Attualità ecclesiale

 

 

La vita fraterna in comunità

Un documento della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica

 

Questo documento del 2 febbraio '93, rivela l'amore e la stima della Chiesa per la dimensione comunitaria degli Ordini, delle Congregazioni e delle società di vita apostolica, perché «più intenso è l'amore fraterno, maggiore è la credibilità del messaggio annunciato, maggiormente percepibile è il cuore del mistero della Chiesa, sacramento dell'unione degli uomini con Dio e degli uomini tra di loro».

Di fronte agli enormi cambiamenti avvenuti in questi ultimi decenni nella società e ai lodevoli sforzi operati in seno alle comunità religiose per porsi meglio al servizio degli uomini, il documento si propone la finalità di «sorreggere gli sforzi fatti da molte comunità di religiose e religiosi per migliorare la qualità della loro vita fraterna». A questo fine offre «alcuni criteri di discer-nimento, in vista di un autentico rinnovamento evangelico». Non dimentica, però, certi sviluppi discutibili, e per questo «intende inoltre offrire motivi di riflessione per coloro che si sono allontanati dall'ideale comunitario», imprescindibile per chi ha cominciato questo cammino di consacrazione a Dio.

Nell'introduzione il documento parla dello sviluppo teologico e canonico nella Chiesa e degli sviluppi nella società che hanno portato dei cambiamenti nella stessa vita religiosa. Si articola poi in tre capitoli: «il dono della comunione e della comunità»; «la comunità religiosa luogo dove si diventa fratelli»; e «la comunità religiosa luogo e soggetto della missione».

Si comincia, dunque, ricordando che «prima di essere una costruzione umana, la comunità religiosa è un dono dello Spirito». La Chiesa stessa ha una «dimensione misterica e comunionale». La stessa cosa si deve dire della comunità religiosa come «espressione della comunione ecclesiale». Nel documento si evidenzia la «meravigliosa varietà delle famiglie religiose di cui la Chiesa è ricca e che la rendono attrezzata per ogni opera buona e quindi la varietà delle forme di comunità religiose».

Per diventare fratelli e sorelle, come lo segnala il secondo capitolo, si deve rispondere all'esigenza di un «continuo rinnovamento evangelico» per sorreggere il quale vengono date indicazioni utili a proposito di «spiritualità e preghiera comune», «libertà e costruzione della fraternità», «comunicare per crescere insieme», «comunità religiosa e maturazione della persona», prestando attenzione in modo particolare ai problemi riguardanti l'identità.

Occorre valorizzare in particolare due aspetti dinamici, come la dimensione comunitaria dei consigli evangelici e il carisma.

Un discorso a parte merita l'autorità a servizio della comunità, privilegiando perciò le sue dimensioni spirituali, il suo servizio di unità e la sua capacità di prendere decisioni finali. La fraternità allora diventa veramente un segno e insieme uno strumento efficace a servizio della missione in genere e dell'attività apostolica in particolare.

A questo si riferisce il capitolo terzo del documento, dove si ricorda che vi è una «specifica relazione tra i diversi tipi di comunità religiosa e la missione che sono chiamati a svolgere». Un paragrafo molto importante è quello del rapporto dei singoli religiosi e delle comunità religiose con la Chiesa particolare. Qui si fanno delle opportune precisazioni in riferimento alle parrocchie e ai movimenti ecclesiali.

Quanto alle parrocchie il documento ricorda che l'inserimento di una comunità religiosa, anche femminile, nella pastorale parrocchiale «sarà tanto più fruttuoso quanto più la comunità religiosa potrà essere presente con la sua fisionomia carismatica. Tutto ciò può essere di grande vantaggio sia per la comunità religiosa che per la pastorale stessa».

