Flash di vita

Il crocifisso    
 che sanguina

Sono parroco in una città del Brasile. Un signore molto ricco ha chiamato dalla capitale un artista, che dal tronco di un enorme albero di legno pregiato sta ricavando un bellissimo crocifisso a grandezza naturale, e vuole farne dono alla parrocchia. Ho subito pensato: «Starà bene sulla parete di fondo della chiesa, dietro l'altare maggiore». Il signore mi ha chiamato per mostrarmelo e per sentire il mio parere, mentre lo scultore sta dando gli ultimi ritocchi. «È veramente bello - gli ho detto con convinzione -; esprime il dolore di colui che fu abbandonato dagli uomini e da Dio». Ne sono rimasto entusiasta, ho ringraziato il donatore ed ho promesso che, appena l'artista avrà terminato il suo lavoro, faremo una bella festa collocandolo in chiesa.

La sera stessa ho dato notizia di questo dono ai membri del consiglio parrocchiale ed ho notato, con sorpresa, che non ne erano entusiasti come me, anzi mi hanno fatto delle serie osservazioni. «Questo crocifisso – mi hanno detto – potrebbe essere fonte di tante discordie in parrocchia; soprattutto gli operai che lavorano nell'industria tessile non ne sarebbero molto contenti». E mi hanno anche spiegato i motivi. Come fare adesso che ho già dato la mia parola e tutto è quasi pronto?

Ho preso il coraggio a quattro mani e sono andato dal signore che voleva regalarci il crocifisso. È il proprietario dell'unica industria tessile del paese, senz'altro l'uomo più ricco del posto, un uomo buono, cattolico praticante, ma con sulle spalle la responsabilità di un'industria che nella sua struttura fa soffrire gli operai non solo per la congiuntura internazionale, di cui egli non è responsabile, ma anche per la mancanza di dialogo al suo interno.

Sento che non posso ingannarlo col mio silenzio, ma neanche ho il diritto di umiliarlo con la mia parola; forse Dio mi sta dando un'occasione per aprire un dialogo. Gli dico che il Consiglio parrocchiale vuol fare di questo suo dono un momento di gioia comune e di evangelizzazione, ma che corriamo il rischio di creare discordia. Cerco di spiegare bene la cosa: «Se adesso facciamo una bella festa e mettiamo questo crocifisso in chiesa come suo dono, lei sa i commenti che il popolo farebbe? Tanti direbbero che il prete ha dato i suoi suggerimenti, l'artista il suo genio e il suo lavoro, lei un po' di soldi e gli operai dell'industria il loro sangue, ma l'onore, invece, è dato tutto al padrone...

Allora dobbiamo fare un lavoro di chiarificazione e mi sembra che sarebbe bello se potessimo mettere in chiesa questo crocifisso tutti insieme, dicendo che questa immagine rappresenta il sudore degli operai, le preoccupazioni dell'industriale e il talento dell'artista.

Tutta la comunità allora prenderà parte alla festa nel porre in chiesa un'opera d'arte che ricorderà il dolore e la fatica di tutti, implorando da Dio luce e forza per costruire insieme un mondo migliore».

Ho parlato a quest'uomo con una libertà grande. Egli sa che non sono un demagogo ed io so che egli è sensibile a queste cose, quando sono dette con serenità. È rimasto sorpreso, profondamente scosso, senza parole. Mai nessuno gli aveva detto verità così forti, anche se non erano dirette contro di lui. Ho saputo che quella notte non ha dormito e il giorno seguente ha riaperto con me il dialogo: «Padre, tutto quello che lei vede di ingiusto nella mia industria me lo dica, perché io desidero migliorare i rapporti con i miei dipendenti». In un ambiente in cui il sindacato è visto come sovversivo, non è facile per gli operai far sentire la loro voce. Per questo gli ho risposto con sincerità: «Non vivendo dentro la sua industria, è difficile per me conoscerne le problematiche: a me potrà arrivare l'uno o l'altro caso e le farò sapere qualcosa in merito, ma è necessario che i suoi operai abbiano la libertà e il coraggio di dirle la verità e che lei dia loro tanta fiducia». Ed ho suggerito alcuni nomi, lasciando a lui la libertà di scoprirne tanti altri... Ho saputo in seguito che è iniziato un dialogo con gli operai che potrà portare i suoi frutti.

