Flash di vita
Questa rubrica, aperta
alla collaborazione dei nostri lettori, riporta alcune brevi esperienze che
mettono in luce la bellezza di una vita ispirata al vangelo nella
normalità del quotidiano.
Il coraggio di
testimoniare
Conosciamo
tutti i terribili avvenimenti del Burundi e, ultimamente, anche del Rwanda.
Il
Burundi ha appena cinque milioni di abitanti, appartenenti a due etnie in lotta
tra loro da tempi immemorabili. La prima e più numerosa è quella
degli Hutu (84%), che però è stata
sempre dominata e marginalizzata dall'altra,
minoritaria, quella dei Tutsi. Questi in determinati
periodi mettono in opera un massacro dell'altra etnia per paura di essere un giorno sopraffatti. Così era avvenuto nel '59, nel
'65, nel '72, nell'88, nel '91. Nel giugno del '93 ci furono per la prima volta elezioni libere e fu scelto come presidente
un Hutu, Ndadaye, che
iniziò una politica di pacificazione. Purtroppo nell'ottobre dello
stesso anno egli veniva ucciso e per i burundesi iniziava di nuovo il calvario culminato
nell'assassinio del nuovo presidente insieme al presidente del Rwanda. Si calcola che finora nel solo Burundi ci siano
state alcune centinaia di migliaia di morti e un milione di profughi e
rifugiati.
Abbiamo
avuto l'opportunità di avere nella nostra redazione un sacerdote burundese, Léon Sirabahenda della diocesi di Bururi,
che ci ha messo a contatto diretto con la dolorosa realtà del suo
popolo.
«Il
Burundi — ci ha spiegato — è uno dei paesi dove la
percentuale dei cristiani è molto alta (65%). La domenica le chiese sono
strapiene sia di Hutu che di Tutsi,
perché entrambe le etnie si sono convertite al cristianesimo. Quando
però si è riacceso l'antica
rivalità tra le due tribù, sembra che l'istinto abbia preso il
sopravvento sulla ragione e sulla fede: è stato un vero accecamento.
Come
operatori pastorali — vescovi, sacerdoti, catechisti — ci siamo
chiesti sgomenti se il vangelo fosse penetrato o meno
nella coscienza dei nostri cristiani. Non possiamo però negare che ci
sono state anche testimonianze di autentico eroismo.
Tanti
cristiani, pur sotto le minacce, hanno tenuto nascosti nelle loro case quelli
dell'altra etnia o li hanno aiutati a fuggire. A volte persone delle due etnie
si sono unite per difendere la loro comunità: “Noi siamo cristiani
— hanno detto — e non possiamo odiare”.
Il
padre del primo presidente ucciso, da vero cristiano, ha fatto questo discorso
agli abitanti della sua collina: “Sapete che ho perso mio figlio, ma se
voi volete consolarmi, non dovete pensare ad una vendetta. Noi dobbiamo
perdonarci e amarci...”. Ed ha evitato un massacro. Un gruppo di giovani
della mia parrocchia hanno visitato tutte le famiglie della nostra collina,
smorzando le tensioni e invitando alla concordia».
Quando
c'è stato il golpe militare, i vescovi hanno fatto di tutto per evitare
i massacri e, anche se non sono riusciti pienamente nel loro intento, hanno
salvato tante vite umane. Ancora oggi
A
Léon, che è un tutsi,
abbiamo chiesto come sta vivendo questo periodo così doloroso per il suo
Paese. Ci ha risposto: «Quando nell'ottobre del '93 si è riaccesa
la lotta tra le due etnie, mi trovavo fuori parrocchia in un incontro con altri
otto sacerdoti di ambedue le etnie. Noi abbiamo sentito un profondo dolore nel
cuore e, dopo un primo momento di incredulità e di smarrimento, ci siamo
guardati in faccia e abbiamo fatto un patto, dicendoci l'un
l'altro: “Io sono pronto a dare la mia vita per te e per la tua
etnia...”. Dopo questo patto siamo ritornati nelle nostre parrocchie per
metterlo in pratica, pur coscienti dei rischi che
corriamo, perché ora abbiamo possibili nemici anche nella nostra stessa
etnia. Dopo pochi giorni ho ricevuto una lettera da un mio confratello che si
trova in Italia, Jean Bosco, che si univa al nostro
patto, dicendomi: “Anche se sono Hutu e tu sei Tutsi, sono pronto a dare la mia vita per te e spero che
questo nostro stile di vita possa aiutare la riconciliazione del nostro popolo”.
