«Rifare con l'amore il tessuto delle nostre comunità cristiane» (ETC, 26)

 

Caritas:  settore o dimensione-Chiesa?

 

di Giovanni Gullino

 

«Meglio camminare insieme, magari con qualche passo in meno, che correre in avanti ciascuno per proprio conto». Così esortava i suoi collaboratori mons. Sebastiano Dho, quand'era vescovo a Saluzzo (CN). Ed anche il suo successore, mons. Diego Bona, è su questa linea. Soprattutto dopo la pubblicazione degli «Orientamenti pastorali per gli anni '90» la pastorale diocesana non può non essere organica e unitaria sotto la guida del vescovo. A questo scopo a Saluzzo sono stati coordinati tra di loro i tre Uffici pastorali diocesani fondamentali: quelli riguardanti l'evangelizzazione, la liturgia e la caritas. Don Gullino, responsabile di quest'ultimo, ci racconta il cammino percorso.

 

 

Nel  convegno  diocesano  del '91, riflettendo insieme sul documento della CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, avvertimmo la necessità di dare un'impostazione nuova al servizio della Caritas. Pur riconoscendo il bene che questo organismo aveva fatto e stava facendo in diocesi e fuori, soprattutto in occasione di calamità, era necessario compiere il passaggio, secondo lo Statuto nazionale, da un centro di distribuzione di aiuti a un centro di educazione alla carità. Anche perché «l'amore preferenziale per i poveri e la testimonianza della carità sono compito di tutta la comunità cristiana, in ogni sua componente ed espressione» (ETC, n. 48).

 

Il nuovo volto della Caritas

Così la Caritas diocesana, da ufficio pastorale costituito da una persona o poco più, è divenuta gruppo di persone con responsabilità precise e compiti ben definiti. Queste persone — come consiglio diocesano — cercano di promuovere una mentalità nuova di corresponsabilità per tutte «le antiche e nuove povertà che sono presenti nel nostro Paese o che si profilano nel prossimo futuro» (n. 47).

Sono sorti così vari responsabili: per le emergenze, per l'osservatorio diocesano delle povertà, per gli obiettori di coscienza, per il mondo penitenziario, per le Caritas parrocchiali, per il volontariato, per il lavoro e la casa, per l'immigrazione, per la casa di prima accoglienza, per i mass media. Attorno ad ognuno di questi si è formato un piccolo gruppo di lavoro in modo che la Caritas allarghi il più possibile il proprio raggio di influenza formativa ed operativa.

Mensilmente ci si ritrova tutti insieme per valutare situazioni, prendere opportune iniziative, organizzare corsi di formazione, ecc. Mettiamo poi a disposizione dei parroci e della diocesi quanto riusciamo ad elaborare. Nella quaresima dell'anno scorso, ogni martedì e venerdì, abbiamo tenuto nelle parrocchie delle serate sul tema della povertà. I partecipanti a questi incontri sono stati colpiti non tanto dai discorsi quanto dall'esserci mossi unitariamente come gruppo. Ancora l'anno scorso abbiamo organizzato un corso di formazione al volontariato, nel quale abbiamo cercato di coinvolgere tutte le associazioni di volontariato operanti in diocesi oltre alle Usl locali. Gli iscritti sono stati più di 140, la maggioranza dei quali ha partecipato assiduamente.

Una particolare attenzione la dedichiamo ai rapporti con gli enti pubblici che si occupano dei problemi sociali. Riguardo al  mondo della scuola abbiamo promosso corsi di educazione alla mondialità e alla pace nelle scuole medie inferiori e superiori.

Il gruppo dell'osservatorio diocesano della povertà ha fatto ricerche sul territorio della diocesi per scoprire i vari volti del disagio ivi esistenti, pubblicando poi una mappa di queste povertà spesse volte sommerse.

