Flash di vita

 

Questa rubrica, aperta alla collaborazione dei nostri lettori, riporta alcune brevi esperienze che mettono in luce la bellezza di una vita ispirata al vangelo nella normalità del quotidiano.

 

 

Dall'Armata Rossa all'altare

 

Sono nato in Russia, dove si trovavano i miei genitori a causa della guerra. Lì non c'era né chiesa né prete e quindi non sono stato battezzato. Il battesimo l'ho ricevuto l'anno dopo, quando siamo ritornati in Lituania. Mia nonna era credente e pregava spesso; mia mamma, pur battezzata, non era affatto praticante; mio padre era contrario alla Chiesa, specialmente ai preti.

Quando studiavo all'Istituto Tecnico ho subito l'influenza della propaganda atea attraverso alcuni film e mi sembrava di allontanarmi da quella fede in Dio che vedevo nella nonna.

Prima di partire per il servizio militare nell'armata sovietica la nonna mi ha dato dieci rubli dicendomi: «Ho fatto a Dio la promessa di darti dieci rubli, se tu avessi imparato le preghiere». Alla mia risposta che io non avevo imparato le preghiere, ha precisato: «Non importa, prendili lo stesso, perché io devo mantenere fede alla mia promessa». Dopo poco tempo, mentre facevo il servizio militare, la nonna è morta. In quel periodo anche la mia mamma si è ammalata gravemente ed è morta.

Ritornato a casa mi sono ritrovato col papà, col quale non c'era un rapporto profondo, e con i miei due fratelli più piccoli. Volevo studiare Diritto a Vilnius, ma non era possibile. Allora ho accettato la proposta di andare in Siberia con un gruppo di lavoratori. Pensavo che in questo modo avrei potuto guadagnare abbastanza per poi pagarmi gli studi che volevo fare. Sono rimasto in Siberia per tre anni e poi ho fatto un viaggio attraverso tutta la Russia prima di tornare in Lituania.

Dentro di me c'erano tante domande e sono entrato in una crisi profonda. Tutto quello che avevo fatto mi sembrava inutile e mi sentivo profondamente insoddisfatto. Capisco ora che Dio mi accompagnava e voleva attirarmi a sé. Mi sono capitati fatti imprevedibili.

A Mosca un poliziotto mi ha donato, di nascosto e con mia grande sorpresa, un quadretto che raffigurava Gesù. Un pittore, che ho incontrato nella mia città per raccontargli del mio viaggio, mi ha proposto di leggere la Bibbia insieme.

Un giorno, preoccupato perché non sapevo se mi avessero accettato all'Università, sono entrato in una chiesa e lì ho fatto per la prima volta l'esperienza di parlare con Dio come si parla ad una persona viva. Il fatto che poi mi hanno accettato all'Università è stata per me una conferma che Dio c'era e interveniva veramente nella mia vita.

Mentre cresceva il desiderio di approfondire questo rapporto con lui, ho incontrato una pittrice che mi ha parlato del Movimento dei focolari.

In quel periodo ho anche incontrato un sacerdote che era rettore del seminario clandestino in Lituania. Dopo aver parlato con lui mi sono chiesto cosa Dio volesse da me e mi è passata per la mente anche l'idea che mi chiamasse al sacerdozio. Mi sembrava, però, una cosa troppo grande per me che mi ero appena convertito. Ho cominciato ad andare in chiesa tutti i giorni e io stesso mi meravigliavo di questo fatto, perché fino a poco tempo prima pensavo che andare in chiesa tutti i giorni era un'esagerazione.