Quanto ai movimenti si constata che, essendo «dotati di vivace spiritualità e di vitalità apostolica, essi hanno attirato l'attenzione di alcuni religiosi che vi hanno partecipato, riportandone talvolta frutti di rinnovamento spirituale, di dedizione apostolica e di risveglio vocazionale. Ma alle volte hanno portato anche divisioni nella comunità religiosa». «C'è da compiere quindi  continua il documento  un discernimento tra movimento e movimento e tra coinvolgimento e coinvolgimento del religioso», perché «la partecipazione a un movimento sarà positiva per il religioso o la religiosa se rafforza la sua specifica identità». Senza dire che «la grande tradizione spirituale  ascetica e mistica  della vita religiosa e dell'istituto può essere utile anche ai giovani movimenti» per un prezioso scambio di doni.

Si prendono poi in considerazione anche alcune situazioni particolari come l'inserimento negli ambienti popolari, le piccole comunità, i religiosi e le religiose che vivono da soli, nei territori di missione, la riorganizzazione delle opere, i religiosi anziani ed infine il nuovo rapporto con i laici.

Essendo in preparazione il Sinodo dei vescovi sulla vita religiosa, il documento può essere visto come un contributo alla preparazione del Sinodo stesso.

E. P.

 

 

 

 

Pontificia Accademia delle Scienze Sociali

Una nuova istituzione a servizio dell’uomo

 

È stata creata da Giovanni Paolo II per promuovere lo studio e il progresso delle scienze sociali, economiche, politiche e giuridiche alla luce della dottrina sociale della Chiesa.

Per ora è composta da 31 accademici scelti tra i maggiori esperti di discipline sociali di 24 paesi dei 5 continenti, senza distinzione di confessione religiosa. Alla presidenza è stato chiamato il prof. Edmond Malinvaud del Collège de France, già presidente dell'Associazione internazionale delle scienze economiche.

Il cardinale Roger Etchegaray, presidente dei Pontifici Consigli «Cor Unum» e «Justitia et Pax», ha così illustrato il compito della nuova Accademia.

«La Chiesa  ha detto  non  rivendica alcuna competenza propria in materia sociale, ma la sua secolare esperienza dell'uomo, approfondita  alla  luce del vangelo, l'autorizza a praticare un  libero dialogo con esperti  delle diverse discipline  sociali.  D'altronde, essa  ha  contribuito a scoprire e  ad  arricchire dei concetti oggi entrati  nel pensiero sociale, quali  quelli di  bene  comune, destinazione universale dei beni, sviluppo dei  popoli,  libertà religiosa.

L'attributo “umano”associato alla nozione di economia, di lavoro, o la congiunzione di idee come “giustizia e carità”, “essere e avere”, fecondano ricerche e realizzazioni sociali che hanno cura  di servire  l'uomo  in tutte le sue dimensioni, l'uomo colto completamente nella sua unità vivente».

Il Papa, riallacciandosi a tutto il ricco patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, vuole che si compia ora un ulteriore passo in avanti.

Infatti «l'Accademia  continua il cardinale  ha l'ambizione di affrontare alcune  sfide  della società moderna: vuole essere un grande  centro  di  dialogo interdisciplinare sui problemi sempre più complessi che influiscono sull'uomo. Giovanni  Paolo  II sottolinea che tale dialogo, “già coltivato  in  passato, deve essere ora riformulato<170>. Ecco  un  compito  pressante che  il  Papa affida  a dei sapienti venuti da tutti gli orizzonti della riflessione e dell'azione in campo sociale».

E. P.

 

 

Nuovo consiglio ecumenico di Chiese
Il primo in Italia

 

Dice il recente Direttorio ecumenico della Chiesa cattolica: «I consigli di Chiese e i consigli cristiani sono le più stabili tra le strutture costituite per promuovere l'unità e la collaborazione ecumenica. Un consiglio di Chiese è composto di Chiese ed è responsabile nei confronti delle Chiese che lo formano. Un consiglio cristiano è composto, oltre che di Chiese, di altre organizzazioni e gruppi cristiani». E più avanti conclude: «essendo i consigli di Chiese e i consigli cristiani tra le forme più importanti della collaborazione ecumenica, ci si deve rallegrare dei contatti sempre più frequenti che la Chiesa cattolica stabilisce con questi consigli in diverse parti del mondo» (n. 166).

