«Solo una Chiesa-comunione può essere soggetto credibile dell'evangelizzazione» (ETC 27)

 

Pastorale giovanile
in chiave comunitaria

 

di Emilio Rocchi

 

Presentiamo un'esperienza d'incarnazione del vangelo della carità nel mondo giovanile, condotta nella diocesi di Fermo e parallelamente in altre diocesi. Essa si protrae da 16 anni ed ha dato vita al  Movimento diocesano, diramazione del  Movimento dei focolari, che in quella sola diocesi conta ormai 260 animatori e circa 4000 aderenti (di cui 2500 giovani) distribuiti in 25 parrocchie. Ce ne parla uno dei sacerdoti che insieme ai laici animano il Movimento. Per ragioni di spazio possiamo pubblicare soltanto la parte centrale della sua narrazione 1.

 

«La Chiesa sa di  dover  vivere, annunciare e testimoniare nella carità, perché il suo contenuto centrale è tutto e solo carità» (ETC n. 14). E la carità è un amore che ha la sua fonte ed il suo modello nella Trinità (cf n. 15).

Questo vuol dire che l'amore che la Chiesa deve riflettere e incarnare in ogni sua cellula ha una sua specifica «forma» trinitaria, dal momento che nasce da un mistero di comunione trascendente ed è ordinato al «fare comunione» tra gli uomini e con Dio. Pertanto, l'amore evangelico ha il luogo della sua piena manifestazione non solo e non tanto nell'«io» del singolo, ma nel «noi» della comunione. Di esso fa parte non solo la capacità di gratuità, cioè di donare e di donarsi; ma anche la capacità di suscitare ed accogliere il dono dell'altro; perché si possa realizzare quell'evento reale di unità nella molteplicità che costituisce la vita della comunità cristiana.

La nostra esperienza è un tentativo di strutturare nella diocesi una pastorale basata proprio su questa dinamica di reciprocità e di comunione, tipica del Movimento dei focolari.

Dal momento che in un immediato futuro sarà pubblicata una descrizione più estesa e completa, in questa occasione ci limitiamo ad un solo aspetto: come alimentare e custodire con i giovani una cultura della carità.

 

Carità che si fa cultura

Un'esperienza di evangelizzazione attraverso la carità può mantenersi e risultare incisiva nel tempo se la carità stessa si fa «cultura»: arriva cioè ad improntare, non in modo occasionale ma stabile, le categorie di vita delle persone e dei gruppi.

Nella nostra storia questo si è verificato, appunto, nella misura in cui si è puntato su forme di vita «a corpo» che raccogliessero in un rapporto di comunione persone diverse per età, sesso, vocazione, stato sociale. Ed è logico: la carità evangelica, proprio perché è vita trinitaria, può e deve inculturarsi anzitutto in una collettività, nella vita di un «corpo sociale»; cioè di una comunità, anche ristretta, che però al suo interno si presenti articolata ed unita per la dinamica dell'amore reciproco.

Vorrei evidenziare, in tal senso, quelle che ci sembrano alcune condizioni per lo stabilirsi, almeno nel piccolo, di una «cultura» della carità evangelica.

 

Continuità di presenza sul territorio

La carità che diventa efficace al fine dello stabilirsi di una «cultura» evangelica è quella che si esprime attraverso una testimonianza costante, prolungata nel tempo sia sul piano dei rapporti interpersonali, sia sul piano dell'animazione di ambienti nei quali si voglia essere punti di riferimento significativi. C'è infatti il rischio che, soprattutto a livello giovanile, si propongano iniziative caratterizzate in partenza da notevole entusiasmo, ma che ben presto si spengono o illanguidiscono per l'incapacità di mantenere una sufficiente spinta motivazionale, o per la difficoltà a perseverare nel servizio ad ambienti che non rispondono immediatamente agli stimoli e nei quali frutti significativi possono registrarsi solo sui tempi medio-lunghi.

