una lettera del ’48 si legge ancora:

«L’unità! Ma chi potrà azzardarsi a parlare di essa? È ineffabile come Dio! Si sente, si vede, si gode ma... è ineffabile! Tutti godono della sua presenza, tutti soffrono della sua assenza. È pace, gaudio, amore, ardore, clima di eroismo, di somma generosità. È Gesù fra noi!».

Le esigenze del passato

Nei secoli passati si è spesso pensato di andar a Dio da soli. È questa una conseguenza ancora di quel lontano periodo della storia in cui i cristiani, scemato il primitivo fervore che aveva visto stringersi la comunità di Gerusalemme in un cuor solo ed un’anima sola, e, passate le persecuzioni, pensarono di salvare la propria fede ritirandosi nel deserto. È l’epoca dell’anacoresi.

Se questo salvò tanti principi cristiani e fece anche fra gli anacoreti dei santi, si perse spesso l’idea del valore del fratello nella vita spirituale o si vide nell’uomo addirittura un ostacolo per andar a Dio.

Apa Arsenio diceva: «Fuggi gli uomini, e sarai salvo»5.

Oppure: «Non posso essere contemporaneamente con Dio e con gli uomini»6.

E ancora molti secoli dopo si trovano insegnamenti simili.

Nel famoso libro dell’Imitazione di Cristo è scritto: «I santi più grandi evitavano, quando potevano, la compagnia degli uomini, e preferivano servire Dio nella solitudine. Disse un saggio: ‘‘Ogni volta che andai fra gli uomini, me ne tornai meno uomo’’. (...) A chi invero si allontana da amici e conoscenti, si accosta Iddio coi suoi angeli»7.

Le spiritualità individuali dunque, anche se il mistero del corpo mistico non permette mai che siano esclusivamente tali, in quanto ciò che avviene in una persona ha sempre riflesso sulle altre. Ed anche perché questi cristiani offrivano a Dio lunghe preghiere e pesanti penitenze in favore dei fratelli.

I bisogni del presente

Oggi i tempi sono cambiati.

In quest’epoca lo Spirito Santo chiama con forza gli uomini a camminare accanto ad altri uomini, anzi ad essere con tutti quanti lo vogliono un cuore ed un’anima sola.

E lo Spirito Santo ha spinto il nostro Movimento, vent’anni prima del Concilio, a fare questa solenne sterzata verso gli uomini.

Secondo la nostra spiritualità si va a Dio proprio passando per il fratello.

«Io-il fratello-Dio», si diceva. Si va a Dio insieme con l’uomo, insieme con i fratelli, anzi si va a Dio attraverso l’uomo.

Strumenti
delle spiritualità individuali

Ma qual è la differenza fra una spiritualità individuale ed una comunitaria o collettiva?

Le spiritualità individuali manifestano in genere delle precise esigenze:

– La solitudine e la fuga dalle creature per raggiungere la mistica unione con la Trinità dentro di sé. È classica la via di Teresa d’Avila che cerca d’unirsi al Signore al centro del suo cuore ove Egli abita.

– Per custodire la solitudine si esige il silenzio.

– Per tenersi lontani dagli uomini le religiose usano il velo e uomini e donne la clausura, oltre un particolare abito.

– Per imitare la passione di Cristo si fanno le più svariate penitenze – come è stato detto – a volte durissime, digiuni, veglie.

– Ci si sottomette spesso con l’obbedienza ad un superiore.

– Si formulano anche i voti di castità e di povertà.

– Ci si ritira a lungo nella propria cella a pregare, a meditare.

Strumenti
della spiritualità collettiva

Il fratello

Nella via collettiva si cerca senz’altro la solitudine e il silenzio, per ascoltare bene la voce di Dio nel proprio cuore; per attuare l’invito di Gesù a chiudersi nella propria stanza a pregare e inabissarsi nell’unione con Dio, come faceva Gesù sul monte; per evitare parole inutili... e si fuggono gli altri se portano al peccato, ma in genere si accolgono i fratelli. Ci si vuole unire con loro nel nome di Gesù, onde aver garantita la sua presenza in mezzo a noi. Di qui l’importanza, ad esempio, del focolare che offre 24 ore su 24 questa preziosa possibilità, ma anche l’importanza di ogni altra piccola o grande comunità.