Un giorno quella pittrice cattolica che avevo conosciuto, parlandomi dei focolarini mi ha detto: «Loro sono uomini che amano sempre tutti, anche i russi e i poliziotti». Sorpreso per questa affermazione, è nato in me il desiderio di conoscerli. Ho partecipato ad una Mariapoli, dove c'erano una ventina di persone. Ascoltandole e vedendo come vivevano, ho cominciato a capire che dovevo anch'io fare tutto per Gesù. Nell'amare tutti, sempre e per primo, ho trovato un programma per la mia vita. Il mio rapporto con Gesù è cresciuto ed egli si è manifestato attraverso molte circostanze, facendomi capire che mi voleva sacerdote. E mi ha anche spianato la strada perché fossi accettato in seminario. In tre anni ho potuto fare tutti gli studi e il 30 maggio del '93 sono stato ordinato sacerdote.

P. K.

 

 

 

Un seminario per formare alla comunione

 

Quando il vescovo della mia diocesi in Venezuela mi ha chiesto di andare in seminario come rettore, mi sono spaventato per la responsabilità che mi attendeva, ma ho preso coraggio ricordandomi che non dovevo puntare sulle mie qualità, ma sui doni di Dio, che arrivano se si cerca di fare la sua volontà.

Non sono andato con dei programmi speciali in testa, poiché ero convinto che la prima cosa da fare, la più importante, era amare evangelicamente, ad uno ad uno, i prossimi che avrei trovato lì. Sapevo tra l'altro che quello era il migliore presupposto per capire la situazione che avrei trovato in seminario, cogliere le giuste esigenze dei seminaristi, trovare la luce per muovermi bene.

 

Ho cercato di non arrivare come «superiore» che vuole imporre qualcosa, ma di ascoltare profondamente ognuno, dal vice-rettore all'ultimo degli studenti. E così è nato il programma dell'anno. Eravamo in 31, di cui 2 sacerdoti e 29 seminaristi.

Ho cercato di vivere come uno di loro, comunicando con semplicità la mia vita, la scelta quotidiana di Dio e come cercavo d'incarnare il vangelo. Questo ci ha aiutato già dai primi mesi a mettere Dio al primo posto, stabilendo con lui un rapporto profondo che facesse di noi «uomini di Dio». Ho proposto di vivere il reciproco amore fraterno, stando attenti alle gioie e dolori degli altri, rispettando e valorizzando i doni di ciascuno.

I seminaristi non solo hanno accettato di «stare al gioco», ma si sono sentiti affascinati da questo stile di vita. Gli atteggiamenti pian piano sono cambiati. Il seminario da istituzione è diventato famiglia dove tutti siamo in certo modo padri, madri, fratelli, figli. Non solo si è trasformato il clima tra i seminaristi, ma anche lo stesso rapporto con le loro famiglie, superando alcuni attaccamenti che sussistevano ancora. Abbiamo dato inizio così a un processo di formazione collettivo in cui ero coinvolto anch'io.

È cominciata una comunione di beni materiali e spirituali. Hanno imparato a parlare tra di loro di ciò che Dio opera nella vita di ciascuno. Anche ad aiutarsi economicamente mettendo in comune più facilmente le cose personali. Al lavoro si sono sentiti responsabili gli uni degli altri, aiutando chi è più lento. Avendo visto il bisogno di dotare la cappella di quanto mancava, hanno organizzato una lotteria.

Le iniziative di evangelizzazione fuori del seminario le abbiamo impostate per équipes. Ciò ha aiutato non solo un buon inserimento nella realtà diocesana, ma è servito anche a trovare un nuovo modo di evangelizzare vivendo per primi la Parola. Quando è arrivato il documento di Santo Domingo che parlava della nuova evangelizzazione e metteva al centro l'evangelizzarsi prima di annunciare, abbiamo sentito tanta gioia, perché ci sentivamo su quella strada. Avvertiamo che questa è un'esperienza di base fondamentale per rispondere alle esigenze della Chiesa verso coloro che si preparano al ministero, e alle nuove sfide del mondo e del nostro Continente.