Infatti, mentre per diversi motivi la Chiesa cattolica non fa parte del Consiglio ecumenico delle chiese con sede a Ginevra (anche se partecipa ed ha rapporti con esso a diversi livelli), in ambito locale fa parte di una quarantina di Consigli nazionali e di tanti consigli diocesani.

L'ultimo di essi è il «Consiglio locale delle chiese cristiane» appena nato a Venezia, del quale fanno parte cattolici, anglicani, battisti, luterani, metodisti, ortodossi, valdesi. È il primo nato in Italia, e le sue radici si fanno risalire agli anni '50, quando vide la luce un segretariato per le attività ecumeniche mentre era patriarca a Venezia il futuro Giovanni XXIII. Da allora la città lagunare è stata luogo di contatti, conoscenza reciproca, attività, che sono sbocciate in questa nuova realtà.

Il Consiglio sarà regolato da uno statuto  per il momento della durata di un anno , il cui testo è stato inviato alle rispettive Chiese per l'approvazione. È da rilevare che tutte le Chiese che ne fanno parte hanno una posizione paritetica, indipendentemente dalla loro consistenza numerica e le decisioni dovranno essere prese all'unanimità.

Come ha sottolineato il sottosegretario del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, E. Fortino, in una recente intervista, l'importanza di questi organismi di comunione deriva dal fatto che costituiscono una consultazione permanente dei cristiani in un dato luogo. Ciò facilita la convivenza e aiuta a superare le divergenze, offrendo risposte concordate di fronte ai vari problemi che si pongono in determinate situazioni. In questo modo i Consigli diventano contemporaneamente scuole di formazione e di azione ecumenica.

E. C.

 

 

 

Convegno ebraico-cristiano a Gerusalemme

I capi religiosi di fronte alle sfide etiche della società secolare

 

Questo il tema di un importante convegno ebraico-cristiano svoltosi a Gerusalemme nei primi giorni di febbraio di quest'anno. Vi hanno preso parte personalità religiose, teologi, scienziati, sia ebrei che cristiani (cattolici, ortodossi, anglicani, luterani), circa 500 persone provenienti da 90 Paesi. Da parte cattolica c'erano, tra gli altri, i cardinali Ratzinger e Martini. Quest'ultimo è stato uno dei tre relatori principali della prima sessione plenaria insieme al rabbino francese René Samuel Sirat, presidente della Conferenza europea dei rabbini, e alla reverenda Lois Wilson, ex-presidente del Consiglio ecumenico delle Chiese.

Promotore di questo eccezionale incontro è stato il rabbino David Rosen, protagonista del dialogo ebraico-cristiano, membro della Commissione bilaterale che ha preparato la normalizzazione dei rapporti diplomatici fra la Santa Sede e lo Stato d'Israele. Gli organizzatori del convegno sono stati Abraham Fried-Frizzi, presidente del centro ebraico Bamot per gli studi sociali e culturali, e padre Thomas Stransky, rettore dell'istituto ecumenico cattolico di Tantur, presso Betlemme.

Significativi gli interventi augurali di Teddy Kollek, sindaco di Gerusalemme per 28 anni ed emblematico rappresentante della coesistenza nella città santa fra ebrei, cristiani e musulmani, e della canadese Michelle Heiden, docente nella British Columbia, che ha delineato la drammatica tensione tra morale e scienza nella ricerca genetica.