Di fronte al problema dell'immigrazione stagionale per la raccolta della frutta, è nata l'associazione «Insieme con gli immigrati», che ha gestito in prima persona corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale, pratiche burocratiche, traduzioni, incontri culturali e momenti di socializzazione.

 

La casa di prima accoglienza

Da alcuni anni la Caritas ha promosso l'apertura di una «casa di prima accoglienza». Questo servizio ebbe inizio come risposta concreta all'invito del Papa nell'anno mariano.

Allora ero impegnato in una parrocchia di periferia, senza chiesa e senza strutture. Da cinque anni avevo iniziato con i parrocchiani un cammino per divenire comunità viva, prima ancora di costruire un'edificio di pietra per il culto.

Oltre al lavoro in parrocchia, da molti anni ero anche assistente volontario in carcere e di aiuto al cappellano, e da tre anni seguivo una comunità di ricupero per tossicodipendenti. Non nascondo che mi trovavo bene in queste esperienze, sperimentando spesso quanto i poveri siano sensibili alle cose di Dio.

Un giorno ricevetti dal vescovo l'invito a lasciare la parrocchia per dedicarmi alle situazioni di disagio esistenti in diocesi. Mi veniva data la possibilità di servire a tempo pieno Cristo nel povero. Accettai con gioia e mi guardai intorno. Proprio in quei giorni Alessia, una suora della Carità di santa Giovanna Antida, andava in pensione, lasciando l'ospedale dove aveva lavorato a lungo come caposala, e si rendeva disponibile per un servizio ai poveri in diocesi. Questo aiuto inatteso e qualificato ci sembrò un segno da parte di Dio.

 

I primi passi

Su mandato del vescovo e in accordo con i responsabili degli uffici pastorali ci mettemmo alla ricerca di una casa che potesse servire da punto di riferimento per tutti coloro che si trovassero in particolari condizioni di disagio. Tutte le porte sembravano chiuse, quando l'amministrazione di un ex orfanotrofio ci affittò la parte più deteriorata di un suo fabbricato.

Si doveva trasformare in casa abitabile un rudere cadente: non c'erano né porte né finestre, nel piano superiore mancavano persino i pavimenti e l'impianto elettrico e c'era un solo bagno praticamente fuori uso.

Con alcuni amici e alcuni giovani del servizio civile ci rimboccammo le maniche. Ben presto vennero ad aiutarci molte altre persone: lavoravano fianco a fianco obiettori di coscienza, militari della vicina caserma, alpini in congedo e professionisti che si offrivano volontari.

Ci chiedemmo se attendere la fine dei lavori per accogliere le persone bisognose o se iniziare subito e decidemmo di non aspettare: chi ha fame oggi non può attendere domani!

 

«Fare casa»

Di proposito abbiamo parlato di «casa» di prima accoglienza e non di un centro, perché avvertivamo che era importante dare, a chi suonava il campanello o chiedeva aiuti, prima di tutto il calore di una casa con persone che facessero festa e dessero il benvenuto prima ancora di offrire dei servizi.

Attualmente disponiamo di quattro camere singole, tre doppie e una a tre letti; dei servizi richiesti per legge per locali destinati all'ospitalità, di una sala di incontro con TV, di un cortile con giardino, di una sala da pranzo con un massimo di quaranta coperti, di una cucina tutta rimessa a nuovo e secondo le norme di legge e di una dispensa. Il tutto permette a chi ne ha bisogno di consumare uno o più pasti al giorno in maniera dignitosa. Ci sono infine un piccolo ufficio, testimone di tanti drammi umani, e una cappellina con la presenza di Gesù eucaristia, da cui attingiamo forza per tutte le nostre attività.

 

I nostri ospiti

Finora sono passati in questa casa oltre 700 ospiti di 54 nazioni con circa 9.000 pernottamenti. Sono stati serviti più di 100.000 pasti. Cifre dette con poche parole, ma che nascondono innumerevoli sofferenze di esseri umani. Tra loro vi sono italiani malati di mente e abbandonati da tutti, alcolisti, barboni senza fissa dimora, ex detenuti, persone sole...

