Spunti per una teologia della famiglia

Famiglia e Trinità

di Piero Coda

 

Il 20 giugno scorso si è svolto, al Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, un incontro sul rapporto tra l’esperienza di unità tra i presbiteri e una pastorale a servizio dell’unità della famiglia. Un momento centrale e molto apprezzato del convegno è stato l’intervento che qui presentiamo, dietro richiesta dei partecipanti.

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ettere in rapporto la famiglia con la Trinità non è, di fronte ai gravi problemi che la travagliano nel nostro oggi culturale e sociale, un lusso dei teologi o una semplice idealizzazione utopica. Né è soltanto una moda che lascia il tempo che trova. È, piuttosto, tuffarsi nella sorgente sempre nuova della vita dell’umanità

Si dibatte oggi – in modi più o meno espliciti, ma con conseguenze tangibili – se la famiglia, così come la presenta ad esempio la dottrina cristiana, sia frutto di «natura» o non più semplicemente di «cultura».

Se, cioè, essa sia una realtà data una volta per tutte come una struttura di relazioni e di finalità certa e immodificabile o una possibilità tra le altre, variamente e sostanzialmente modificabile nel corso del tempo.

La «ragione» e le esigenze morali e sociali farebbero propendere per la prima soluzione. La storia e le sue cangianti esperienze ed esigenze per la seconda.

In realtà, l’evento della rivelazione biblica e cristiana getta una luce originalissima sulla realtà della famiglia, mettendo in questione questa astratta dicotomia. Non solo perché aiuta a ripensare in modo più corretto e concreto il rapporto tra natura e cultura, ma soprattutto perché mostra la famiglia indissolubilmente intrecciata con quel «mistero» dell’autocomunicazione della Trinità nella storia, in grazia del quale l’umanità è chiamata, per dono, a ritrovare pienamente se stessa in Dio. Secondo il disegno eterno della Trinità nel suo dispiegarsi storico-salvifico tra protologia ed escatologia, e nell’ora presente.

È ciò che vorrei cercare di dire con questo rapidissimo schizzo, toccando appena quattro punti, più a livello di semplici suggestioni da riprendere e approfondire che di un discorso articolato e compiuto1.

1. Incontro tra famiglia e Trinità nella storia della salvezza

Quando dico che la storia della salvezza è il luogo del reciproco incontro tra la famiglia e la Trinità, intendo sottolineare che la storia tutta dell’umanità e, in particolare, quella d’Israele e della Chiesa, può essere letta come il luogo della progressiva e reciproca rivelazione di Dio nella famiglia e della famiglia in Dio.

È un filo rosso, se non «il» filo rosso del «mistero» della salvezza, nell’accezione originalmente paolina del termine.

Nel senso che, fin dalla creazione, Dio si dà a conoscere nello spazio del rapporto reciproco tra l’uomo e la donna come principio e paradigma d’ogni altro rapporto interumano, che include in sé il rapporto col mondo.

E la Genesi lo esprime in un modo che non cessa di stupire e affascinare, assumendo e trascendendo nella Luce di Dio i «semi del Verbo» disseminati in tutte le culture e le esperienze religiose.

Adamo conosce chi è Dio entrando in rapporto con Eva: solo nel loro rapporto, infatti, i due sono «immagine di Dio». È una conoscenza – quella di Dio – che scaturisce dalla struttura iconica dell’essere umano come maschio-femmina e che, nella relazione, produce un «plus» e un «novum» di essere.

Conoscendo l’altro, l’essere umano conosce sé e conosce Dio. E prolunga l’opera del Creatore. Perché da questo rapporto nasce una nuova vita. Basti anche solo riflettere, in proposito, al pregnante significato del biblico jadáh (conoscere), che è, insieme e a seconda dei casi, atto esperienziale-intellettuale, coniugale e teologale2.

Dio si specchia nel rapporto – al presente – tra l’uomo e la donna che diventano «una sola carne»; ma anche nel loro estasiarsi, dal passato dell’origine (divina e umana) da cui essi stessi sono nati, verso il futuro della nuova vita da loro nascente.