Il cardinale Martini nella sua relazione introduttiva ha ricordato che compito di chi è pastore e servitore più che leader, è di rappresentare le profondi radici della rivelazione di Dio, dando un volto umano ai problemi contemporanei e approfondendo la sua missione nella comunione con Dio e nella dedizione al prossimo. I suoi interventi all'interno e all'esterno del mondo religioso devono essere sempre illuminati dal trascendente, dalla preoccupazione di annunciare la salvezza che ci viene da Dio promuovendo così la speranza e l'amore fra gli uomini.

Di grande apertura al dialogo ebraico-cristiano e di attenzione al mondo islamico, è stata la relazione del rabbino Sirat, mentre quella della signora Lois Wilson ha approfondito alcuni temi di attualità, come la violenza, la condizione femminile, la pace.

Molto apprezzato anche l'intervento del cardinale Ratzinger. Secondo lui, dopo Auschwitz, ebrei e cristiani dovrebbero accettarsi gli uni gli altri in un profondo sentimento di riconciliazione e, reciprocamente riconciliati, divenire una forza di pace nel e per il mondo attraverso la loro testimonianza di Dio, che non può essere adorato se non a partire dall'unità dell'amore di Dio e del prossimo.

Anche le due relazioni di Marvin Wilson, studioso protestante statunitense, e del rabbino americano Irving Greenberg sono state improntate alla riconciliazione e al dialogo.

Tanti segni positivi, dunque, da questa terra santa, culla delle tre grandi religioni monoteiste, per dimenticare antiche rivalità e per alimentare nuove speranze di pace.

 

A.   M.

 

La Bibbia oggi nel paese della Bibbia

Una lettera del patriarca latino di Gerusalemme

 

«Una speranza nuova è appena sorta nella storia del nostro Paese e ha aperto nuove prospettive di pace e di riconciliazione tra i nostri due popoli, ebraico e palestinese, e con tutto il mondo arabo». Esordisce così la lettera che il patriarca latino di Gerusalemme, M. Sabbah, ha indirizzato ai suoi fedeli in questo momento delicato e importante della storia del Medio Oriente.

Nella comunità cristiana della Palestina sono sorte in questi anni delle serie domande sull'interpretazione della Bibbia, soprattutto dell'Antico Testamento, dovute al fatto che sia nella comunità ebraica che in quella cristiana non sono mancate interpretazioni fondamentalistiche che hanno contribuito ad esacerbare gli animi.

In questa lettera pastorale il patriarca, con un linguaggio accessibile a tutti, risponde a tre interrogativi essenziali:

a) Qual è il rapporto tra l'Antico e il Nuovo Testamento?

b) Come spiegare, nella Bibbia, la violenza attribuita a Dio?

c) Che valore hanno, nei rapporti attuali tra palestinesi e israeliani, le promesse, il dono della terra, l'elezione e l'alleanza? È possibile che il Dio giusto e misericordioso possa ordinare l'ingiustizia o l'oppressione nei riguardi di un altro popolo per privilegiare il popolo che si è scelto?».

Non è possibile trascrivere qui tutte le risposte e neanche riassumerle; riportiamo uno stralcio della lettera che ci sembra particolarmente interessante.

«La domanda di fondo posta dal palestinese cristiano, ma anche da ogni credente nella Bibbia, è questa: la Bibbia come parola di Dio, conferisce oggi al popolo ebraico il diritto di appropriarsi della terra e di spossessarne il popolo palestinese?

L'ebreo credente, così come il popolo e lo stato, si trova di fronte a un dilemma. Da una parte questa terra è la sua terra santa: Dio l'ha promessa ad Abramo e alla sua discendenza. In questa terra il popolo ebraico ritrova oggi la sua sicurezza di fronte alle nazioni che lo hanno perseguitato nella diaspora. Per esso Dio, stato e terra costituiscono il triangolo della sua sicurezza e della sua tranquillità.

D'altra parte, però, questa stessa terra appartiene anche da secoli a un altro popolo, il popolo palestinese. Dai tempi della Bibbia essa è sempre stata anche la terra di un altro popolo che vi ha sempre abitato accanto al popolo ebraico.

