In dialogo con i lettori

Il clero: ancora una casta?

di Silvano Cola

 

 

*

Dialogando con i laici ho constatato una quasi totale ignoranza sul prete, anche da parte di praticanti e credenti («ha fatto i voti o no?», «ha scelto la solitudine o piuttosto il lavoro per gli altri?», «ha tradito l’abito dal momento che non lo porta?», ecc.). L’impressione globale è che il clero sia, nei confronti degli stessi credenti, come un «corpo separato». Che ne pensate?

(sac. Gerardo Vicenza - Torino)

C

i sono due aspetti da considerare: per un verso, un’ effettiva ignoranza da parte di tanti laici sulla figura e sulla missione dei preti; per un altro verso, un anacronistico stile ancora diffuso tra molti preti di comportarci socialmente come se fossimo chissà chi, quasi plagiando una celebre frase: Dio mi ha voluto sacerdote e guai a chi non mi considera tale.

Che per la maggior parte dei laici il prete sia un punto interrogativo non fa stupire: dovrebbero avere «orecchi per intendere», cosa non facile quando nell’attuale cultura secolarizzata chi non si sposa o è un misantropo o un latente omosessuale che compensa la sua diversità col vantare una dignità e un potere sacri. È così lontana, infatti, dalla mentalità del mondo una decisione per Dio a servizio di ogni uomo, in una libertà da vincoli affettivi particolari per una «chiamata» a seguire Gesù nel portare il messaggio evangelico dell’amore a «tutti», che è fuori luogo stupirsene; così come è difficile far penetrare negli schemi mentali della gente la frase di Gesù: «mia madre e miei fratelli sono coloro che fanno la volontà del Padre mio». Per cui sarà sempre vero che «se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi», il che vuol dire: «se non hanno capito me, non capiranno neanche voi».

Che anche molti preti abbiano interpretato o tuttora interpretino male il loro status sacerdotale o per educazione ricevuta o per un inconscio scivolamento nelle categorie mondane del «potere che distingue e ti fa qualcuno», anche se si tratta della sfera spirituale, mi pare non ci sia dubbio. Sembra quasi che, sotto sotto, covi ancora nel subconscio di tanti la storica lotta di supremazia tra sacerdotium e imperium, distanti come si è dal mettere in pratica il consiglio così sapienziale e personificante di Gesù: «Se uno vuole essere il primo, deve essere l’ultimo di tutti e il servitore di tutti», gioiendo non perché i demoni alle volte ci ubbidiscono (merito non nostro ma del sacramento) ma perché i nostri nomi sono scritti in cielo. Maria, del resto, il modello di tutti i cristiani, la sua verità l’ha conservata nel suo cuore tanto che socialmente nessuno se n’è accorto: le litanie che ne cantano la grandezza le ha ottenute dopo. Gesù, per il quale non era un sopruso essere uguale a Dio, pur parlando con straordinaria autorità e autorevolezza, non ha accettato nessuna forma di potere se non quello di lavare i piedi agli altri e di morire per tutti, uomini e donne, come loro fratello.

Se tutti noi preti bandissimo ogni forma di individualismo, di autosufficienza e magari di orgoglio spirituale (difetti che ci fanno vedere come casta); se ponessimo come base essenziale del nostro sacerdozio ordinato la vita del sacerdozio battesimale che richiediamo ai laici; se fossimo convinti che è più grande chi ama di più (e qui non esiste discriminazione tra preti e laici), non dico che saremmo totalmente capiti, ma qualcosa forse cambierebbe.

S. C.