Mi sento libero con tutti. Coi poveri, perché sono uno di loro: io ho appena il necessario per vivere, ma non ho niente che possa dire mio. Vorrei, però, che tutti i poveri avessero il necessario come ce l'ho io. Mi sento libero anche con i ricchi, perché le ricchezze che loro hanno, non sono di loro, ma un dono di Dio da far fruttificare per il bene di tutti.

H. P. - Brasile

Progetto di sviluppo agro-zootecnico

«Amare la patria altrui come la propria; mettere i talenti a disposizione dei fratelli, in particolare quelli più bisognosi». Ascoltando queste parole, mi son chiesto: «Ma tu cosa fai concretamente?». Non potevo passare il tempo nel dolce far niente, godendomi la mia pensione. È nata così, in me e in mia moglie, l'idea di mettere a disposizione dei poveri la nostra esperienza di lavoro.

Abbiamo preparato una bozza di progetto agro-zootecnico che poteva essere attuabile in qualsiasi paese in via di sviluppo e su invito del vescovo José Palmeira Lessa, io e Giuliana nel 1988 siamo partiti per il Brasile. La diocesi di Proprià, nello Stato di Segipe, si estende dalla costa atlantica verso l'interno su un'area di 8.137 km2 e comprende 25 comuni e una popolazione di 230.000 abitanti. È tra le più povere di quella regione, conosciuta come il triangolo della fame. Miseria, malattie e morti per denutrizione sono all'ordine del giorno.

C'era da impegnarsi molto e confidare solo in Dio, perché così come stavano le cose, avremmo potuto fare ben poco. Visitammo vari villaggi per conoscere e parlare con le persone. Ogni volta che ci si incontra, uno di loro legge un brano del Vangelo e su quello ci si confronta. Su questa base si trattano i problemi concreti e si programma il lavoro. Alla fine si canta un inno per ringraziare Dio e per chiedere il suo aiuto.

Ogni villaggio visitato era per noi uno shock: poco cibo, case di paglia e fango, senza acqua e senza luce: un mondo a noi totalmente sconosciuto, inimmaginabile! Quello che però caratterizza questo popolo è una grande fede in Dio Padre. «Un giorno con il suo aiuto riusciremo a risolvere la nostra situazione di miseria» – ci dicevano.

La tentazione era di aiutarli comprando del cibo, ma poi tutto sarebbe finito nel paternalismo. Se loro se la sentivano, si poteva realizzare il progetto che avevo preparato. Ne abbiamo parlato  insieme e lo abbiamo adattato alla loro cultura e alle loro esigenze. Hanno espresso il desiderio di ricevere attrezzature agricole come trattori, aratri, rimorchi cisterne per trasporto di acqua potabile, camion, barcone, impianti di irrigazione; di aiutarli a mettere su allevamenti di mucche, polli, capre, api, e infine aiuti per iniziare a costruire le case.

Tornati in Italia ci siamo rivolti alla Caritas che si è fatta carico di finanziarci l'acquisto delle attrezzature agricole. Per le altre realizzazioni abbiamo dato vita a dei Gruppi di Solidarietà nel viterbese, nel padovano, nell'ascolano e nel tarantino. Grazie a questi fratelli solidali con i più poveri siamo riusciti a finanziare tutto le altre richieste. Oggi le cose sono migliorate moltissimo, nonostante la situazione economica così precaria in Brasile. In questi villaggi non c'è più fame e in quasi tutti si sono costruite casette in muratura; manca ancora la luce e l'acqua, che arriveranno presto.

Per non creare tra noi e loro una barriera, abbiamo cercato di vivere con loro il più possibile, ascoltandoli, apprezzando la loro cultura e soprattutto la loro fede genuina. Questo ci ha aiutato a capirci e fraternizzare. Alcuni giovani ci chiamano mamma e babbo. L'affetto, l'amicizia e la gioia che provano quando siamo con loro è il centuplo che riceviamo in cambio della nostra condivisione.