Inoltre, essa è la culla e il luogo dove si sono svolti gli avvenimenti fondamentali del cristianesimo. Essa è la sua terra santa per eccellenza. Anche per l'Islam, essa è terra santa. Quindi: è terra santa per tutti i credenti, ebrei, cristiani e musulmani. Per  ciascuna religione è terra santa per diversi motivi. Un motivo comune a tutti, anche  se  diversamente  interpretato secondo le tradizioni proprie a ogni religione, è  il riferimento allo stesso antenato Abramo e alla fede in uno stesso Dio uno e unico.

Due popoli hanno dunque nei confronti di questa terra dei diritti politici, e tre religioni vi hanno la loro storia religiosa, e tutti e tre sono la discendenza fisica o spirituale d'Abramo a cui Dio ha promesso la Terra».

Il patriarca ricorda che la Bibbia non può essere sottomessa a interpretazioni politiche. Le autorità politiche si devono lasciar dirigere dalle norme del diritto internazionale, mentre i responsabili religiosi devono riaffermare che gli abitanti di questa terra santa «sono figli dello stesso padre Abramo, che li chiama a una riconciliazione fatta nella giustizia richiesta da questa fede nello stesso padre».

Liberare dunque, la Bibbia dalle manipolazioni politiche per accettarla quale parola di Dio che ci chiama a convivere nella fraternità.

«La parola di Dio, infatti, deve essere motivo di avvicinamento tra i credenti e fonte di grazia che li stimoli a partecipare all'edificazione del mondo e alla sua santificazione operata dalla stessa parola di Dio».

La lettera si conclude con questa esortazione: «Domandiamo a Dio che ci renda capaci, con la forza della Bibbia, di contribuire al nuovo cammino verso la pace, la giustizia e la riconciliazione che è iniziato nella nostra terra».

 

A. M.

 

 

Un’etica per tutti

Proposta dalle religioni

 

Il «Parlamento delle Religioni mondiali» (tenutosi a Chicago nel settembre scorso), ha elaborato un interessante documento su un'«etica globale» da proporre a tutta l'umanità, firmato da 250 leaders religiosi di tutto il mondo, come il Dalai Lama, i rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese e il cardinal J. Bernardin.

La proposta si basa sul fatto che le religioni possiedono un insieme comune di valori basilari, che possono essere condivisi anche dai non credenti e costituire la base per un'etica accettata da tutti.

Il documento non si nasconde le difficoltà che attraversa il mondo attuale a tutti i livelli. Ne trascriviamo soltanto un brano: «Il nostro mondo sta facendo l'esperienza di una crisi radicale: una crisi globale in campo economico, ecologico, politico. La mancanza di una visione lungimirante, il groviglio dei problemi irrisolti, la paralisi politica, una leaderschip politica mediocre con scarso intuito e scarsa preveggenza, ed in generale un senso troppo esiguo del bene comune, sono evidenti dappertutto: troppe risposte vecchie a sfide nuove».

Si fa anche una lucida autocritica delle stesse religioni, con affermazioni come le seguenti: «Ripetutamente vediamo che leaders e membri di religioni incitano all'aggressione, al fanatismo, all'odio ed alla xenofobia, e addirittura ispirano e legittimano conflitti violenti e sanguinosi. La religione è spesso strumentalizzata per fini di potere puramente politico, compresa la guerra. Ne siamo disgustati. Noi condanniamo questi influssi malefici e dichiariamo che ciò non deve accadere».

Quali sono però quei valori vincolanti, quelle norme irrinunciabili e attitudini di fondo, che tutte le religioni approvano e che possono essere accettati e praticabili da tutte le donne e gli uomini di buona volontà?