Ciò che ogni uomo e ogni donna hanno sempre almeno implicitamente percepito in ogni cultura ed esperienza religiosa, si staglia dunque, con crescente luminosità, per l’irruzione libera e d’amore di Dio nella loro storia.

Il rapporto tra l’uomo e la donna – insegna l’esperienza dell’alleanza di Dio con Israele – non è solo lo spazio del loro incontro con Dio, ma anche la grammatica creata attraverso cui Dio rivela il suo Nome (= Essere) trascendente. Egli è (e sarà) il Dio-con di Mosé (= JHWH), il Dio-Sposo dei profeti.

Per questo l’uomo e la donna, nella loro reciproca sponsalità, sono immagine di Dio: perché Dio è lo Sposo che dall’origine della memoria creatrice ci viene incontro nel futuro della promessa salvifica.

Nel Nuovo Testamento, il ministero messianico di Gesù si pone tutto nella luce delle nozze escatologiche: a partire dalla densa parabola delle nozze di Cana (cf Gv 2, 1-11), sino all’evento pasquale, dove – secondo l’esegesi dei Padri – dal fianco squarciato di Cristo, nuovo Adamo, vien tratta fuori la chiesa, nuova Eva (cf Gv 19, 33-34).

Più d’ogni altro lo capirà Paolo, nel famoso testo della lettera agli Efesini, illuminando il «grande mistero» di Cristo e della chiesa che si riflette e si compie nell’unione tra l’uomo e la donna (cf Ef 5, 21-33).

In Cristo crocifisso e risorto – presenza definitiva nella storia del Dio dell’origine che, nello Spirito, si fa il nostro futuro escatologico – il legame che unisce in una sola carne l’uomo e la donna diventa il principio e il paradigma dei cieli nuovi e della terra nuova.

Innanzi tutto perché Dio dischiude ormai il suo Essere, nella Pasqua, come relazione d’Amore in Sé medesimo: Padre, Figlio, Spirito Santo; Amante, Amato, e il loro reciproco Amore (Sant’Agostino). Eterna sponsalità. Eterna fecondità.

E poi perché Cristo – il Risorto – è lo spazio e insieme il frutto personale dell’incontro sponsale tra l’uomo e la donna come simbolo d’ogni incontro nell’amore tra le creature redente. «Dove sono due (o più) riuniti nel mio nome, ivi sono Io in mezzo ad essi» (Mt 18, 20).

Il matrimonio

Sposandosi tra loro nel reciproco amore – «questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri come Io ho amato voi» (Gv 15, 12) – gli sposi hanno Cristo in mezzo, secondo la promessa annunciata dai profeti: «in mezzo a loro sarà la mia dimora, Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ez 37, 27; cf Ap 21, 3).

Unica condizione è la reciproca sottomissione dell’uno all’altro in Cristo (cf Ef 5, 21), spinta sino alla misura rivelata e donata sulla croce: «nessuno ha amore più grande di chi dona la vita per i suoi amici» (Gv 15, 13; cf Ef 5, 21.25).

L’essere «una sola carne» (cf Gen 2, 24; Mt 19, 5; Ef 5, 31; 1 Cor 6, 16) svela pienamente la dinamica della sua realizzazione nell’amare l’altro, in Cristo, «come il proprio corpo» (Ef 5, 28). Ciò avviene, reciprocamente, donando all’altro, in Cristo, il proprio corpo come «eucaristia» di sé. L’Eucaristia esprime la sponsalità di Cristo in rapporto alla sua chiesa mediante il dono della sua carne (cf Gv 6, 51); così come l’amore sponsale degli sposi, vissuto in Cristo, «eucaristizza» per così dire la loro reciproca donazione.

Amandosi così, nel modo e nella misura di Cristo, essi diventano «amici» (cf Gv 15, 13-15) – di Lui e tra loro, tra loro in Lui –, ogni cosa mettendo in koinonia, espressione realizzata dell’ideale cantato nel Cantico dei Cantici (cf 5, 2.16).