Avevamo però una preoccupazione. Una volta raggiunto un certo benessere, avrebbero conservato la loro semplicità o sarebbero diventati egoisti? Per evitare questo pericolo sin dall'inizio abbiamo impostato alcune attività dei villaggi in maniera comunitaria. In ogni comunità si sono costituite associazioni, legalmente registrate, così che tutto quello che si acquista è a nome dell'associazione: tutti sono proprietari ma nessuno è padrone. In ogni villaggio viene lasciato un appezzamento di terra per le coltivazioni comunitarie, il cui ricavo netto viene usato per casi di emergenza come malattie, ricoveri ospedalieri, assistenza alle gestanti e ai neonati, ecc. Consegnando le mucche ad alcune comunità, hanno preso l'impegno che l'allevamento sarà comunitario e che i vitelli nati dal terzo parto saranno dati gratis ad altre comunità che ancora non hanno allevamenti, perché gratuitamente hanno avuto e gratuitamente devono dare.

Quando Chiara Lubich in Brasile lanciò l'economia di comunione, noi ci sentimmo incoraggiati ed altre persone hanno dato vita negli Stati brasiliani del Maranhâo, del Pernambuco, del Parà e del Piauì ad aziende gestite con i principi dell'economia di comunione.

Con loro abbiamo iniziato una collaborazione, preparando progetti che poi sono stati finanziati, come una sartoria nel Maranhâo, una fabbrica di sandali che dà lavoro per ora a 18 giovani e un allevamento di pesci e polli e una panetteria, che permettono di alimentare i 300 bambini della scuola Santa Maria a Recife, e di prossima apertura una fabbrichetta di marmellate a Belém e una di sapone a Teresina, dove saranno impegnate circa 25 giovani. Oltre a dare lavoro a persone disoccupate, gli utili serviranno per dar vita a nuove iniziative di sviluppo.

Ritornando a Proprià, non potevamo non imbatterci nel problema dei bambini di strada, i cosiddetti meninos de rua, abbandonati dalle famiglie. Spiegare il perché di questa piaga sarebbe troppo lungo, ma è una triste realtà in tutti i paesi dell'America Latina, principalmente in Brasile. Qui, secondo l'Unicef, su una popolazione di 180 milioni di abitanti, 10 milioni sono bambini di strada. Anche in questo campo ci siamo impegnati e attualmente si stanno portando avanti due Centri di ricupero dove, oltre a fornire vitto e per alcuni anche l'alloggio, si fanno corsi di artigianato per dare un mestiere e assicurare un lavoro per il futuro. C'è tutto un programma ben articolato che nei limiti delle possibilità si cerca di rispettare. Per il mantenimento dei bambini si sono fatte le adozioni a distanza.

Sono passati ormai quattro anni e le 1.161 famiglie dei 10 villaggi hanno risolto i loro problemi di sopravvivenza ed ora questi aiutano gli altri dove ancora non si è potuto arrivare. L'avventura brasiliana per noi continua e la solidarietà di molti ci ha fatto sperimentare che mettendoci insieme si possono fare molte cose, altrimenti impossibili: tante piccole gocce d'acqua unite tra loro formano un'oasi mentre, se disperse, scompaiono nell'arsura del deserto.

E. e G.

Gesù negli ultimi

Solo chi è capace di entrare nel cuore di un carcerato sa cogliere il positivo che si nasconde in ogni cuore umano e che attende di essere valorizzato per costruire un futuro migliore. Antonio di Frascati (Roma), papà di tre figli, impiegato, svolge da anni un'attività esemplare in questo ambiente.

Durante le feste del Natale '93, mentre la sua mamma di 83 anni è ricoverata in ospedale, riceve una telefonata: è un detenuto uscito dal carcere con un permesso di alcuni giorni che, non potendo tornare a casa nella sua Sicilia per ragioni di sicurezza, si trova in un albergo di Roma. Cosa fare?