Si ama Cristo nel fratello, in ogni fratello. Cristo che può essere vivo in lui o può rinascere anche per l’aiuto che noi gli offriamo.

È noto il paragone che facciamo: nelle spiritualità individuali si è come in un magnifico giardino (la chiesa) e si osserva e si ammira soprattutto un fiore: la presenza di Dio dentro di sé. In una spiritualità collettiva si amano e si ammirano tutti i fiori del giardino, ogni presenza di Cristo nelle persone. E la si ama come la propria.

E giacché anche la via comunitaria non è e non può esser solamente tale (dobbiamo pensare che ci presenteremo soli al giudizio di Dio), quando ci si trova da soli, dopo aver amato i fratelli, si avverte nell’anima l’unione con Dio. Basta infatti prendere un libro in mano per fare meditazione che Egli dentro vuole che si parli. Allora si vive un po’ come gli anacoreti, i trappisti, i certosini, ma dopo aver amato i fratelli. E ci si accorge quanto è sonora questa vita in solitudine (perché si parla con Dio) e in quanta compagnia.

Per cui si può dire che chi va al fratello in modo corretto, cioè evangelico, amando come il vangelo insegna, si ritrova più uomo, anzi più Cristo.

La parola

E, giacché si cerca di essere uniti coi fratelli, si ama in modo speciale la parola, che è mezzo di comunicazione.

Nel Movimento si parla per farsi uno con i fratelli con quella «tecnica dell’unità» che è a tutti nota, finché il fratello o i fratelli, pienamente convinti d’esser amati, trovano il coraggio di amare a loro volta ed entrano pure loro nella via collettiva.

Parlano i responsabili con gli altri membri in personali colloqui, per garantirsi che siano perseveranti nella via della perfezione (chi non progredisce, regredisce), per illuminare, consigliare, istruire, attendendo sempre nel vuoto totale di sé che lo Spirito Santo suggerisca la parola giusta per quella persona in quel momento.

Si parla nelle singole comunità per comunicarsi le proprie esperienze sulla vita della Parola di vita o sulla propria vita spirituale, consci che il fuoco non comunicato si spegne e che questa comunione d’anima è di grande valore spirituale. Ne dà una bellissima spiegazione san Lorenzo Giustiniani che dice:

«Nulla infatti al mondo rende più lode a Dio e più lo rivela degno di lode, quanto l’umile e fraterno scambio di doni spirituali: ché proprio di tali doni vigoreggia la carità, non potendo fiorire in solitudine. (...) È (...) precetto del Signore d’esercitare sempre questa virtù, mediante la parola e l’opera, verso i nostri fratelli. Per cui, se non vogliono essere trasgressori della sua legge e giudicati anime che disprezzano noncuranti la salvezza dei fratelli, quanti hanno ricevuto grazie dal cielo, con ogni impegno si studino di riversare sugli altri quei doni divini che furono loro comunicati, specie i doni che possono aiutarli nella via della perfezione»8.

Si parla nell’ora della verità quando i fratelli si aiutano a vicenda, con le proprie osservazioni negative o positive, a farsi santi insieme.

Si parla nelle grandi o meno grandi manifestazioni per tenere acceso il fuoco dell’amor di Dio onde si raggiungano le finalità dell’opera.

E quando non si parla si scrive: si scrivono lettere, articoli, libri, diari perché il Regno di Dio avanzi nei cuori. Si usano tutti i mezzi moderni di comunicazione.

Ma anche ogni altro parlare, o scrivere, deve essere sempre un parlare di cielo, finalizzato alla vita soprannaturale secondo le frasi di san Paolo: «Cercate le cose di lassù e non quelle della terra; sappiate le cose di lassù...» (cf Col 3, 12).

E tutto ciò che non obbedisce a questa linea va decisamente mortificato.

