Klaus Hemmerle e i cristiani
di altre Chiese
Una vita per l’unità
di Hubertus Blaumeiser
Fin nel più profondo uomo del
dialogo, Klaus Hemmerle viveva con grande intensità la Parola di Dio. É qui
l’origine della sua rilevanza ecumenica. Il suo apporto in questo campo ci
sembra particolarmente importante ed attuale, anche per i rapporti nuovi che
egli ha saputo instaurare con tanti vescovi di varie Chiese.
«L |
’ecumenismo
non è stato un campo del suo lavoro, ma era diventato un elemento vitale ed
immediato del suo essere e del suo agire. Sta qui la sua efficacia. Credo che
questo abbia avuto un effetto molto importante per i rapporti fra le Chiese».
Sono parole del dott. Martin Kruse,
fino al 1994 vescovo evangelico di Berlino-Branden-burgo
e fino al 1991 presidente del Consiglio delle Chiese evangeliche della Germania; parole che colgono nel segno la presenza ed
incidenza del vescovo Hemmerle in ambito ecumenico. «Non era certo l’uomo dei
grandi proclami pubblici», ha detto ancora Kruse,
bensì «agiva per la sua esistenza ecumenica di vescovo».
Con questa «esistenza
ecumenica» il vescovo Hemmerle ha saputo guadagnarsi i cuori di innumerevoli
cristiani di altre Chiese. E non solo i cuori del «popolo» come quello di una
giovane donna evangelica che ebbe a dire: «Egli ha sempre impersonato per me il
vescovo come Gesù lo vede e che tutti possono accettare e accetteranno un
giorno». Ma anche i cuori e l’amicizia di tanti responsabili delle Chiese. Tant’è vero che tra i primi a reagire con un comunicato
stampa alla notizia della morte è stato il vescovo evangelico Johannes Hanselmann della
Baviera, personaggio di primo piano del luteranesimo. «Non c’è dubbio: Klaus
Hemmerle mancherà alla sua Chiesa, all’ecumenismo, al Movimento dei focolari»,
ha affermato Hanselmann ed ha ricordato che, da
quando si erano incontrati per la prima volta nel
Il fatto è che Klaus Hemmerle
ha saputo vivere la sua fede cristiana e il suo ministero episcopale in maniera
tale che attorno a lui si instauravano con immediatezza rapporti nuovi. Fu
così, ad esempio, per Evmenios Tamiolakis
che è stato per più di 16 anni parroco dei greci-ortodossi nella città di Aquisgrana.
Hemmerle aveva messo a disposizione di lui e della sua comunità la chiesa di s.
Michele, nei pressi immediati della cattedrale. Quella vicinanza fisica si è
ben presto trasformata in «vicinanza di spirito e di anima», ricorda Tamiolakis. E soggiunge: «É stato per me padre, era mio
fratello, mio collaboratore, era per me tutto». Per cui è stato spontaneo che
questo parroco ortodosso si recasse immediatamente da Klaus Hemmerle
quando il giorno di Natale del 1993 aveva saputo della propria elezione
a vescovo.
«Vitalità
biblica»
Ma che cosa c’era alla base
della «esistenza ecumenica» del vescovo Hemmerle?
Innanzi tutto un rapporto
straordinario con la Parola di Dio. Diceva alle volte, con una nota di humour,
che per lui era quasi più facile scrivere un libro che non trovare il tempo per
leggerne uno. Ma ciò non gli ha impedito di leggere, anzi di scrutare durante
tutta la sua vita la Bibbia, ricavandone sempre nuova ispirazione. Fu quello
che colpì, tra gli altri, il vescovo Kruse che, sin
dal primo incontro, rimase attratto da questa «vitalità biblica», come l’ha
voluta chiamare.