Il principio di base, trasmesso da migliaia di anni dalle tradizioni religiose ed etiche dell'umanità, è «non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te». O in termini positivi: «fa agli altri quello che vuoi che sia fatto a te». Da esso emergono quattro grandi linee-guida per il comportamento, di cui sintetizziamo qualche concetto (ma tutto il documento merita di essere letto):

1. Impegno per una cultura di non-violenza e di rispetto per la vita. La direttiva «non uccidere», o in positivo «abbi rispetto per la vita», significa che la violenza non può essere un mezzo per eliminare le differenze con gli altri. Si può invece soltanto creare una cultura della non-violenza. Una persona umana è infinitamente preziosa e deve essere protetta ad ogni costo. Ma allo stesso modo la vita degli animali e delle piante che abitano questo pianeta insieme con noi, richiede protezione, conservazione e cura. Dobbiamo sentirci responsabili per gli altri e pronti ad aiutarli. Non dobbiamo mai essere spietati e brutali.

2. Impegno per una cultura di solidarietà e per un giusto ordine economico. Dappertutto (ma soprattutto nel Secondo Mondo in dissolvimento e nel Terzo Mondo) troviamo fame, deficienze, bisogno. Non solo gli individui, ma specialmente le istituzioni e le strutture ingiuste sono responsabili di queste tragedie. La direttiva «non rubare», o in positivo «ripartisci onestamente ed equamente», eviterebbe ciò che si vede ovunque: dove il potere e la ricchezza sono accumulati senza pietà, i sentimenti d'invidia, risentimento, odio mortale e ribellione nascono inevitabilmente in chi è svantaggiato ed emarginato. Ciò conduce a un circolo vizioso di violenza. Non c'è pace globale senza giustizia globale! La proprietà comporta un obbligo, e il suo uso deve servire nello stesso tempo al bene comune. Dobbiamo: utilizzare il potere economico e politico al servizio dell'umanità, sviluppare uno spirito di compassione per quelli che soffrono, coltivare il reciproco rispetto e considerazione, in un ragionevole equilibrio di interessi al posto delle lotte per la competizione, un senso di moderazione e sobrietà invece di un'insaziabile avidità.

3. Impegno per una cultura della tolleranza e una vita di sincerità. Dappertutto nel mondo troviamo menzogne, imbrogli, ipocrisia, demagogia, in politici e uomini d'affari, nei mezzi di comunicazione, in studiosi e ricercatori, a causa di interessi economici, politici e ideologici. Anche nelle religioni ci sono coloro che con arroganza liquidano le altre religioni come di poco valore e predicano fanatismo e intolleranza. Il principio «non mentire», o in positivo «parla ed agisci con sincerità», significa tra l'altro che dobbiamo: non confondere libertà con arbitrio e pluralismo con indifferenza per la verità, coltivare la sincerità in tutte le nostre relazioni invece che la disonestà della dissimulazione e l'opportunismo, cercare costantemente la verità e l'incorruttibile sincerità al posto di diffondere mezze verità ideologiche o di parte, rimanere coerenti e degni di fiducia.

4. Impegno per una cultura di uguali diritti e relazioni tra uomini e donne. La direttiva «non commettere immoralità sessuale», o in termini positivi «rispettatevi ed amatevi reciprocamente», significa che nessuno ha il diritto di ridurre un altro a mero oggetto sessuale. È necessario condannare lo sfruttamento e la discriminazione sessuale come una delle peggiori forme della degradazione umana. Abbiamo il dovere di opporci al dominio di un sesso sull'altro persino in nome di convinzioni religiose. La sessualità è una forza positiva, ma perché sia degna dell'essere umano i partner devono assumere la responsabilità di avere cura della reciproca felicità, non cercare lo sfruttamento o il dominio/possesso ma l'amore, l'uguaglianza, la lealtà, la fedeltà. Soltanto ciò che è stato già sperimentato nelle relazioni personali e familiari può essere praticato a livello di nazioni e di religioni.