E Cristo in mezzo a loro, facendoli progressivamente Sé nell’amore, fa pienamente realizzabile già nella storia la vocazione ultima della sponsalità: la vita trinitaria sulla terra. Il «saranno una sola carne» della Genesi diventa il «come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola» del vangelo di Giovanni (Gv 17, 21).

La verginità

Ma, proprio per questo, nel momento stesso in cui porta alla massima espressività – umanizzante e divinizzante – il rapporto tra l’uomo e la donna, Gesù lo supera (non sul livello assiologico bensì su quello escatologico), rendendo com-prensibile e com-possibile la verginità per il Regno dei cieli.

Perché la vocazione della persona umana che Egli rivela è «generare Cristo in mezzo» nel rapporto con ogni altra persona «sposandola» sino ad essere «uno» con essa divenendo così pienamente Cristo: Cristo «tutto in tutti» (Col 3, 11) .

È ancora Paolo a dischiudere la realtà di questa «semper nova novitas» che Cristo ha portato: «quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. (...) non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 27-28). È la Chiesa, nel suo mistero.

Ogni persona, in essa, è Chiesa – anima-Chiesa, dicevano i Padri – se, aderendo a Cristo nell’assimilazione della sua parola e dell’Eucaristia, vive l’amore reciproco con gli altri. E così diventa Cristo essa stessa in pienezza.

In reciproca pericoresi

Nella Chiesa vivono dunque – quasi in reciproca pericoresi anch’essa specchio della Trinità – la chiamata al matrimonio e quella alla verginità. Tutte e due cháris, dono di Dio, e diakonia, servizio ai fratelli (cf 1 Cor 7, 7).

Nel matrimonio, il cristiano «rivela» al mondo il disegno di Dio sull’uomo e sulla donna e sulla loro fecondità, nel tempo che ormai è tuffato nell’eterno e di esso vive.

Nella verginità per il Regno dei cieli, il cristiano «rivela» al mondo l’eterno – «sono come angeli di Dio nel cielo» (Mt 22, 30) – che cresce nel tempo sino a trasfigurarlo pienamente in sé.

Come in cielo così in terra.

2. La famiglia è Chiesa,
la Chiesa è famiglia

Di qui la vocazione della famiglia ad essere chiesa e quella della chiesa ad essere famiglia.

Non è una metafora soltanto quella invalsa a partire dal concilio per definire la famiglia «chiesa domestica»3. Né un semplice slogan quello di Giovanni Paolo II che indica nella famiglia «la via della chiesa»4.

Perché la sponsalità tra l’uomo e la donna – vissuta in Cristo – è più che immagine del reciproco amore tra Cristo e la Chiesa. È sacramento: segno e strumento efficace della presenza di Cristo tra i due che li fa Sé e – nella fecondità anche della generazione – esprime la divina maternità della chiesa, sposa di Cristo.

D’altro canto, quale vocazione per la chiesa se non quella d’essere famiglia? Come scrive la Lumen gentium, riprendendo la Scrittura e i Padri5, e come – significativamente – ha ribadito il recente Sinodo dei Vescovi per l’Africa6.

Non solo nel senso di portare tutti i rapporti interpersonali che in essa si vivono alla sostanza della fraternità e sororità reciproca in Cristo. Ma anche nel senso – più profondo – di viverli in quella pienezza che è la sponsalità come amore reciproco.

Se, dunque, la storia della salvezza ci mostra il reciproco specchiarsi della Trinità nella famiglia e della famiglia nella Trinità, ora – nella pienezza dei tempi già avvenuti anche se non ancora consumati – i cristiani sono chiamati a realizzare il reciproco specchiarsi della famiglia nella chiesa e della chiesa nella famiglia.

La famiglia diventa Chiesa

E’ ciò che già chiede Gesù di Nazareth nel suo kerigma, e che la sua morte e risurrezione rendono pienamente possibile attraverso il dono dello Spirito Santo «senza misura». Gesù lo chiede alla famiglia naturale: chiedendole di «perdere» i suoi vincoli naturali per viverli, nuovi, in Cristo: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10, 37-38).

