L’azione pastorale del
Vescovo di Aquisgrana in
risposta alle sfide dell’oggi
Cammino in comunione
di Andreas Frick
Gli ultimi anni del ministero
del vescovo Hemmerle hanno avuto un timbro particolare. Impegnato a dialogare
con tutti, ha preparato sacerdoti e laici alla nuova situazione della Chiesa in
una società sempre più secolarizzata, avviando l’intera diocesi a vivere la
fede come un «cammino in comunione». Era infatti
profondamente convinto che questo momento, con tutte le sue difficoltà,
conteneva in sé la chance di un «nuovo inizio». Ce ne parla un sacerdote della
sua diocesi.
L |
a
lettera pastorale per la quaresima dell’anno 1989 fu una vera sorpresa per
tutta la diocesi. Cominciava così: «La mia lettera pastorale sarà per quest’anno diversa dal solito. Io non avrò tanto da dire
qualcosa a voi, quanto piuttosto da chiedere una vostra parola, un vostro
consiglio». In pratica il vescovo invitava tutta la diocesi, a riflettere sulla
domanda: come sarà il volto della mia comunità nell’anno duemila?
Un
appello
all’autenticità e alla creatività
Egli aggiungeva la propria
previsione. «Ne sono certo, sotto molti aspetti essa sarà totalmente diversa da
come è oggi. Ci saranno meno servizi religiosi presieduti dal sacerdote e meno
attività a cui egli parteciperà direttamente. Molte di
queste ultime verranno programmate e svolte da voi
assieme ad altre comunità. Donne e uomini della vostra comunità determineranno
la fisionomia della vita della comunità, molto più di quanto lo facciano oggi. Diaconi e laici impegnati a tempo pieno nel
servizio pastorale coopereranno certo con voi e con i sacerdoti, ma essi non
potranno né dovranno sostituire quella testimonianza e quel servizio che
emergono dalla comunità. La dotazione materiale e istituzionale della comunità
non aumenterà, ma avverranno anche qui delle limitazioni e delle
concentrazioni.
Certo che cambierà ancora
qualcos’altro, e più in profondità. Ci saranno, ad esempio, meno persone che sin
dalla loro giovinezza avranno familiarità con forme e tradizioni ecclesiali.
Probabilmente crescerà invece il numero di quelli che nella nostra società si
orientano secondo norme e valori diversi da quelli annunciati nella Chiesa.
Rispetto ad oggi, solo una minoranza della popolazione sarà raggiunta dai
normali servizi religiosi e dalla consueta catechesi (...). Questo è doloroso e
in realtà suona come una chiamata. E perché chiamata è anche una chance.
Non voglio trasfigurare la carenza, ma è tempo che impariamo a interpretarla
come “povertà positiva”».
Il suo invito consisteva
nell’accettare insieme e con responsabilità questa sfida.
Interrogativi
di fondo
Per cominciare questo cammino
il vescovo invitava a confrontarsi sulle seguenti domande:
1) Come possiamo diventare comunità missionaria? Intendo una comunità
in cui condividiamo la fede gli uni con gli altri e la testimoniamo per quelli
che non sono raggiunti dalla messa e dall’omelia domenicale.
2) Come può ogni comunità essere una comunità in comunione, in
cui tanti servizi si completano a vicenda e non ci si aspetta tutto dal
sacerdote o dagli addetti d’ufficio?
3) Come ci possiamo immaginare un cammino insieme tra varie comunità,
in cui condividiamo gli uni con gli altri doni e impegni, vita e servizi,
compreso il servizio sacerdotale?
4) Com’è pensabile una povertà positiva? Dove potrebbe
cominciare una significativa limitazione delle nostre aspettative e delle
nostre abitudini nelle comunità?
Il vescovo concludeva: «Perciò
vi prego di comunicarmi le vostre preoccupazioni, le vostre speranze,
esperienze e suggerimenti. Scrivetemi! Potete farlo da soli o in gruppi, in
modo diretto o tramite la vostra comunità. Così cooperate a ciò che ci è
affidato come responsabilità di tutti: diventare, nella testimonianza e
servizio reciproci, comunità in cammino, in mezzo alla quale il Signore
stesso è presente e ci guida verso il futuro».
Le
prime risposte
In seguito a tale invito
pervennero al vescovo centinaia di lettere, che egli lesse attentamente. Consapevole
che una gran parte della sua attenzione e del suo incoraggiamento doveva particolarmente indirizzarsi ai collaboratori
pastorali a tempo pieno – sacerdoti, diaconi permanenti, laici – li invitò nel
Natale
Se siamo insieme in cammino,
non mi può lasciare indifferente ciò che riguarda quelli con cui sono legato
nel servizio. E così, sacerdoti da lungo tempo vicini si conoscevano a vicenda,
osavano per la prima volta raccontarsi i propri limiti nella loro parrocchia o
quelli riguardanti la loro salute o la loro capacità.