Questo mi ha dato una grande gioia e tanta forza per affrontare tutti i
pericoli e per parlare chiaramente ai nostri cristiani delle due etnie.
Io
non credo che ci sia una via migliore per rifare dalle fondamenta l'uomo burundese. Nel mio piccolo Paese, come in tutti gli altri
Paesi africani, non basta un'inculturazione del
vangelo che tocchi solo la superficie della vita africana. È necessario
testimoniare, soprattutto in questi momenti, il valore del messaggio centrale
del vangelo: l'amore al prossimo fino a dare la vita. Sarà un cammino
lungo di inculturazione, ci saranno dei martiri, ma
solo così il vangelo penetrerà l'anima africana ed
ispirerà poi tutte le istituzioni anche quelle civili».
B. B.
Insieme è
più facile
Sono
al primo anno di sacerdozio e lavoro come cooperatore in una parrocchia della
periferia di Trento. Anche se tanti, qui come altrove, vivono nell'anonimato,
chiusi nel loro piccolo mondo, non mancano persone generose che si donano nel
volontariato o in attività promosse dalla parrocchia.
In
questo ambiente sto muovendo i miei primi passi nel ministero. Ho cominciato
con molto entusiasmo, ma ben presto ho dovuto fare i conti con i miei limiti,
soprattutto con la mancanza di esperienza. Corro continuamente il rischio di
immergermi nell'attivismo perdendo di vista l'unione con Dio e la comunione con
gli altri.
Mi
aiuta grandemente l'incontro settimanale con altri sacerdoti che, seguendo la
spiritualità dell'unità, si ritrovano regolarmente insieme non
tanto per progetti pastorali, ma per aiutarsi a incarnare il vangelo nella
propria vita, nei rapporti con gli altri preti e con i laici.
Ogni
incontro richiede da me dei sacrifici, per organizzare bene le cose, per non
creare difficoltà al parroco con la mia assenza ed anche per vincere la
tentazione di restarmene a casa e badare ai miei interessi personali. Devo
però riconoscere che dopo ogni incontro sperimento una pace profonda,
provo una carica nuova che mi spinge a riconoscere in ogni persona la presenza
del Cristo e a mettermi con gioia al suo servizio.
Questi
incontri settimanali mi spingono poi ad andare con più entusiasmo agli
incontri mensili che il vicario episcopale organizza per i sacerdoti ordinati
negli ultimi tre anni. Quest'anno non ne ho perso uno. Sono occasioni preziose
per far crescere fra tutti la fraternità,
perché dà ad ognuno la possibilità di mettere in comune
gioie e dolori e superare insieme le difficoltà che incontriamo.
In
parrocchia abbiamo il problema dei giovani che dopo le scuole superiori
abbandonano, nella stragrande maggioranza, i gruppi parrocchiali e spesso anche
la partecipazione alla Messa domenicale. Una sera passeggiavo per la
città e guardavo sgomento gli enormi condomini simili ad alveari pieni
di gente. Ogni tanto vedevo piccoli gruppi di giovani e mi domandavo cosa avrei
potuto fare per loro. Certamente Dio li ama personalmente e mi farà
trovare la strada migliore. Intanto cerco di fare tutto in comunione piena col
parroco per non diventare un «libero battitore».
Un
giorno gli ho chiesto se non credeva opportuno che
incontrassi più frequentemente le catechiste. Mi ha detto che è
importante non tanto aumentare le riunioni, ma far crescere tra loro lo spirito
di famiglia. Mi son detto: «È proprio vero! Qui non è
questione di discorsi, ma di vita». Così, appena ho saputo che la
mamma di una catechista era in ospedale per dei seri problemi alla schiena, sono
andato a trovarla, ho chiesto aiuto ad un medico fisioterapista mio amico e
questi è riuscito a migliorare notevolmente la salute della signora.