E con ciò fa della famiglia una chiesa.

La Chiesa diventa famiglia

Gesù lo chiede alla chiesa radunata attorno a Sé: chiedendo ai discepoli di diventare – come Lui – e madre e fratello e sorella e sposo e sposa l’uno dell’altro: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12, 49-50); «In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna» (Mc 10, 29-30).

E con ciò fa della chiesa una famiglia.

Il modello vissuto di questo reciproco specchiarsi è la famiglia di Nazareth. Chiesa vera perché Cristo è in mezzo ad essa e fa altri Cristo i suoi membri. Famiglia vera perché vera icona della Trinità.

E non è un caso, penso, che oggi, nel momento in cui le verità di vita sin qui dette emergono nell’autocoscienza della chiesa – in special modo attraverso il magistero del Vaticano II7 e quello di Giovanni Paolo II8 –, la famiglia di Nazareth emerga anche, per dono dello Spirito, quale modello di una Chiesa famiglia e di una famiglia Chiesa.

Il focolare nato per ispirazione di Dio dal cuore di Chiara Lubich quale originale convivenza di vergini e coniugati, laici e presbiteri che s’ispira alla casetta di Nazareth, vivendo programmaticamente il «dove due o più» vuol essere chiesa-famiglia e famiglia-chiesa.

Come ha notato il Papa all’Angelus di domenica 6 marzo ‘94, rivolgendosi ai partecipanti al «Familyfest» di Roma: «le famiglie sono focolari e i focolari di per sé sono famiglie»9.

Al centro del focolare di Nazareth, con Gesù, vi è Maria. In Lei ci è data la pericoresi vissuta della sponsalità tra le creature e di quella con Dio, della verginità e del matrimonio, della chiesa nel tempo e di quella escatologica. È l’amore allo stato puro, senza quasi una forma che lo determini e distingua.

Ma proprio così Ella è la forma di tutti gli amori, la Madre del Bell’Amore. Chiesa.

3. Conseguenze

Veniamo ad alcune conseguenze che questa «ecclesiologia della famiglia», che si specchia e si riassume in Maria, non può non provocare oggi nell’identità e nella prassi della comunità cristiana.

Nazareth: il modello per tutti

La prima e più semplice, ma proprio per questo più radicale, è che la famiglia di Nazareth si staglia come la forma d’ogni tipo di convivenza nella vita della chiesa, perché essa stessa chiesa nella sua forma essenziale: il «dove due o più», la Trinità vissuta in terra.

E dunque ogni famiglia cristiana, ogni presbiterio, ogni comunità di vergini, può riscoprire l’originalità della sua vocazione se si specchia nella casa di Nazareth, e la rivive.

Essendo così se stessa, ognuna di queste tre fondamentali vocazioni nella vita della chiesa, potrà dare alle altre e ricevere da esse ciò che è proprio d’ognuna: rispettivamente, Cristo sposo, Cristo pastore, Cristo povero, casto e obbediente. Arricchendo ciascuna vocazione delle sfumature dell’amore tipiche delle altre e riconducendole, ciascuna, alla sostanza dell’amore sponsale, in Cristo, con Dio e con il prossimo.

«Dove due o più ...»

È la grande intuizione che Igino Giordani ha visto e incarnato a partire dal suo incontro di luce col carisma di Chiara Lubich10.

Ciò significa in particolare, per i presbiteri, esigente conversione spirituale e cammino di riforma nell’impegno pastorale da ogni consapevole o inconsapevole tentazione di clericalismo. Vivere sulla propria pelle – nella propria famiglia che è il presbiterio – la difficile ma sempre nuova e feconda esperienza del «dove due o più».

E così farsi capaci di imparare dai laici chiamati al matrimonio e dai vergini alla vita consacrata, e di offrire loro il proprio specifico e insostituibile ministero. Promuovendo, in particolare, la reciproca comunione, il reciproco apostolato, il reciproco servizio tra le famiglie.