Il far leva non tanto sulle capacità e sull'azione dei singoli, ma sulle comunità come primi e più autentici soggetti dell'evangelizzazione porta in questo dei vantaggi evidenti. Infatti,  la  testimonianza  data  dal  gruppo  è senz'altro più stabile rispetto a quella offerta dal singolo, anche se a volte il seguire la «regola» della comunione può apparire limitante e meno immediatamente efficace rispetto ad un metodo che punti sulla duttilità d'iniziativa del singolo animatore. Ma l'incisività di un animatore — sacerdote o laico che sia — è sempre relativa al tempo e al modo della sua presenza, mentre la tradizione di vita di una comunità, se autentica, permane nel passare delle persone.

Inoltre, oggi la testimonianza della carità evangelica comporta un inevitabile andare contro-corrente rispetto al modo di vivere e di pensare mondano. E non è plausibile che si possa reggere alle sollecitazioni di una cultura dominante diametralmente opposta al vangelo se non si pone tutta l'attenzione a svolgere un'incessante discernimento della qualità delle scelte e dei comportamenti personali e collettivi. Occorre, per l'animatore, un continuo riandare ai principi e una costante verifica esistenziale per evitare fratture fra i principi e il vissuto. Questo lavorio di rimotivazione e di verifica viene svolto prevalentemente dalle comunità, che assumono così la funzione importantissima di operare da organi di filtraggio, di purificazione che — in un corpo ecclesiale — mantengono alto il livello di circolazione della linfa vitale della carità.

 

Multiformità dell'esperienza della carità

Nelle comunità ecclesiali, non di rado lo sforzo di rievangelizzazione appare segnato da una certa tendenza alla «specializzazione», che s'accompagna ad un'esperienza settoriale della carità. L'evangelizzazione può essere intesa come prevalente o quasi esclusivo sforzo formativo o catechistico; o come ricupero del valore della liturgia; può essere equiparata ad impegno di volontariato, come servizio sociale ai più emarginati, e così via. In casi del genere, l'impegno della vita cristiana rischia di esercitarsi in un solo ambito della realtà esistenziale della persona, senza interagire con le altre dimensioni altrettanto importanti: quella affettiva, lavorativa, intellettuale, ricreativa ecc. In altre parole, la carità non si fa «cultura»: non informa le categorie decisionali, valutative e comportamentali delle persone e dei gruppi.

Puntare su un'esperienza di comunità che stia al cuore dell'impegno per la nuova evangelizzazione significa, invece, partire dalla rievangelizzazione degli aspetti più concreti e quotidiani che si intrecciano nella vita relazionale delle persone all'interno di un gruppo. Significa, altresì, acquistare progressivamente consapevolezza che un vero servizio al prossimo non può mai essere ridotto ad una sola dimensione, ma deve fare attenzione alle molteplici facce dei bisogni dei fratelli, che non sono mai esclusivamente di tipo economico, o psicologico, o spirituale ecc.

Anche per questo cerchiamo di far sì che l'impegno di evangelizzazione parta da una presenza concreta sul territorio. Le nostre comunità locali non sono solo osservatori ravvicinati per una rilevazione capillare delle varie situazioni di problematicità; rappresentano anche strumenti capaci di articolare il loro impegno in una molteplicità di forme, negli ambiti del servizio liturgico, della formazione catechistica, del volontariato sociale, dell'attività vocazionale e missionaria, dell'animazione dello sport e del tempo libero...

In questo senso, la spiritualità dell'unità, portando a vivere l'amore evangelico in tutti gli aspetti concreti della persona e della società, offre un contributo di prim'ordine nel prospettare vie per la nuova evangelizzazione della carità. Amare — e amarsi in comunione — non è solo fare animazione o apostolato, ma è saper usare del proprio lavoro e dei propri beni nella solidarietà e nella condivisione, è saper pregare, è aver cura della salute fisica e spirituale, è coltivare il senso della bellezza e l'armonia dell'ambiente, è impegnarsi nello studio, nella comunicazione e nell'aggiornamento... I nostri gruppi, tenendo presenti queste dimensioni — anche grazie alla complementarietà delle attitudini e dei talenti — acquistano una comprensione e un'esperienza multilaterale della carità che ne conserva la ricchezza e l'equilibrio e accresce l'efficacia della testimonianza evangelica.