 

Come concretizzare tutto ciò? Quale può essere il contributo delle religioni di fronte a queste realtà? Il documento riconosce che «le religioni non possono risolvere i problemi ambientali, economici, politici e sociali della Terra. Tuttavia esse possono fare ciò che non può essere conseguito dai piani economici, dai programmi politici o dai regolamenti giuridici da soli: un cambiamento nell'orientamento interno, nella mentalità, nel “cuore”della gente. Il genere umano ha bisogno urgentemente di riforme sociali ed ecologiche, ma ha bisogno altrettanto urgentemente di un rinnovamento spirituale... Come persone animate da una religiosità ed una spiritualità noi basiamo le nostre vite sulle Realtà Ultime e riguardo a ciò troviamo la forza spirituale e la speranza nella fiducia, nella preghiera e nella meditazione, nella parola o nel silenzio. Abbiamo una speciale responsabilità per il bene dell'umanità. Non ci consideriamo migliori delle altre donne e degli altri uomini, ma confidiamo che l'antica saggezza delle nostre religioni possa segnare la strada per il futuro... Una visione si basa su speranze, finalità, ideali, norme. Nonostante i loro frequenti abusi e fallimenti, sono le comunità di fede ad aver la responsabilità di mostrare che tali speranze, ideali e norme possono essere custoditi, concretizzati e vissuti.»

La proposta conclude con tre suggerimenti concreti e realistici: 1) Su alcune questioni etiche discusse (dalla bioetica all'etica sessuale, dall'etica scientifica a quella economica e politica) un consenso universale sarà difficile da raggiungere. Tuttavia anche per quelle questioni controverse occorre raggiungere soluzioni basate in quei principi fondamentali che tutti possono accettare. 2) In diversi campi una nuova coscienza di responsabilità etica è già emersa: sarebbe possibile che professioni come quelle degli scienziati, uomini d'affari, giornalisti, politici, aggiornassero i loro codici deontologici. 3) Si esorta le varie comunità di fede a formulare le loro etiche specifiche come contributo ad un'etica accettabile da tutta l'umanità.

Nell'Assemblea mondiale della Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace (WCRP), che si terrà a Riva del Garda (Italia) nel novembre prossimo, si riprenderà ancora questo documento per studiare il contributo che tutte le religioni possono dare nella direzione di quest'«etica globale».

E. C.

 

 

 

Amore che si fa storia nel cuore sell’esperienza cristiana

 

L'agápe è la «categoria sintetica» che costituisce la chiave di lettura del mistero cristiano e della storia dell'umanità nel suo cammino. Essa quindi dev'essere al centro di ogni riflessione teologica e di ogni attuazione storica del messaggio evangelico: questa l'idea che suscita la lettura dell'ultimo saggio di Piero Coda, L'agápe come grazia e libertà.

Per fondare questa tesi, cercando di far entrare il lettore in questa dinamica, l'autore percorre un preciso itinerario. Parte da un quadro storico, poi approfondisce l'esperienza biblica dell'amore di Dio e del prossimo nei suoi vari aspetti, esaminando successivamente (capp. 2-5) l'Antico Testamento, la prima lettera di Giovanni, il kérigma e la prassi del Gesù storico, la rilettura di Paolo e Giovanni e degli Atti. Conclude infine con un capitolo sostanzioso che considera la sfida attuale dell'agápe come «cuore della comunione e della missione della Chiesa», offrendo delle riflessioni preziose sull'identità della Chiesa e sulla nuova evangelizzazione.

Nei suoi rapporti attraverso la storia con l'umanità, Dio si mostra come Egli è, Amore-Agápe. Questa in sintesi l'esperienza del popolo di Israele. Questo l'evento di Cristo che esprime e comunica l'Agápe del Padre. Agápe diventa il «nome» di Dio (cf 1 Gv): del suo agire nella storia e, allo stesso tempo, essendo questo agire manifestazione del suo essere intimo  anche dell'Essere di Dio in se stesso. Ecco un circolo ermeneutico che sottostà a tutta la trattazione.