Una piccola, recentissima esperienza. L’altro giorno due signore fanno visita al nostro focolare di sacerdoti. Una ci conosce bene, mentre l’altra viene per la prima volta.

Le accogliamo con semplicità. Ma bastano pochi momenti, perché, vedendo il rapporto che cerchiamo di vivere, il modo con cui la casa è arredata, il clima che si respira, colei che viene per la prima volta esclami: «non sapevo che i sacerdoti potessero essere una famiglia! Per me sacerdote è sempre stato sinonimo di solitudine e tristezza...». E l’altra: «Io ho imparato molto, dalla loro vita, per la mia famiglia».

La via maestra

Sono convinto che è questa via della vita che può far riscoprire la bellezza del vangelo sul matrimonio e la famiglia e offrire gli spazi, gli aiuti e i cammini necessari perché esso sia accolto, compreso e incarnato con gioia.

Non c’è dubbio – come diceva K. Hemmerle – che matrimonio e famiglia rappresentino «il caso serio» dell’antropologia cristiana. L’amore ha la sua verità, e non riconoscerlo significa disintegrare l’amore.

Ma – reciprocamente – solo nell’amore e come amore la verità irradia la sua bellezza (Veritatis splendor) e attira e contagia e si fa storia di Dio nella storia degli uomini.

La pedagogia e la condiscendenza di Dio c’insegnano perciò la via maestra da seguire non solo per l’accompagnamento delle famiglie nella vita cristiana delle nostre comunità, ma anche per l’accoglienza delle molte e diverse «situazioni difficili».

Non dobbiamo mai dimenticare che Gesù, nella sua chenosi e nel suo abbandono, s’è fatto uno con ogni situazione umana. Di tutti e di ciascuno Egli si fa sposo, offrendo la grazia di potersi riconoscere in Lui e di rinascere nel cuore per opera dello Spirito Santo e poi anche – per quanto è possibile – nelle proprie concrete condizioni di vita.

Gesù nel suo abbandono è l’occhio d’amore con cui Dio Padre guarda il mondo. Cogliendo in ogni scacco una chance di salvezza. In ogni crisi l’annuncio di una nuova e più profonda vita.

Ciò vale per il rapporto con ogni persona che mostri (o nasconda) le piaghe di una famiglia crocifissa, ma anche per il discernimento della situazione globale della famiglia nel mondo di oggi.

4. La civiltà dell’amore
e la famiglia umana

Una parola soltanto sul rapporto tra la famiglia e la civiltà dell’amore. L’orizzonte della civiltà dell’amore, infatti, è la dimora della famiglia umana.

«La famiglia – scrive Giovanni Paolo II nella sua Lettera – è il centro e il cuore della civiltà dell’amore» (n. 13).

Non è un caso che oggi si parli con sempre maggiore convinzione – e nonostante tutto – di «famiglia umana»11. Non si tratta più di un’utopia, ma di una libera necessità offerta come sfida al mondo, dell’orizzonte del nostro futuro necessitato ormai dalla logica delle cose.

Trinità - famiglia/chiesa - umanità.

La famiglia-chiesa fa da termine medio tra la Trinità e l’umanità, come società degli uomini presa nel suo complesso.

Sta diventando oggi teologicamente sempre più condiviso, sin quasi a diventare ovvio, che «la Trinità – com’ebbe a dire già nell’800 un grande pensatore russo, N. Fedorov – è il nostro programma sociale».

Ma il programma rischia l’astrattezza e dunque l’inincidenza se non passa per la famiglia rinnovata dal «dove due o più».

La famiglia costituisce – come insegna il Concilio – la «prima e vitale cellula» della società12.

E Giovanni Paolo II lo spiega: «la comunione riguarda la relazione personale tra l’io e il tu. La comunità invece supera questo schema nella direzione di una società, di un noi. La famiglia, comunità di persone, è pertanto la prima società umana»13.

Famiglia come modello della società

La società nel suo complesso deve imparare dalla famiglia a diventare una comunità che esprime e promuove la comunione trinitaria14.