Antonio ne parla con sua moglie Maria,e coi figli Miriam, Stefano e Gabriele e, di comune accordo, lo invitano a casa loro. Arriva la vigilia di Natale e vi rimane fino al 26. La serenità di una famiglia armoniosa, l'accoglienza che persino i bambini gli riservano, la possibilità di parlare con persone amiche, tutto aiuta a ritrovare serenità e speranza nella vita. «Mi avete tolto da una profonda depressione!», dice, mostrando il permesso specifico che ha dovuto procurarsi per venire fino a Frascati. E poi aggiunge scherzando: «L'hanno firmato in cinque tra magistrati e funzionari di polizia e così anche loro ci hanno aiutato a farci conoscere...». Tornato in carcere, mantiene i contatti e scrive che ha riscoperto il valore della preghiera e della speranza.

Un detenuto politico a Rebibbia, ergastolano, da tempo chiede ad Antonio di trovargli un lavoro per uscire in semilibertà. Ma i tempi sono difficili. Antonio lancia messaggi dovunque senza il minimo riscontro.

«Un giorno – racconta – busso alla porta di una casa religiosa posta in piena campagna. Mi attende un novizio che mi ascolta con molta attenzione e mi incoraggia, invitandomi a rivolgere la mia richiesta alla cooperativa agricola lì accanto. Ne è presidente un neuropsichiatra che conosco. Dopo i primi approcci mi dice che vuol conoscere personalmente il detenuto. Il colloquio avviene nella USL di Frascati alla presenza mia e dell'assistente sociale. Il detenuto, dopo 17 anni di carcere, dimostra una personalità forte, fedele ai propri ideali. La richiesta di lavoro viene inoltrata ed accolta e, dopo alcuni giorni, comincia la prova di inserimento».

Il giorno del colloquio è ospite in casa di Antonio. Questi al mattino era andato a prenderlo in macchina a Roma e l'aveva portato a vedere alcuni luoghi caratteristici dei Castelli Romani.

«Il pranzo – continua Maria – si è svolto a casa nostra, tutti contenti di accoglierlo. La conversazione è molto familiare ed anche abbastanza vivace con i miei figli».

Il detenuto percepisce che tutti, anche i bambini, gli vogliono bene e, mentre Antonio lo riaccompagna a Roma, gli dice: «Nella tua casa ho respirato la stessa aria pura che al mattino avevamo trovato nei boschi dei Castelli Romani; hai una bella famiglia. Questa volta il mio rientro in carcere è meno penoso».

Mariolino è un altro detenuto politico a Rebibbia. Non ha mai conosciuto suo padre e giovanissimo entrò a far parte delle Brigate Rosse. E' stato condannato all'ergastolo ed è in carcere da 16 anni. Ha un figlio di 17 anni a Roma e la madre che vive in una città lontana.

Antonio con l'aiuto di altri amici gli ha procurato un testo universitario di cui ha bisogno, perché ha avuto la possibilità di frequentare a Roma la facoltà di sociologia. Si dichiara non credente, ma in occasione del Natale, rispondendo ad una cartolina di auguri, ha scritto: «Carissimo Antonio, ieri ho ricevuto il vostro cartoncino... Ho gradito tantissimo la sincerità degli auguri tuoi e dei tuoi familiari. Pensa che buffo! Tu hai accuratamente scelto un cartoncino laico ed io rispondo invece con uno di impronta religiosa. Vuoi saperne un'altra? Qualche giorno fa mio figlio mi diceva dei rimbrotti della madrina, perché da qualche tempo non si fa più vedere alle lezioni di catechismo. Beh!, di fronte al vuoto di valori in cui mi sembra immerso lui e quelli della sua età, l'ho delicatamente incoraggiato a riprendere la frequenza, piuttosto che limitarsi solo alla scuola e alla palestra. E dire che sono ferocemente avverso agli indottrinamenti spirituali o politici verso i minori!».