Quando il teologo e vescovo
Hemmerle doveva affrontare un qualsiasi tema, era solito ricorrere a due fonti:
a ciò che egli apprendeva con grande sensibilità dalla vita e dai suoi numerosi
incontri e alla Parola della Scrittura, che egli schiudeva di preferenza
rifacendosi – almeno per il Nuovo Testamen-to – al testo originale in greco e –
quando si trattava di individuare linee di fondo e nuovi contesti – ai grandi
tomi del Dizionario teologico del Nuovo Testamento di Gerhard
Kittel.
Eppure il vero metodo di
approfondimento della Parola di Dio era per lui la vita. Come tutti nel
Movimento dei focolari, egli si impegnava a tradurre in pratica quella frase
della Scrittura che di mese in mese si sceglie come
«Parola di vita». E lo faceva con incredibile concretezza, al punto da aver
sempre qualche fatto vissuto da raccontare.
Da tale «vitalità biblica»
scaturiva una teologia originale, genuina come l’acqua di sorgente e, di
conseguenza, ecumenicamente molto feconda. Ricordo
come attorno alla metà degli anni ’80 Klaus Hemmerle dovette parlare ad uno
degli annuali corsi della Scuola ecumenica di Ottmaring
– di cui fu uno dei principali iniziatori e promotori – sul ministero ordinato
dal punto di vista cattolico. Prese allora una lunga «rincorsa» e disegnò in
maniera vibrante quello che egli chiamò il «cammino della sequela» – dalla
scoperta di Dio Amore alla vita nell’amore reciproco e al mistero pasquale fino
alla vita della Parola e l’Eucaristia – per collocare poi in questo ampio contesto, con poche ed
incisive parole, la dottrina del ministero. Sortì un interesse grandissimo, non
per ultimo nel suo correlatore evangelico, l’Oberkirchenrat
Rupprecht, col quale nacque un dialogo commovente che
finì per appassionare tutta la sala.
«Pensare
con la testa dell’altro»
Sarebbe difficile contare
coloro che, a ragione, si ritengono amici personali di Klaus Hemmerle. Era
inconfondibile il suo modo di rapportarsi con l’altro e poteva quasi lasciare
confuso. Disarmato fino all’inverosimile, dava fiducia a tutti e con questo
sapeva farti percepire nella tua vita qualcosa di grande e di importante che
non avresti immaginato. Senza complessi e senza finzioni, egli metteva in atto
l’invito di Paolo di stimare l’altro superiore a se stesso (cf Fil 2, 3). L’ultimo discorso pubblico, che egli ha
tenuto, a neanche sette giorni della morte, dopo la prima Divina Liturgia
celebrata come vescovo dal suo amico greco-ortodosso già menzionato, ne è un
esempio lampante (cf riquadro a fine articolo).
Scrivendo qualche mese dopo
dell’amico defunto, questi ha rigirato all’indirizzo di Klaus Hemmerle quelle
parole così piene di carità sopraffina. E con ciò ha testimoniato che avevano
ottenuto il loro scopo: la comunione nella reciprocità dell’amore.
Hemmerle era dunque un appassionato
ricercatore dei tesori nascosti nel cuore e nella vita dell’altro. Ed era un
maestro nel saperli mettere in luce. E questo non solo per quanto riguarda i
singoli, ma anche le Chiese. «Nelle cose che ci ha detto – racconta una giovane
evangelica –, ci ha sempre messo in cuore la nostra Chiesa». E ancora: «Si è
fatto così profondamente uno con noi da farci comprendere ed amare ancor più la
nostra Chiesa». Secondo il vescovo Kruse questo era
anche il fulcro degli annuali incontri ecumenici di vescovi che Klaus Hemmerle
promuoveva: «Scoprire presso l’altro la ricchezza di Cristo e condividerne i
rispettivi doni». Alla Scuola ecumenica di Ottmaring
il vescovo Hemmerle lo ha formulato una volta così: «Amare in maniera tale i
fratelli di fede in Cristo Gesù da trovare, a partire da questo amore, un nuovo
rapporto con Dio, con i fratelli, col mio Cristo». E spiegava: «A partire da
questo livello del rapporto troviamo un punto d’accesso alla verità. Esso non
sostituisce il lavoro teologico, ma lo rende possibile. Perché altrimenti si
contrappongono tra loro le diverse formulazioni senza comprendere il motivo per cui l’altro pensa in quel determinato modo».
