Il sacerdote: saper essere
nulla per creare l’unità
La vita che mi ha affascinato
di Klaus Hemmerle
Abbiamo trovato nel nostro
archivio questa trascrizione inedita di una conversazione di Klaus Hemmerle,
tenuta durante una Mariapoli ad Andenbosch, in
Olanda, nel luglio del 1969. Hemmerle in quell’occasione aprì la sua anima per
dire, con freschezza e profondità, cosa significava per lui essere sacerdote,
alla luce del carisma dell’unità.
Pubblichiamo questo contributo perché, nonostante la lontananza nel
tempo, ci sembra di notevole attualità. Abbiamo rispettato lo stile diretto del
linguaggio parlato.
Chi
è il sacerdote?
La notte che ha preceduto la
mia ordinazione sacerdotale mi sono sentito molto perplesso. Di colpo tutto era
sparito dentro di me: non sapevo più cosa volevo e cosa dovevo fare. In quella
stessa notte sono corso dal mio amico che veniva ordinato
con me ed egli mi ha messo in mano un libretto, in cui ho letto press’ a poco le seguenti frasi: «La cosa più importante
sul sacerdote sta scritta nel capitolo 11 della prima
lettera ai Corinzi, dove per la prima volta nel Nuovo Testamento si parla della
celebrazione eucaristica in una comunità. E in tutto il capitolo non si dice
nulla del sacerdote. Ed è appunto questa la cosa più importante che si può dire
del prete: egli deve essere un nulla che in Gesù fa una tutta la comunità».
Da allora questa idea mi ha
sempre accompagnato e ha determinato la mia immagine del sacerdozio. Ma se si
vuol essere nulla da soli, difficilmente ci si riesce. Per questo dopo
l’ordinazione abbiamo deciso di rimanere in contatto tra di
noi. In seminario avevamo un bravissimo padre spirituale, Rudolf
Hermann, e ogni anno andavamo da lui per una
revisione della nostra vita. Cercavamo anche un modo per rimanere uniti durante
l’anno, perché essendo sacerdoti giovani sentivamo fortemente il peso della
solitudine. Poi ci siamo messi d’accordo di scriverci delle lettere e, nella
misura del possibile, di trascorrere ogni giorno un’ora di adorazione davanti
al tabernacolo.
La ricerca
Tutto ciò era bellissimo, ma,
nonostante i nostri sforzi, siamo rimasti in un certo senso
soli nella vita. Per ovviare a questa solitudine, ci è venuto in mente
di organizzare, di fondare qualcosa, però il nostro padre spirituale ci ha
detto: «Ciò non serve a niente: bisogna cercare una spiritualità!». E lui
stesso ha iniziato questa ricerca in vari paesi. Ricordo ancora molto bene
quando egli, 12 anni fa, ritornando da un viaggio di vacanze, entrò
improvvisamente nella mia stanza e mi disse: «Klaus, l’ho trovata!». Mi sono
messo ad ascoltarlo con grande curiosità ed egli mi ha raccontato una storia, per
me, in quel momento, stranissima. Egli, durante le sue vacanze nell’Italia del
Nord, era giunto a Fiera di Primiero ad una riunione di persone che in fondo
gli sembravano del tutto normali, ma piene di una
gioia, di una vita e di una fede mai incontrate in precedenza. All’inizio era
rimasto colpito perché, per esempio, delle donne parlavano di Vangelo e
sacerdoti e laici non stavano separati ma vivevano
insieme. Poi gli era venuta la paura di essere capitato in mezzo ad una setta.
Solo che quello che dicevano era tutto cattolico, anzi era il cristianesimo!
Prima
cristiano, poi sacerdote
Dal suo racconto ho capito che
lì ci doveva essere quella vita che stavamo cercando. L’anno seguente, nel
1958, abbiamo partecipato in tanti alla Mariapoli in quella stessa località.
Per me in quei giorni si è operata una scelta interiore. Mi sono detto: «Che
strano! Ho scritto e predicato moltissimo sull’amore come forza fondamentale
del cristianesimo, ma da quando ho trovato delle persone che vivono l’amore –
come qui in Mariapoli – tutto è diverso, tutto è nuovo!» Non è che pensassi che
gli altri non vivessero l’amore, ma ho sentito semplicemente che lì c’era il
cristianesimo originario, il vangelo di sempre vissuto nel nostro secolo. Un
vangelo che non era un pezzo da museo di tempi passati, ma
espressione spontanea del nostro tempo e della nostra mentalità. Poi ho visto
che erano presenti in Mariapoli persone che vivevano una pietà di stampo un po’
antiquato ed altre che avevano idee modernissime. E questi due gruppi, che in
genere non riescono a dialogare, erano uniti. Soprattutto ho notato che non
esisteva più quel muro di vetro che allora separava i sacerdoti dai laici.