In una successiva lettera, sempre a proposito del figlio, scrive lasciando trasparire la sua soddisfazione: «Recentemente mio figlio si è avvicinato alla Comunità di Sant' Egidio... con altri ragazzi della sua scuola seguono dei bambini in un collegio con doposcuola, accompagnandoli al cinema e cose del genere... Ovviamente è una cosa che mi fa piacere e mi rasserena».

La corrispondenza continua intensa. Antonio per lui è la parte buona della società a cui può rivolgersi per comunicare ed anche per mettere in comune problemi, come quando la sua mamma anziana ha avuto un incidente e il figlio detenuto non ha potuto visitarla. Ci ha pensato qualche altro a farle sentire il calore umano del suo figlio in carcere.

Ad un altro detenuto Antonio e i suoi amici sono riusciti a trovare un lavoro esterno presso un fabbro, quando si vede giungere una lettera. Aperto alla solidarietà dalle molte sofferenze passate, questi gli espone la causa di un giovane detenuto con cui condivide la cella: «Carissimo Antonio, ti chiedo con il cuore in mano, aiutalo tramite il tuo amico fabbro per fare la richiesta di lavoro al mio posto. Ti assicuro che è un buon ragazzo».

Oggi il prossimo bisognoso di aiuto lo si trova anche lungo le nostre strade asfaltate. Antonio sta tornando da Roma in macchina con i suoi due ragazzi, Stefano e Gabriele, quando assiste ad un incidente penoso. Una grossa macchina, viaggiando contro mano, investe un signore sulla cinquantina che torna a casa sul suo motorino. E' sbattuto a terra e perde sangue.

«Posteggio la mia macchina – racconta Antonio – e dico ai miei ragazzi di aspettarmi. Soccorro il ferito, che appare subito molto grave, mettendogli un panno sotto la testa che perde sangue, mentre sollecito altri, che per fortuna hanno il cellulare, a chiamare subito l'ambulanza e la polizia.

I soccorsi arrivano con parecchio ritardo e devo dirigere il traffico intenso, perché il ferito è disteso sulla carreggiata in prossimità di una curva. Passa un giovane sacerdote, si avvicina e prega. Finalmente arriva la polizia e l'ambulanza. Il ferito è gravissimo ed ha perso conoscenza.

Mentre viene trasportato in ospedale, Antonio spiega alla polizia la dinamica dell'incidente. Poi il brigadiere lo invita ad entrare nel suo furgoncino per fare una dichiarazione scritta. Mentre sta scrivendo gli dice: «Ma lo sa che quello che lei sta facendo, non lo fa quasi nessuno oggi in Italia? Anzi non lo fa proprio nessuno!». Antonio risponde: «Ma è un mio dovere verso quell'uomo che forse non potrà più parlare. Sono un cristiano e mi sforzo di vivere il vangelo». «Lo sono anch'io», risponde soddisfatto il brigadiere.

Finite le formalità, prima di rientrare nella sua macchina, Antonio va a salutare l'investitore. Anch'egli, poveretto, è nei guai a causa di un'imprudenza. Quando risale nella sua vettura, i ragazzi che lo attendono hanno già acceso le luci di posizione, ma soprattutto hanno visto che la parabola del buon samaritano non è un racconto di altri tempi.

Dopo qualche giorno arriva una telefonata: l'operaio investito è morto lasciando una vedova e una figlia di 24 anni. Naturalmente le cose non finiscono qui. Arriva anche la citazione del tribunale e la vedova scongiura Antonio di presentarsi come teste e di dire la verità ed offre una ricompensa.

«È incredibile! – dice Antonio –; ormai anche i poveri si sono convinti che tutto si paga, anche una testimonianza dovuta». Ma il giorno stabilito la vedova e la figlia passano in macchina dalla casa di Antonio ed egli le accompagna. Per la strada pregano, affinché nei loro cuori non ci sia nessun sentimento di odio, ma solo il legittimo desiderio che la verità sia riconosciuta.

Nel corridoio del tribunale, durante l'attesa, Antonio riconosce l'investitore e lo saluta. Alla fine della deposizione, questi si avvicina e gli ricambia il saluto con un sorriso.

E. P.