«Amare la Chiesa dell’altro
come la propria» era il motto col quale gli piaceva riassumere questo atteggiamento
di fondo. E quindi: non far centro su se stesso, ma avere il proprio centro
nell’altro, ad immagine delle tre divine Persone che vivono, in continua pericoresi d’amore, l’una nell’altra. Che cosa significasse questo per lui, lo ha estrinsecato, con quel
suo immancabile humour e il suo caratteristico amore per le immagini,
quando un giorno a Loppiano alcuni focolarini delle Repubbliche ceca e slovacca
avevano eseguito, per lui ed alcuni vescovi di varie Chiese, un’allegra danza
in cui si passavano a vicenda – dalla testa dell’uno alla testa dell’altro – i
loro cappelli. Commentan-do il pezzo, Klaus Hemmerle ha spiegato come vi aveva
ravvisato quello che anche loro come vescovi di varie Chiese si sentivano
chiamati a fare: «Pensare ciascuno con la testa dell’altro». Egli lo sapeva
fare al punto da operare – come ha attestato l’Oberkir-chenrat
evangelico Merz – miracoli con questa semplice frase:
«Io la capisco bene».
Eppure il suo non era
atteggiamento irenico. Comprendeva l’altro e lo valorizzava. Ma allo stesso
tempo offriva la propria realtà e le proprie convinzioni. Non le imponeva, ma
neppure le nascondeva, ed era proprio con questa sua estrema lealtà e sincerità
che egli sapeva rendere possibile il vero dialogo. L’ecumenismo si realizzava
per lui nello scambio dei doni fatto davanti a Dio, senza mai sacrificare né la
carità né la verità. Faceva la propria parte nella certezza che poi Dio avrebbe
fatto la sua. E in questo modo costruiva l’unità con gli altri, senza mai
rompere l’unità con la propria Chiesa.
Una
specie di gestazione
Ovviamente questa non era
un’operazione semplice. Intelligente e sensibile come era, registrava come un
sismografo le tensioni e i problemi – e non solo in ambito ecumenico – e li
guardava in faccia. Ma il suo modo di reagirvi era «contro corrente». Direi che
era «materno» o meglio: mariano. Ho potuto rendermene
conto in tante situazioni.
Nell’estate del 1987 ad un
gruppo di seminaristi ha disegnato in tre schizzi quella che, secondo lui, era
la dimensione «mariana» del ministero: innanzi tutto essere «figlio», essere
«come quella figlia di Dio che quasi danza il suo Magnificat». E questo – ha
ribadito – è molto importante. Poi: diventare madre, portare
in sé gli altri; generare, patire la loro vita e dare la vita; essere un niente,
un vuoto, ma dando tutto. E infine, nei momenti di prova e in altre
situazioni in cui si deve stare solo come Maria sotto la croce: perdere tutto,
non aver niente in mente, fare nient’altro che «stare». E così offrire Gesù. Io
credo – ci diceva – che questa è anche una situazione prettamente sacerdotale
ed episcopale.
In una parola: non affrontava
le disunità ed ogni altra difficoltà dall’esterno. Era convinto che per
risolverle occorreva accoglierle e soffrirle dentro di
sé, in una specie di gestazione spirituale umano-divina che prima o poi avrebbe
sprigionato luce e portato frutto.
Fu questo il suo modo di
vivere anche i dolori dell’ecumenismo, come avvenne ad esempio in quel dialogo
sul ministero alla Scuola ecumenica di Ottmaring di
cui accennavo. Dopo ore di appassionata ricerca della verità nella carità si
era prodotto un rapporto profondissimo, ma si erano evidenziati anche i punti
che tuttora segnano una divisione. Fu un’esperienza fortissima di impotenza,
piena di dolore, ma vissuta in una comprensione e compenetrazione reciproca
tali, da sprigionare, pur nel patire, un’intensa luce.