 

Importanza della comunione tra generazioni

È stato importante per noi capire che non potevamo costituire una realtà esclusivamente giovanile poiché — come dice ETC — «il rapporto dei giovani con gli adulti rimane essenziale» (n. 45). Stiamo sperimentando che una realtà aggregativa possa dirsi tanto più «comunità» quanto più si presenta come un corpo unito e al tempo stesso articolato in una diversità di componenti. La nostra comunità diocesana e le nostre comunità locali sono costituite da persone delle varie fasce d'età (adulti, giovani, ragazzi, bambini), dei vari stati vocazionali (consacrati, laici, coniugati) e dei vari strati sociali. E questa unità nella diversità si esprime nel fatto che, pur percorrendo cammini distinti e specifici, è tuttavia normale dar vita ad iniziative che si realizzano con la ricchezza di contributi delle varie fasce generazionali.

Questo fatto ha grande rilevanza educativa. Infatti, la cultura attuale tende a frammentare, ad isolare, a creare barriere relazionali non solo «in orizzontale» — atomizzando il tessuto sociale  — , ma anche «in verticale» — provocando spaccature profonde tra le generazioni. L'incomunicabilità si riflette poi nella difficoltà sempre più pronunciata nel vivere i passaggi generazionali: il bambino, l'adolescente, il giovane tendono a chiudersi dentro il loro mondo emozionale e affettivo e a rifiutare inconsciamente il passaggio alle forme comportamentali tipiche dell'età successiva. E questo vuol dire anche, per le giovani generazioni, difficoltà a guardare in avanti, a progettare e a costruire il futuro.

Nella nostra esperienza vediamo invece l'importanza formativa di un rapporto bello, sano, gioioso tra le generazioni. È importante che dei bambini vivano a contatto con giovani e adulti, perché trovino in loro quei modelli positivi di cui hanno bisogno e che spesso non trovano neppure in famiglia. Come pure è fondamentale che dei ragazzi alle prese con i primi problemi affettivi siano insieme a giovani più maturi ed a consacrati che testimonino la gioia di vivere la purezza dell'amore.

È essenziale che dei giovani sposi, all'inizio del loro cammino a due, possano venire accompagnati da coppie che hanno già un'esperienza consolidata nella carità. Ad esempio: mentre si constata frequentemente tra le famiglie appena costituite la paura di avere un figlio, quanti partecipano ai nostri gruppi imparano ad aprirsi con generosità alla vita, superando gradualmente timori e convenzioni contrarie.

È ugualmente importante che dei giovani ai quali viene proposta la dottrina sociale cristiana possano confrontarsi con le esperienze di lavoratori, di famiglie, di aziende che vivono in mezzo al mondo con criteri economici improntati alla comunione. In questa luce, i primi passi nella comunione dei beni da parte dei nostri giovani, apparentemente irrilevanti, si caricano in realtà di un alto valore profetico.

Queste esperienze di comunione non soltanto tra giovani, ma anche tra fasce generazionali diverse, rappresentano un potenziale notevole nell'ottica della nuova evangelizzazione, stabiliscono legami significativi dal punto di vista educativo e si rivelano anche capaci di dischiudere prospettive culturali a lungo termine. In questo senso, una pastorale giovanile che voglia avere continuità e formatività su ampia scala non può essere mai «solo» giovanile.

D'altra parte, comunione significa che il dare non è mai a senso unico. Anche le generazioni più mature si arricchiscono non poco nel confronto con i giovani e con la loro maggiore capacità di innovazione e di radicalità.

Emilio Rocchi