In seguito a questa esperienza
ci siamo trovati per vivere insieme questo spirito. Ed è stato bellissimo. Solo
che abbiamo fatto un grosso sbaglio. Ci eravamo messi in testa il nostro
sacerdozio e pensavamo di vivificarlo con un’iniezione del nuovo spirito
trovato nel Movimento. Il sacerdozio era diventato per noi un pallone sgonfiato
e pensavamo che i focolarini potessero gonfiarlo di nuovo. Ma rimanendo schiavi
del nostro clericalismo nascosto, il pallone si sgonfiava sempre di nuovo.
Dovevamo “perdere” il nostro sacerdozio, non per essere meno sacerdoti, ma per
capire quello che già allora ci dicevano: «Prima siamo battezzati e cresimati,
fratelli di tutti, e poi siamo sacerdoti». Ciò significava per me – e anche per
gli altri che avevano iniziato con me questo cammino – che prima sono chiamato
a seguire Cristo, a vivere la sua vita, testimoniando l’amore a cui tutti siamo chiamati, e da questo, poi, il mondo
conoscerà Gesù. Solo se avrò seguito Cristo, sarò pronto ad esercitare il mio
servizio sacerdotale.
Capirlo ha provocato una
strana conversione nella mia vita. Significava che non dovevo porre al primo
posto la mia «dignità» sacerdotale, i doveri ed incarichi e poi, accanto a
tutto questo, vivere un po’ quello che predicavo agli altri; ma prima di tutto
sentirmi semplicemente membro del popolo di Dio e poi come fratello tra
fratelli esercitare per loro il servizio sacerdotale. É sparita allora la
cosiddetta solitudine del prete e non mi interessavano più le teorie sul
celibato sacerdotale. Esisteva questa grande esperienza dell’unità e dell’amore
che mi dava la forza di vivere il Vangelo. Non è che, vivendo così, si facciano
meno sbagli di prima, ma ci sono sempre i fratelli accanto che in qualche modo
cercano di rimediare.
Dare
spazio all’Unico Sacerdote
Ho capito, poi, una cosa
importantissima. Oggi il sacerdote è per molti una figura strana. I nostri
fratelli evangelici ci dicono appunto, e hanno ragione, che il termine tipico
di «sacerdote», inteso come figura sacrale, non viene
mai usato nel Nuovo Testamento per indicare il ministero nella comunità, ma lo
si applica esclusivamente al Cristo. Ora se io sono, per così dire, una
creatura dalle ‘superdimensioni’ che sta tra cielo e terra e che pensa di
versare il fiume della grazia sulla testa degli altri, faccio in un certo modo
concorrenza a Cristo. Se invece viviamo insieme come fratelli e pensiamo che
Gesù Cristo è l’unico sacerdote; e se, poi, viviamo in maniera tale che Gesù
possa essere in mezzo a noi come unico sacerdote, allora il sacerdozio di
Cristo viene reso credibile dal nostro.
Focolari
sacerdotali
Naturalmente non si può vivere
questa realtà solo in modo teorico, ci vogliono le concretizzazioni. Ci siamo,
quindi, trovati in piccoli focolari sacerdotali. Coloro che lo compongono non
intendono uscire dalla diocesi, ma vi restano pienamente inseriti come tutti
gli altri preti diocesani. Perché non ci interessa soltanto l’unità tra noi, ma
anzitutto l’unità con il vescovo, gli altri sacerdoti e i laici e l’unità tra i
differenti gruppi. Non vogliamo in nessun modo mettere al centro il focolare.
Dobbiamo saper «perdere» anche il focolare per servire tutti, affinché viva in
mezzo a tutti Gesù Cristo.
La strada per raggiungere
questa meta è vivere una duplice unità: quella che cerchiamo di costruire con
tutti coloro che ci sono messi accanto e, per avere la forza di farlo,
mantenerci uniti tra noi e con la fonte del carisma che ha illuminato ormai la
nostra vocazione. Dobbiamo abolire i termini «mio» e «tuo», per riuscire a
vivere la stessa realtà; mettere da parte le nostre opinioni personali, non per
non pensare più, ma per donarcele l’un l’altro;
relativizzare i nostri programmi personali, perché i programmi del fratello
siano anche miei. Se io oggi parlo a voi qui in Olanda, di questo atto di per
sé insignificante ne sono a conoscenza dozzine di persone e lo portiamo tutti insieme. Questa è la realtà che conta per noi
cristiani: agire uniti, avendo sempre la presenza di Cristo in mezzo a noi.
Essere
un vuoto d’amore
Vorrei ora brevemente
raccontare qualcosa della mia esperienza, anche nel suo aspetto esteriore.
Dovevo prepararmi, per volontà del mio vescovo, alla carriera universitaria.
Nel 1967 sono diventato docente di filosofia della religione all’Università di Freiburg nel Breisgau. Si apriva
davanti a me un’interessante carriera. Ma poi sono stato chiamato al Comitato
centrale dei cattolici tedeschi per coordinare tutte le attività a livello
nazionale, per garantire lo scambio e il contatto tra i diversi gruppi e per
essere un partner della conferenza episcopale. In questo comitato prepariamo i
«Katholikentage» (l’incontro annuale dei cattolici
tedeschi) e le grandi iniziative ecumeniche sul piano nazionale. Collaboriamo,
inoltre, con le commissioni della conferenza episcopale. In questo momento ci è
affidata la preparazione del Sinodo delle diocesi tedesche. Quando mi è stato chiesto di fare questo lavoro ho pensato che era
pazzesco, perché organizzare tutto questo significa essere coinvolto nel
conflitto tra le varie opinioni, tra la contestazione dei giovani e l’autorità
dei vescovi.