L'amore umano  penetrato sempre più dall'amore divino  dà la «terminologia» per poter esprimere l'amore di Dio. O con le parole dell'autore: «Da un lato la rivelazione dell'amore di Dio diventa progressivamente radice e fondamento dell'autentico rapporto dell'amore tra gli uomini, dilatando gli spazi e le prospettive; mentre, dall'altro, l'amore umano nella sua massima intensità diventa “grammatica” esistenziale per esprimere l'inaudita profondità e reciprocità tra Dio e il suo popolo» (p. 47).

L'assolutezza dell'amore di Dio nel kérigma di Gesù viene dischiuso come un rapporto di figliolanza con un Padre, a cui si può confidare tutta la propria esistenza. È però un Dio che prende sul serio l'agápe che si attualizza nella storia e nell'esperienza umana. «Gesù annuncia un Dio che fa rischiare, che vuole una risposta libera, adulta e matura di amore che passa attraverso l'assunzione in prima persona di responsabilità, nelle trame variegate e anche pericolose della storia» (p. 85). Un Dio cioè che non si fa strumentalizzare per il bisogno di una falsa sicurezza, che non è «paternalistico», ma che dà una legge di libertà. L'amore è chiamato a passare attraverso la prova, la fedeltà nella persecuzione e perfino l'esperienza dell'abbandono. Proprio come è stato per Gesù stesso. Ma è così che Dio fa crescere la capacità di un dono-di-sé maturo, sino a dare la vita.

La stessa nuova evangelizzazione, di cui tanto si parla oggi, non può essere altro che un'espressione di quell'agápe che diventa evento concreto nella storia. L'agápe, dal quale nasce la Chiesa, nel suo essere non è chiusura, ma è in sé comunicazione. «Mentre fonde in comunione e unità, l'agápe spinge alla missione, perché è di per sé apertura e traboccamento» (p. 142). Ed è la propria esperienza che viene testimoniata, annunciata e mostrata nel concreto modo di vivere. «Se Cristo “racconta”l'agápe del Padre nella forza dello Spirito, la comunità ecclesiale nella forza del medesimo Spirito “racconta”l'evento agápe del Cristo per farlo diventare in pienezza storia degli uomini» (p. 139). Avendo come presupposto e modello il rapporto d'amore fra il Padre e il Figlio, la reciprocità vissuta tra i discepoli è il segno della credibilità della fede cristiana: «Vides Trinitatem, si caritatem vides» (s. Agostino).

Ciò ha delle enormi conseguenze anche sociali. Trova qui il suo pieno significato l'opzione preferenziale per i poveri, perché la loro esistenza testimonia appunto la mancanza di rapporti trinitari fra gli esseri umani. L'autore, in questa chiave, fa delle osservazioni profonde e per certi versi originali su una comprensione della Chiesa come Chiesa dei poveri, come luogo dove i poveri stessi hanno voce, diventano protagonisti nella trasformazione del mondo in una società più a misura d'uomo, più d'accordo con il progetto di Dio. Da qui anche  a partire dalla prassi di Gesù e della comunità primitiva  la necessità di un'utopia che si fa storia nella forza dello Spirito e nella concretezza delle strutture di comunione.

Nel saggio di Coda troviamo in sintesi un'ispirazione profonda che può illuminare sia il campo della riflessione teologica, sia la pastorale e l'impegno sociale, affinché la Chiesa possa vivere la sua vocazione a diventare, in ogni sua espressione, immagine sempre più trasparente dell'agápe di Dio.

Bart Benats

 

 

PIERO CODA, L'agápe come grazia e libertà. Alla radice della teologia e prassi dei cristiani, Città Nuova ed.,  Roma  1994,  pp.  191, L. 22.000.