Vi è perciò – a mio avviso – un’autentica intuizione profetica nel messaggio che Chiara Lubich ha inviato al «Familyfest» del 1993, dicendo che «la famiglia può ispirare delle linee per contribuire a cambiare il mondo di domani»15. E abbozzandole in sintesi: dall’economia ai rapporti internazionali, dall’educazione alla promozione della vita all’habitat, dalla ricerca culturale e scientifica alla comunicazione.

Il punto decisivo – sottolinea Chiara Lubich – è che le strutture che regolano queste diverse dimensioni della vita sociale a livello locale e universale, siano umanizzate «in modo che lo spirito di servizio raggiunga quell’intensità, quella spontaneità e quella spinta di amore per la persona che si respira nella famiglia».

Tutto ciò – ripeto – non è utopia. E non solo e non tanto perché l’urgenza della storia spinge in questa direzione.

Utopia – e cioè assenza di posto nel disegno di Dio e nel futuro storico e definitivo dell’umanità – è infatti ciò che Gesù risorto ha superato e vinto. Non ciò che Lui ci propone e, nella novità dello Spirito, ci offre la possibilità di vivere.

La nostra mente e il nostro cuore non possono poggiare sul mondo che più non c’è, ma debbono tuffarsi in quello nuovo che si sprigiona in mezzo a noi dal Risorto. E’ di qui che «lo Spirito e la sposa dicono: ‘Vieni!’» (Ap 22, 17).

Lo dice, nello Spirito, la chiesa-sposa, la chiesa-famiglia in cui, per Cristo in mezzo, le anime e i cuori si sposano sino ad essere «un cuor solo e un’anima sola». La fidanzata tutto dimentica e fissa nel cuore solo l’amato. La sposa reca invece con sé allo sposo la sua dote, così come lo sposo condivide con lei tutti i suoi beni.

La chiesa-sposa deve recare allo sposo, come sua dote, l’umanità, non conquistandola ma accogliendola e lievitandola dal di dentro; così come lo sposo con lei condivide fin d’ora tutto il suo bene, la Trinità, perché la chiesa lo irradi sull’umanità.

Così la chiesa sarà la dimora della Trinità. E l’umanità la famiglia di Dio.

Piero Coda

1)   Per un approfondimento: K. HEMMERLE, Matrimonio e famiglia in una antropologia trinitaria, in: Nuova Umanità, 6(1984), n. 31, 3-31 (in prospettiva fenomenologica); J.S. BOTERO, La famiglia cristiana, immagine della Trinità, in: ID., Per una teologia della famiglia, Borla, Roma 1992, 37-67 (presenza e significato del tema nella tradizione, nel magistero e nella teologia contemporanei); l’intervento di B. FORTE su La famiglia icona della Trinità alla XVII Convocazione nazionale del Rinnovamento nello Spirito (Rimini, aprile ’94).

2)   Come noto, l’intrecciarsi di questi significati emerge con particolare incisività nel profeta Osea (cf. 2,16.22; 4,1.6).

3)   Cf AA 11; LG 11; FC 21.49.

4)   GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle famiglie, 2.

5)   Cf LG 6.

6)   Cf Prop. 8, in: Il Regno - doc., 39(1994), 334.

7)   Cf GS 47 - 52.

8)   Cf, in particolare, la Familiaris consortio e la recente Lettera alle famiglie.

9)   In: Mariapoli, 3/1994, 9.

10) Cf S. COLA, Il capolavoro di Igino Giordani, in: Gen’s, 23 (1993), 165-168.

11) Per una panoramica, cf. i contributi contenuti in Vivens homo, 3(1992), n. 1 e 4(1993), n. 1 su L’unità del genere umano, L’unità della famiglia umana.

12) Cf AA 11.

13) Lettera, n. 7.

14) A proposito della pertinenza anche sociologica di questa prospettiva si cf P. DONATI, La famiglia come relazione sociale, F. Angeli, Milano 1992.

15) Come la famiglia così la società, in: Città Nuova, 37(1993), n. 12, 30-31.