Le penitenze e i voti finalizzati all’unità

Non ci sono veli nella spiritualità collettiva, né grate, né vestiti particolari che ci distinguano dagli altri, a meno che non sia precisa volontà di Dio per noi, specie se apparteniamo a qualche ordine religioso. In genere, per non separarci dai fratelli, ci si veste come gli altri a seconda dell’ambiente, mimetizzandoci fra tutti perché a ognuno, senza ostacoli, arrivi il nostro amore.

Anche nel Movimento si praticano le mortificazioni indispensabili ad ogni vita cristiana, si fanno le penitenze, soprattutto quelle consigliate dalla chiesa, ma si ha una stima particolare per quelle che offre la vita d’unità con i fratelli. Essa, si sa, non è facile per l’«uomo vecchio» che vive sempre dentro di noi. L’unità fraterna poi non si compone una volta per tutte; occorre sempre ricostruirla. E se quando l’unità esiste, e per essa la presenza di Gesù in mezzo a loro, i fratelli sperimentano immensa gioia, quella promessa da Gesù nella Sua preghiera per l’unità, quando l’unità vien meno subentrano le ombre, il disorientamento. Si vive in una specie di purgatorio. È questa la penitenza che dobbiamo essere pronti ad affrontare.

È qui che deve entrare in azione l’amore per Gesù crocifisso e abbandonato, chiave dell’unità; è qui che per amore di Lui, risolvendo prima in noi ogni dolore, si fa ogni sforzo per ricomporre l’unità.

Lo Spirito Santo ci istruì ben presto su questa nostra tipica penitenza.

Ancora nel 1945 si scriveva:

«Non vi faccia paura il patire. (...) Ma cercate il patire che vi offre la volontà di Dio, (...) quella volontà di Dio che è amore vicendevole – il comandamento nuovo – la perla del vangelo.

(...) Allora tutte attratte dalla croce voi lavorerete per fondere in un sol blocco la vostra piccola comunità e dar con ciò la maggior gloria a Dio! Dio allora vivrà fra voi; lo sentirete. Godrete della Sua presenza: vi darà la sua luce, v’infiammerà del Suo amore! Ma per arrivare a questo occorre che voi vi votiate a Lui Crocifisso».

Per quanto riguarda i voti c’è nel Movimento chi li formula.

E per questi il voto, se ha, come per tutti, un fine ascetico (la mortificazione del proprio io con l’obbedienza, della propria carne con la castità, dell’attaccamento ai beni con la povertà), ha un significato particolare suggerito dalla spiritualità collettiva: serve anche decisamente per puntellare l’unità, serve alla comunità. Quello d’obbedienza per rendere più sicura l’unità con i superiori; quello di castità per aver un cuore puro atto ad amare Gesù in ogni prossimo; quello di povertà per essere pronti a realizzare con i fratelli la comunione dei beni.

La preghiera comunitaria

Anche nel Movimento si prega ed è particolarmente sentita la preghiera liturgica, come la santa Messa con la santissima Eucaristia, perché preghiera della chiesa. Tutto si può tralasciare in caso d’impedimento, ma mai la santa Messa.

Ed è caratteristica fra noi la preghiera collettiva insegnata da Gesù, quella che noi chiamiamo ‘‘consenserint’’: «Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà» (Mt 18, 19).

E, se si medita, lo si fa sulla Sacra Scrittura, o su scritti dei santi, o su documenti della chiesa adatti a ciò, o su brani riguardanti la nostra spiritualità, ma poi, a tempo opportuno, si comunica ai fratelli il frutto della nostra meditazione, giacché si deve perseguire la santità altrui come la propria.

Si fanno nel Movimento anche giorni di ritiro e gli esercizi spirituali.

Nel programma si mettono degli argomenti spirituali, da meditare nel silenzio e nella solitudine, ma anche conversazioni e comunicazioni fraterne ad edificazione comune.

Gesù in mezzo a noi

Nelle vie individuali poi il cristiano per amare Dio occorre segua spesso una certa graduatoria, salga vari gradini, si incammini verso la montagna della perfezione.

La via collettiva ha anche essa i suoi progressi, ma pone piuttosto il cristiano subito in vetta, in alto. È la presenza di Gesù in mezzo che lo esige, Gesù che vive in mezzo ed in ciascuno non può trovarsi a metà strada: Egli è sempre perfetto. Se cresce, cresce in perfezione.