Alcuni
progetti
Da questi colloqui nascevano i
primi progetti di aiuto reciproco. Non solo si attuavano nuove forme di
preparazione alla cresima di giovani e adulti, ma anche nuove possibilità nella
preparazione al matrimonio, realizzate tra più parroci. E risultò subito che in
molti decanati c’era un numero, maggiore del previsto, di medici, di coppie
mature e di sacerdoti adatti a tale preparazione.
Il vescovo Hemmerle, quando
parlava con i lavoratori e i loro delegati, restava sempre impressionato dalla
loro fede, dalla loro solidarietà e sensibilità per le situazioni di
ingiustizia e assicurava: «Troveranno il mio sostegno i lavoratori che nella
mia diocesi si daranno da fare». Già prima aveva favorito la costituzione di un
Centro di formazione e di incontro per associazioni cattoliche dei lavoratori e
riassumeva i primi tentativi del nuovo progetto nel modo seguente: «Il concetto
di cammino in comunione sta ora al centro dell’interesse della diocesi
di Aquisgrana. Non si tratta qui di pure forme
organizzative nelle e tra le parrocchie, ma si tratta di passare dal
non-rapporto, dall’isolamento e dall’alienazione a un incontro e a una
partecipazione all’insieme della Chiesa, in cui ciascuno può dare il proprio
contributo così come egli è. Il Centro di formazione e di incontro può
diventare un luogo privilegiato del nostro cammino in comunione: esso,
nella libertà di fare esperimenti dal risultato non necessariamente scontato,
può servire da indicazione alla collaborazione per quanti hanno bisogno di
solidarietà, perché emarginati e privi di orientamento. ln tal modo può crescere un cammino di comunione
reciproco, che risulterà non come un mezzo o semplice strumento, ma come
l’essenza stessa della Chiesa».
Gradualmente l’idea del cammino
in comunione prendeva corpo. Sin dall’inizio diversi raduni davano
l’opportunità di comunicarsi quello che prima non si riusciva ad esprimere per
mancanza di tempo o per timore. Emergevano tante preoccupazioni, comprese
quelle di dover perdere posizioni e pretese. In questo primo periodo il vescovo
rinunciò di proposito a influenzare tale processo con sue direttive e
aspettative.
Decalogo
di un
cammino in comunione
Soltanto tre anni dopo la
pubblicazione della lettera pastorale e sulla base di esperienze sia positive
che negative, sia proprie che riportate da altri, condensò in questi dieci
punti quanto era risultato in grado di dar consistenza al cammino in
comunione:
1) Dall’inizio alla fine, unità di misura è la Buona Novella di Gesù.
2) Un cammino in comunione sarà completo solo nella e con la
Chiesa intera.
3) Il metodo del procedere nel cammino in comunione è
contrassegnato da uno stile diverso, quello del Vangelo.
4) La riconciliazione è più importante del successo.
5) La nostra opzione preferenziale è per i piccoli e gli emarginati.
6) La pluralità dei doni e servizi nella Chiesa, come nella
pastorale, non è uno stato di emergenza, ma un dono.
7) La diocesi vive in una articolata
molteplicità: otto regioni, non otto diocesi; cooperazione tra varie comunità
pur conservando ciascuna la propria identità.
8) Il cammino in comunione della diocesi è aperto alla
molteplicità di cellule vive e gruppi che sviluppano la propria vita e allo
stesso tempo s’intrecciano.
9) Per il processo del cammino in comunione nella diocesi è
essenziale l’apertura alla Chiesa universale e verso i quattro dialoghi:
dialogo nella Chiesa, dialogo ecumenico, dialogo con le altre religioni,
dialogo con persone di altre convinzioni.
10) La situazione di dispersione del cristianesimo
e della Chiesa, fenomeni che drammaticamente si vanno acutizzando, ci impone
come compito principale una testimonianza nuova e credibile del Vangelo.
Concludendo una delle molte
giornate trascorse con rappresentanti di un’intera regione pastorale, poté
riassumere le luci e i risultati del progetto pastorale con le seguenti parole:
«Sono gravi le questioni sulla credibilità e pure gravi quelle riguardanti
l’identità della Chiesa e del cristianesimo... Ma se io non amo la parrocchia del
mio vicino come la mia, ciò significa che non amo la mia come essa viene amata da Gesù Cristo. E se per me la salute e salvezza
dell’altro sono cose indifferenti, allora non sto seguendo la via di Gesù. Non
esiste nessun’altra credibilità per il Vangelo che
quella di essere noi una sola cosa, come il Padre e il Figlio sono uno. Questo
essere uno non significa solo che in linea di principio siamo d’accordo, ma che
ci accogliamo reciprocamente, ci sosteniamo gli uni gli altri, camminiamo
assieme: questa è la condizione per poter essere noi Chiesa di Gesù Cristo e,
come tale, essere anche Chiesa credibile».