Ci sono poi anche gli immigrati con i drammi tipici della loro realtà: mancanza di abitazione, di lavoro e di assistenza medica; lontananza dalla propria famiglia e incapacità di affrontare le trafile burocratiche per regolarizzare la loro permanenza in mezzo a noi e trovare un posto di lavoro... (cf  n. 49).

È un continuo incontro di lingue, culture e religioni diverse. Dopo vari errori abbiamo appreso  molte cose, soprattutto abbiamo capito  che  in  fondo  la cosa  più  importante  è che  questi   nostri   fratelli   incontrino   persone  che  sappiano  accoglierli  senza  pregiudizi (cf  n. 39).

Prima di tutto le persone

Ma questo non è facile. Ci siamo accorti ad un certo punto che eravamo diventati duri nei confronti dei nostri ospiti. Vedevamo solo i loro aspetti negativi, le loro mancanze e ci feriva, a volte, soprattutto la loro arroganza e ingratitudine. Tutto questo aveva creato nella casa un clima pesante per noi operatori e per tutti gli altri. Si dava la precedenza alle cose da fare più che alle persone da accogliere.

Suor Alessia ed io per primi abbiamo preso la decisione di vedere il positivo in ognuno: «Se anche ci trovassimo davanti ad una pagina nera — ci siamo detti — metteremo in rilievo il solo puntino bianco che rimane». Da quel giorno cominciammo a far festa a tutti quelli che arrivavano. In breve tempo il clima cambiava: non ci si trovava soltanto in una casa in ordine, ma in famiglia.

Nel pomeriggio dello stesso giorno venne un nostro amico alcolista. Sovente ci aveva creato solo problemi e ci aveva ricambiato con insulti. Suor Alessia gli aprì la porta e, fedele alla consegna, lo salutò così: «Carlo, come sono contenta che sei venuto a trovarci e che oggi sei riuscito a non bere tanto. Sei stato proprio bravo». Il nostro amico, abituato ad essere ripreso e deriso da tutti, sentiva dirsi per la prima volta un «bravo». Dopo aver sorriso, tornava sui suoi passi e scompariva per riapparire dopo mezzora con in mano un mazzo di fiori avvolti in carta igienica e offrirlo alla suora. Sulla carta aveva scritto: «A suor Alessia che mi ha detto che sono bravo».

Questo semplice episodio ci aprì gli occhi, ricordandoci che l'amore e solo l'amore vince tutto ed è capace di far germogliare il bene in ogni essere umano.

 

Gli operatori

La casa non ha persone stipendiate. Vi prestano gratuitamente la loro opera due suore a tempo pieno, un signore in attesa di pensione e, fin dall'inizio, due o tre giovani obiettori di coscienza che svolgono così il loro servizio civile.

Molti sono poi i volontari: c'è chi cura l'orto o il giardino, chi fa la scelta e la distribuzione dei vestiti usati, chi cura la manutenzione e la ristrutturazione della casa... che è un cantiere sempre aperto. Ogni giorno, mattina e sera, vengono due persone a turno per preparare i pasti.

Su invito del vescovo, infatti, ogni parrocchia si impegna ad assicurare i cuochi per un pasto al mese. Anche se il loro servizio è minimo, grande è il ritorno in parrocchia in termini di notizie e quindi di formazione alla carità concreta, mentre per la casa di accoglienza è un grande aiuto avere i cuochi assicurati per tutto l'anno. L'unica difficoltà che si verifica è che a volte non è facile trovare i vari utensili della cucina al proprio posto, magari la pentola è tra i piatti e il mestolo tra i bicchieri; ma anche questi inconvenienti alla fine sono motivo di ilarità e di crescita nella comunione tra tutti.