La vita spirituale l'abbiamo centrata sulla necessità di essere disposti a fare sempre la volontà di Dio, imparando a scoprirla dentro di noi e in tutti quei canali e circostanze attraverso cui si manifesta. Le meditazioni del mattino sono l'occasione per vedere come abbiamo vissuto la Parola. I colloqui mensili personali mi servono per vedere come va la formazione di ognuno e per cercare di aiutarli a fare dei passi o a chiarire idee. Le motivazioni vocazionali si sono approfondite per tanti, cosicché stanno imparando ad esprimersi nella libertà e nella verità, superando le paure e vivendo nella gioia. Questo modo di vivere ha colpito tante persone, adulti e giovani che frequentano il seminario; in qualcuno è nata la vocazione al ministero, in altri il desiderio di aiutarci materialmente nelle nostre necessità.

È logico che essendo Dio anche bellezza, essa dovesse rispecchiarsi in tutta la nostra vita. Spesso nei seminari non c'è la mentalità di formare in questo senso ed, essendo tutti uomini, normalmente si trascura parecchio questo aspetto. Così succedeva anche a noi. Mentre, com'è stato detto, già solo dalle sagrestie e dalle case parrocchiali si dovrebbe capire che tipo di vita vivono i preti. Anche le mura, le case, nella loro semplicità ed armonia, dovrebbero attrarre le persone e parlare di Dio. Abbiamo capito che dovevamo cominciare da noi stessi, anche nel modo di vestirci, ed è stata una vera scuola imparare a mantenere in ordine i letti, le scrivanie, tutti gli ambienti del seminario. Per vivere bene questo aspetto abbiamo visto che dovevamo fare dei programmi, in modo da distribuirci i compiti e prenderci ognuno la nostra responsabilità.

La salute di tanti è migliorata. Ci siamo messi d'accordo sul tipo di cibo da consumare. Lo sport l'abbiamo cominciato a fare insieme ed è servito non solo alla salute ma anche per conoscerci più da vicino.

Lo studio non l'abbiamo preso come la parte più importante ma come uno degli aspetti della nostra vita. Soprattutto cerchiamo che non ci sia un abisso tra ciò che studiamo e ciò che viviamo. Quanto è vero che il detto evangelico «chi non ama non conosce Dio» dovrebbe essere il motto dei teologi! Tra l'altro stiamo imparando a studiare insieme. Io per primo ho voluto stare con loro, mettendo a frutto la mia esperienza di studio e di insegnamento, per aiutarli a superare delle difficoltà. È stata un'occasione perché si consolidasse l'unità tra tutti.

Il dialogo è cresciuto. Questo ha reso possibile che la fiducia reciproca aumentasse e i seminaristi potessero comunicare ogni difficoltà.

Nel colloquio di fine anno ognuno diceva com'era andato il loro cammino formativo. L'opinione unanime era che si doveva andare avanti su questa linea, perché questo modo di agire li faceva più coscienti della propria vita e più responsabili dei cambiamenti che era necessario maturare e attuare.

Ogni mese abbiamo fatto una «revisione di vita»: ognuno diceva com'era andata per lui e cosa poteva migliorare, e poi ogni compagno diceva il suo pensiero su di lui. Questo faceva sì che crescesse la carità reciproca, e lo si avvertiva nelle concrete circostanze di ogni giorno: nel riuscire a perdonarsi quando c'era stata qualche difficoltà, nell'ascoltare la musica che piaceva all'altro, nello stare attenti a qualcuno che era ammalato, o nel mettere da parte il pranzo di chi arrivava in ritardo.

Un termometro per noi di come vanno le cose lo costituiscono i sacerdoti che vengono a passare la giornata con noi, in occasione del loro compleanno o di una festa del seminario o semplicemente per stare un po' insieme e riposarsi. Ci dà tanta gioia quando li vediamo a loro agio, felici. Diversi di loro ci hanno detto che questi contatti con il seminario hanno rianimato la loro vocazione e il loro ministero.

Mi accorgo che anche per me questa è una tappa importante nella vita, dovendo uscire continuamente dal mio individualismo ed essere a disposizione completa degli altri.

N. R.