Nel
territorio della parrocchia vive in un appartamento con la
sua sorella un sacerdote anziano. Pur in mezzo a tante occupazioni ho
cercato il tempo per andarlo a trovare e per stare con lui. E ogni volta sono
tornato a casa edificato. Non ero io a dargli
qualcosa, ma lui che mi donava la sua testimonianza di fede viva e di abbandono
sereno in Dio.
Scopro
ogni giorno che è possibile vivere il sacerdozio ministeriale sentendosi
un corpo con i fratelli del presbiterio, al di là dell'età e
degli incarichi. In questa fraternità anche gli sbagli e i fallimenti si
superano più facilmente, perché è sempre vero che
«le croci portate da molte spalle diventano più leggere, e le
gioie condivise da molti cuori si moltiplicano».
G. M.
L'unità in
famiglia
Cyril Jancisin, un giovane
della Slovacchia, ci racconta la sua esperienza in famiglia. Una famiglia un
po' speciale la sua, perché il papà è sacerdote focolarino
di rito greco cattolico e la mamma è una focolarina
sposata.
I
miei genitori vivevano la spiritualità dell'unità ancor prima che
io nascessi. Per questo fin da piccolo sono cresciuto
in un clima di armonia. Nonostante le difficoltà e gli sbagli di
ciascuno, l'amore tra di noi è stato sempre la
cosa più importante.
Un'altra
caratteristica costante della mia famiglia è stata l'accoglienza verso
gli altri. Da quando mi ricordo, la porta della nostra casa è stata
sempre aperta e la gente lo sapeva. La nostra casa — la casa parrocchiale
— era il centro della comunità, anche sotto il regime comunista.
Di ospiti ne avevamo tanti, specialmente i giovani che venivano ogni giorno.
Sebbene non avessi fratelli, perché i miei due fratellini sono partiti
piccoli in cielo, mi trovavo sempre con tanti amici, giocando con loro da piccolo e, più tardi, parlando insieme dei nostri
problemi.
Vedevo
i miei genitori sempre in donazione, ognuno nel suo campo. Papà si
occupava soprattutto della parrocchia e del lavoro che ne scaturiva; mia mamma si prendeva cura dei giovani — nonostante il
divieto generale che esisteva sotto il comunismo.
A
riguardo degli incontri con la gioventù mi ricordo che spesso la sera,
dopo che i più giovani se ne tornavano a casa, i più grandi
rimanevano e aprivano il cuore, tirando fuori i loro problemi. Parlavano spesso
con mia mamma fino a mezzanotte o anche oltre.
Io,
fin quando resistevo, le facevo compagnia, poi me ne andavo a letto. Nella
nostra casa c'era sempre qualcuno, a tal punto che ad un certo momento ci siamo
accorti che non avevamo, come famiglia, un tempo per stare un po' insieme noi
tre. Abbiamo cercato allora di capire quale fosse per
noi la volontà di Dio. Continuavamo a donarci, ma trovavamo un po' di
tempo anche per la famiglia, anche se, a dire il vero, non lo trovavamo tanto
spesso.
In
questa piccola parrocchia di cui parlavo, siamo stati 16 anni, durante i quali
sono nate tante vocazioni: 5 al sacerdozio e 2 alla vita religiosa.
Siamo
stati, poi, trasferiti dal vescovo in un altro posto e dopo un anno, in un
altro ancora. Era una ginnastica spirituale per vivere la volontà di Dio
mostrataci dal vescovo.
Per
me, per esempio, significava tagliare con la scuola: in quel tempo ho fatto il
liceo classico di quattro anni in tre città diverse; era un taglio con
gli amici, con la parrocchia, con l'ambiente, ecc. Ma
è stato sempre bello, perché solo Dio ci importava.
Oggi,
mentre sto cercando di conoscere la mia vocazione, ringrazio Dio per la
famiglia che mi ha dato, perché in essa mi sono
sentito sempre a mio agio.
Capisco
che questa serenità non dipende dal fatto che mio padre è
sacerdote, ma dall'unità vissuta dai miei genitori. Ho sperimentato per
questo come siano vere le parole di Gesù:
«Dove due o più sono riuniti nel mio nome, lì sono io in
mezzo a loro». È questa presenza di Gesù che ancora oggi ci
fa sentire famiglia, ci apre agli altri e ci dona una grande pace. Ed egli non
solo ci fa contenti, ma attira tanti altri alla fede così vissuta.
C. J.