Oltre alle parrocchie danno un aiuto anche i vari movimenti e gruppi ecclesiali presenti in diocesi. La casa è diventata un luogo dove essi hanno la possibilità di incontrarsi, conoscersi e collaborare.

 

Mezzi di sostentamento

Abbiamo fatto la scelta di non convenzionarci con enti pubblici. È una scelta che ha i suoi lati positivi ed anche i suoi limiti. Noi la troviamo valida.

Per altri motivi manteniamo un rapporto continuo con gli enti pubblici, le associazioni private di volontariato e con le forze di polizia. La nostra casa è sempre un punto di riferimento per i casi estremi, «quando — dicono — non sappiamo più dove andare...».

Non abbiamo perciò fonti garantite di sostentamento. Ci fidiamo della Provvidenza che non è mai venuta meno. Agli ospiti non chiediamo nessun compenso in denaro, ma cerchiamo di farli sentire partecipi, di coinvolgerli nella vita di tutti i giorni col prendersi cura delle piccole cose comuni e della propria camera.

In questi sei anni non è mai mancato il necessario e spesso ci sono arrivate primizie e vere specialità. Di tanto in tanto ci vengono aiuti dall'AIMA (Azienda di Stato per Interventi nel Mercato Agricolo). Per un certo periodo ogni domenica sera una pasticceria ci donava i dolci che erano avanzati e noi ne potevamo far partecipi altre istituzioni o persone in necessità.

Un sabato sera la suora mi dice che abbiamo poca pasta (ne consumiamo circa cinque chili al giorno) e decidiamo di comprarla il lunedì mattina. La domenica pomeriggio arriva una grossa auto carica di pasta. Erano degli amici venuti a farci visita e chiedo in cucina di prepararci un caffè. Arriva invece un tè, perché di caffè non c'è neanche il profumo. Mentre accompagno gli amici alla macchina, vedo accanto alla porta un pacco: era arrivato il caffè!

Una sola volta siamo andati in rosso. Era il mese di agosto e decidemmo di regolamentare bene le cose in maniera da prevedere un po' il futuro... Mai avevamo dovuto comprare la verdura, neanche durante l'inverno, e fummo costretti a comprarla nel mese di agosto! La lezione fu sufficiente per farci rimettere in carreggiata...

 

Il metodo di lavoro

Fin dall'inizio abbiamo cercato di prendere le decisioni insieme. A volte l'urgenza dei lavori, le situazioni impreviste e gli ospiti difficili ci costringono a decidere su due piedi senza aver avuto il tempo di vederci tra di noi; ma poi, al momento opportuno, mettiamo tutto in comune, pronti a perdere le nostre idee per accogliere l'altro, e vengono fuori soluzioni nuove ed impensate. Sovente queste decisioni scaturite dal confronto si rivelano a distanza di tempo le più appropriate e le meglio riuscite.

Il ritrovarci insieme per confrontarci, ponendo come base la carità reciproca, ci mette nelle migliori condizioni per percepire quello che viene dallo Spirito e quello che può venire dall'emozione, dalle pressioni del momento o dalla simpatia e antipatia. Anche il dire di no — spesso siamo costretti a farlo — mostra la nostra sofferenza di non poter fare di più e gli altri capiscono che dietro il nostro agire c'è una motivazione superiore.

Nel marzo scorso il nuovo vescovo iniziava il suo servizio tra noi. Parlando del suo piano pastorale, ci diceva: «... un progetto già lo abbiamo tra le mani, quello che la Chiesa italiana ci propone... È quanto troviamo nell'Evangelizzazione e testimonianza della carità, dove si ricorda che per far giungere l'evangelo al cuore degli uomini di oggi il modo più vero e autentico sono i gesti dell'amore, la testimonianza della carità». Questo il cammino che la nostra Chiesa locale, con le sue luci e le sue ombre, sta cercando di percorrere per rifare con l'amore il tessuto delle nostre comunità cristiane.

 

Giovanni Gullino