«Rimangono delle piaghe
aperte», ha detto Klaus Hemmerle qualche anno dopo a conclusione di un altro
corso della Scuola ecumenica. «Ma se credo che Gesù nel suo abbandono ha preso
su di se anche questo dolore, allora posso assumerlo pure io». E si rifaceva a
Maria sotto la croce: «Ella sta sotto la croce senza poter aiutare; senza poter
cambiare la situazione. Vi è questo suo intimo ed estremo perdere e stare. E penso
che stiamo apprendendo questo reciproco saper stare sotto la croce dell’altro e
sotto la propria croce come una maniera preziosissima (di essere) che ci
conduce poi dalla sua piaga all’unità».
Secondo la paradossale logica
del mistero pasquale, per Klaus Hemmerle erano proprio le prove e le difficoltà
il luogo da cui sarebbe scaturita l’unità con Dio e con i fratelli e le
sorelle.
«Abbà, Padre»
Anche nella sua azione
ecumenica, era dunque fin nel più intimo sacerdote; in quel senso ampio in cui,
ad immagine di Gesù, lo può essere ogni cristiano, dando alla propria vita
profondità e fecondità inestimabili.
«L’atto fondamentale della mia
vita e del mio servizio sacerdotale – ha raccontato ai vescovi dell’Austria in
una sua conversazione – è questo: dire assieme a Gesù “Abbà,
Padre!”. Voglio essere intimamente radicato là dove Lui è. Ed Egli, essendo
crocifisso, è all’estremo limite, all’ultimo confine. Nella massima distanza
dal Padre, nello spogliamento di sé fino alla donazione totale, in questa kenosi
che si esprime nella preghiera del Salmo 22 (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?”), è là che Egli si trova: là dove Dio è più lontano che mai. Ed è
di là che Egli dona lo Spirito, è di là che si rivolge al Padre. Dovunque vado,
il mio compito è dunque quello di guardare ad occhi aperti le difficoltà, i
problemi, gli abbandoni, e di scoprire in tutto questo Lui per dirGli: “Sì, Tu hai accettato
tutto questo” – unendomi così al suo “Abbà, Padre”».
«E in quello stesso “Abbà, Padre!” – ha proseguito –, mi rivolgo a colui che mi
trovo di fronte, (...) a tutto quanto dentro di me e fuori di me e attorno a me
rimane non spiegabile, a tutto quello che è contrario, a tutti gli abissi... Tutto ciò – questo mi è dato di conoscere – è stato in
qualche modo assunto da Lui. (...) Detto con una sola
frase: essere sacerdote per me significa stare davanti al Padre assieme al
Figlio, che dai confini del mondo e della storia e dell’umanità si offre a Lui
assumendo tutto in Sé, e generando così comunione per mezzo del suo Spirito».
Nella sua dimensione più
profonda, l’azione ecumenica di Klaus Hemmerle era in definitiva preghiera,
offerta. Preghiera che si faceva ogni giorno vasta
come il globo, quando in una originale sorta di «litania» ricordava centinaia
di amici e specialmente di vescovi – cattolici e di altre Chiese – sparsi in
ogni angolo della terra e li affidava ad uno ad uno al Padre. E preghiera che
si trasformava, quando c’era l’occasione, in un patto d’amore reciproco che
egli ha stretto con decine di vescovi di diverse Chiese promettendosi a vicenda
di «cercare in tutto e prima di tutto l’amore scambievole come Gesù ci ha amati
affinché tutti siano uno e il mondo creda» (cf Gv 15, 12 e 17, 21).
Stabilire fra i cristiani
l’amore scambievole e iniziare a vivere unanimi la Parola di Dio era il fulcro
dell’esistenza ecumenica del vescovo Hemmerle ed era, allo stesso tempo, il suo
contributo per preparare – come ha detto un giorno – «dal di
dentro» le strade della piena comunione.
Hubertus Blaumeiser