Nella via collettiva, stando già in alto, si cammina lungo lo spartiacque superando tutte le prove piccole e grandi con Gesù crocifisso e abbandonato, fino ad arrivare al traguardo che Dio ci ha segnato.

Per noi, che percorriamo la via dell’unità, Gesù in mezzo è essenziale.

Pena il nostro fallimento personale, noi dobbiamo sempre ravvivare la sua presenza nei nostri focolari, nei nostri nuclei, nelle nostre unità, nei nostri convegni, nei centri, nelle cittadelle, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità. E se la volontà di Dio ci vuole dispersi e soli nel mondo, mentre ci sosteniamo con l’amore a Gesù crocifisso e abbandonato dobbiamo cercare ogni occasione per stabilire la sua presenza con qualche fratello di ideale. Solo così avremo sempre la luce, la forza, la pace e l’ardore.

È Gesù in mezzo che porta quel «di più» che caratterizza il nostro carisma.

Come due poli della luce elettrica, pur essendoci la corrente, non fanno luce finché non si uniscono, ma la producono appena uniti, così due persone non sperimentano la luce tipica del carisma finché non si uniscono in Cristo mediante la carità.

Gesù in mezzo non è un fatto che può verificarsi ogni tanto, è la natura della nostra vita, deve esserci sempre. Non è solo un punto d’arrivo, è anche un punto di partenza: «Prima di tutto abbiate tra voi la mutua carità» (cf 1 Pt 4, 8).

Per noi tutto ha significato e valore, nell’apostolato, nello studio, nel lavoro, anche nella preghiera e nella tensione alla santità, se abbiamo prima con i fratelli Gesù in mezzo, che è la norma delle norme della nostra vita.

Noi raggiungeremo la santità se faremo verso Dio una marcia in unità.

Il «castello esteriore»

Santa Teresa d’Avila, dottoressa della chiesa, parla di un «castello interiore»: la realtà dell’anima abitata al centro da Sua Maestà, da scoprire e illuminare tutto durante la vita superando le varie prove. E questo è un culmine di santità in una via prevalentemente individuale, anche se poi lei trascinava in quest’esperienza tutte le sue figliole.

Ma è venuto il momento, almeno questa è la nostra vocazione, di scoprire, illuminare, edificare, oltre il castello «interiore», anche il castello «esteriore».

Noi vediamo tutta l’Opera come un castello esteriore, dove Cristo è presente e illumina tutte le parti di essa, dal centro, dove è il centro dell’Opera, alla periferia.

Ma se noi pensiamo fin dove arriva la nostra spiritualità, anche fuori della struttura dell’Opera, come ad esempio ai vescovi, ravvivando così la collegialità fra loro e con il Santo Padre, comprendiamo subito che questo carisma non fa solo dell’Opera un castello esteriore, ma tende a farlo della chiesa. E questo è il nostro sogno. Così per esso la chiesa è più una e più santa.

Chiara Lubich

 

 

1)   J. CASTELLANO, lettera a Chiara Lubich a proposito della spiritualità collettiva (dell’unità) dell’Opera di Maria, del 21 giugno 1992.

2)   K. RAHNER, Elementi di spiritualità nella chiesa del futuro, in: Problemi e prospettive di spiritualità, a cura di T. GOFFI - B. SECONDIN, Ed. Queriniana, Brescia 1983, pp. 440-441.

3)   S. DE FIORES, Spiritualità contemporanea, in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Roma 1978, p. 1535.

4)   Cf G. B. card. MONTINI, Discorsi su la Madonna e su i Santi (1955-1962), Milano 1965, p. 499-500. 5)   L. MORTARI (a cura di), Vita e Detti dei Padri del deserto, Città Nuova Ed., Roma 1975, p. 97.

6)   Ibid., pp. 99-100.

7)   Imitazione di Cristo, I, XX, 1-6. 8)   S. LORENZO GIUSTINIANI,  Disciplina e perfezione della vita monastica, Città Nuova Ed., Roma, 1967, p. 4.