Nutrire
la comunione
Alla varietà dei gruppi
corrispose una varietà di sviluppi, al loro interno e nella loro dinamica.
Spesso fu il vescovo stesso a esserne in modo originale il promotore. Accanto
alle riunioni col Consiglio presbiterale diocesano, che si tenevano tre volte
l’anno, o con rappresentanti del mondo teologico, egli fece pure innumerevoli
incontri, durante le visite alle parrocchie, con gruppi di catechisti e con
cresimandi ed ebbe colloqui con singoli operatori. Non si può calcolare quali
frutti abbiano portato e porteranno i suoi incontri
con i Gruppi Donne, con rappresentanti dei lavoratori, con i
disoccupati, con molti singoli giovani e adulti lontani dalla Chiesa, con
uomini e donne nelle carceri.
Era un seminatore, che non
misurava il suo donarsi in base al successo immediato. Un suo contributo è
stata la capacità di farsi sempre comprendere, non solo dal professore
universitario ma anche dall’operaia, così che persone di diversa provenienza e
formazione si aprirono alle sue prospettive. In genere
era personalmente presente alle discussioni nei grandi gruppi, mentre nelle
numerose visite a parrocchie e decanati si faceva aiutare da ambedue i vescovi
ausiliari.
Per proseguire nel progetto si
arrivò a un cambiamento anche radicale nei decanati: il convergere assieme da
un minimo di cinque a un massimo di dieci parrocchie circa. La vita delle
parrocchie confluisce e si collega nei decanati. Qui è il luogo privilegiato
per riportare il discorso sullo stato del camminare insieme, attraverso
gli incontri tra sacerdoti e quelli con altri collaboratori. Ma lo scambio e la
sollecitudine pastorale si ravvivano anche tra i rappresentanti dei vari
consigli parrocchiali inviati dalle singole comunità.
Il vescovo Hemmerle sostenne
in tutti i modi questo scambio e a tale scopo, finché la salute glielo permise,
si incontrava spesso coi rappresentanti dei decanati: due volte all’anno con tutti i decani della diocesi e altre due volte
per ognuna delle sette regioni pastorali con i rappresentanti delle parrocchie.
Era pure sua premura accertarsi direttamente del termometro della vita nei
decanati ascoltando, incoraggiando, gettando ponti.
I decanati, in seguito a questa
impostazione rinnovata, si sono manifestati anche come luoghi adatti alla
pianificazione pastorale, in grado di coordinare le varie forme di
collaborazione tra parrocchie in tutta la varietà dei metodi e impegni
pastorali. Negli incontri di molti gruppi hanno occupato una parte fondamentale
lo scambio sugli aspetti concreti della vita e la comunicazione della propria
esperienza sulla base della Scrittura.
Per
una Chiesa viva
Tutto ciò corrisponde a quanto
disse il vescovo Lehmann, presidente della conferenza
episcopale tedesca, in occasione del funerale: «L’uomo dell’instancabile
dialogo volle dare consistenza alla comunione attraverso un nuovo
ravvicinamento tra le persone, tra le parrocchie, tra le associazioni, le quali
pur nelle loro differenze, si trovano a camminare insieme. In questo cammino
in comunione ognuno ha trovato il suo posto e la propria dignità; nessuno è
stato schiacciato, nessuno sacrificato. E proprio così ne è derivata una nuova
vocazione all’autentica comunione».
Nella sua lettera pastorale
per la Quare-sima del 1994, che preparò poco prima della sua scomparsa, lanciò
l’invito a fare un serio bilancio di ciò che era avvenuto negli ultimi anni.
«Non mi interessa solo il cambiamento di strutture, ma in esse
e prima di esse il rinnovamento spirituale...». E sollecitava tutti a una
sincera revisione sulle prospettive che si sono di fatto
aperte e su quelle che si dovrebbero ancora perseguire.
La sua morte non gli ha
permesso di fare un tale bilancio quaggiù, ma il progetto ormai in atto resta
quale espressione della sua passione per Dio, per la Chiesa e per l’umanità. In
ogni prospettiva pastorale ciò che gl’importava era una Chiesa viva, una Chiesa
che, come i discepoli di Emmaus, è in cammino e nella quale ci si parla di Dio;
una Chiesa che sperimenta in sé e testimonia il Risorto.
Andreas Frick