Era molto più facile vendere
le mie idee all’università! Ma non ci ho pensato più di tanto, perché mi sono
reso conto che proprio in mezzo a queste tensioni potevo vivere a fondo il sacerdozio, come l’avevo potuto intendere via via. Prima non avevo un rapporto molto profondo con Maria,
ma nel focolare ho capito che lei è aperta a tutti, è
quel silenzio, quel nulla che permette a Gesù di venire. Questa realtà la
sentivo in piena sintonia con l’esperienza che avevo fatto la notte prima della
mia ordinazione. E allora ho pensato: «Sì, io devo essere questo nulla in cui
tutti i molteplici gruppi dei cattolici tedeschi, i vescovi, i sacerdoti e i
laici possono incontrarsi, trovarsi». Ho telefonato ad alcune persone del
focolare e anch’esse erano del parere che dovevo accettare. Sin dal primo
momento ho pensato che sarei stato capace di svolgere questo incarico solo
vivendo in unità con gli altri. Prima del mio trasloco da Freiburg
al nuovo posto, i sacerdoti del focolare di Colonia mi hanno scritto una
bellissima lettera dicendomi: «Ti trasferirai vicino a noi per un incarico
molto difficile. Nulla pretendiamo da te, ma vogliamo solo essere uno sfondo,
come Maria, perché tu possa svolgere bene il tuo servizio».
Devo dire che l’incontro più
importante, che non tralascio mai, è quello settimanale con loro. I più
distanti abitano
Strumento
d’unità
Uno dei compiti più difficili
per me è cercare di unire. Ho constatato che i conservatori hanno paura che con
il rigetto del modo tradizionale di presentare la fede si butti via anche il
contenuto. Essi dicono: «Il contenuto essenziale del cristianesimo è l’amore di
Dio che è venuto in Gesù. Meglio rischiare di presentare questa realtà nella
maniera tradizionale che buttarne via il contenuto». I progressisti a loro
volta ribattono: «L’amore vuol sempre farsi capire, perciò non attacchiamoci
alla “confezione” tradizionale, ma abbiamo il coraggio di rinnovarla,
altrimenti l’amore di Dio non arriva agli uomini di oggi».
Il mio compito è fare da
mediatore in modo che le due tendenze si capiscano, salvando i valori di
ognuna. Questo lo posso fare se io per primo vivo un’esperienza d’unità, pronto
ad accettare anche l’abbandono più assoluto come Gesù in croce.
In un «Katholikentag»
ho vissuto un’esperienza difficile. É stata presa d’assalto una sala di 8000
persone con grida di contestazione . In mezzo a loro
erano sparsi quelli del mio focolare. Io dovevo tenere una relazione che
concludeva presentando la realtà di Gesù che vive in mezzo alla comunità
riunita nel suo nome. Quando sono arrivato a questa parte del mio discorso,
tutta la sala si è calmata. Forse perché avevamo preso su di noi il dolore
della contestazione, ci era stata donata, in qualche maniera, l’atmosfera
dell’amore.
Il grande pericolo di oggi
sembra essere il fatto che l’essere umano non trova più Dio nella dimensione
verticale. Se parlo delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio o se presento
un’analisi filosofica, esse non interessano più a nessuno. Sembra che le
persone di oggi siano capaci di percepire Dio, il divino, solo nella dimensione
orizzontale. Ma impegnandosi così, per il prossimo e per il progresso, corrono
il rischio di dimenticare Dio. Non possiamo dire semplicemente: siamo umanisti!
Ora il Movimento dei focolari mi ha fatto vedere una soluzione meravigliosa,
mostrandomi che Dio stesso è anche nell’orizzontale, perché non resta lassù
nella solitudine, ma è Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Padre si dona tutto al
Figlio e il Figlio si dona tutto al Padre. Sono completamente l’uno nell’altro.
Uno si svuota, per cosi dire, nell’altro: le divine persone hanno tra loro un
rapporto orizzontale.
Se noi viviamo l’orizzontale
divino, se la nostra vita non si ferma solo ad una riforma di strutture
esteriori, pur importante, se ci facciamo uno con l’altro, se viviamo l’uno
nell’altro, come il Padre e il Figlio, se tendiamo sempre a questa unità
reciproca che è proprio il contrario di una marcia uniforme nel senso puramente
esteriore, se semplicemente ci immedesimiamo con l’altro anche nel dolore, come
Gesù sulla croce si è rimesso al Padre, se viviamo così permanentemente in
tutte le discussioni, in tutti i travagli, in tutti gli sviluppi, allora avremo
portato sulla terra la vita stessa di Dio, dove le due dimensioni, orizzontale e
verticale, sono sempre unite.
Klaus Hemmerle