Una pastorale familiare che cerca di rispondere alle esigenze
delle nuove generazioni

 

Per un progetto
di famiglia comunionale

 

di Mauro Bartolini

 

 

Nel numero 6/1993 di Gen's furono sviluppate delle considerazioni sulla base di un'esperienza condotta nel campo della formazione dei fidanzati al matrimonio in alcune parrocchie della diocesi di Ascoli Piceno. Ora l'autore, partendo da quella esperienza, cerca di disegnare in alcune linee essenziali il cammino percorso dalla comunità di giovani coppie che ne è nata, la fisionomia che essa ha via via assunto e il bagaglio di valori e di esperienze che ha prodotto in un tempo di sperimentazione comunque ancora limitato.

 

Le tappe di un cammino comunitario

Dopo quanto ho già detto nel precedente contributo si potrà essere molto sintetici nel descrivere le tappe della storia della comunità di giovani coppie nata dai corsi di preparazione al matrimonio.

Il primo corso prematrimoniale da noi promosso risale a circa sei anni fa, in una parrocchia della periferia di Ascoli Piceno. Il ristretto numero dei partecipanti una dozzina di coppie favorì lo stabilirsi di un'amicizia piuttosto intensa con noi sacerdoti e con la giovane coppia di sposi che ci coadiuvava. Quasi tutti i fidanzati erano lontani da una pratica di fede e all'inizio avevano espresso riserve sull'utilità di un corso del genere. Invece all'ultima riunione, con nostra sorpresa, all'unanimità diedero questa valutazione dell'esperienza vissuta:

    erano rimasti colpiti dalla fraternità tra noi sacerdoti e tra sacerdoti e sposati;

    avevano scoperto un volto della Chiesa che non conoscevano;

    avevano visto crescere in qualità il loro rapporto di coppia;

    ci chiedevano di poter proseguire i rapporti con noi e tra di loro.

Continuammo quindi a proporre alcuni incontri con scadenza mensile fino all'estate. A metà agosto organizzammo, in una casa di montagna, tre giorni di convivenza impostati come scuola di vita evangelica a cui invitammo buona parte dei partecipanti al corso. Aderirono sette coppie. Fu un momento di grazia, che fruttò conversioni e ritorni alla Chiesa e ai sacramenti dopo anni, e che ci convinse dell'opportunità di portare avanti questo tipo di lavoro.

Si costituì così un gruppo che iniziò a ritrovarsi in parrocchia ogni settimana. Gli incontri, che proponevano un itinerario comunitario improntato alla spiritualità dell'unità, erano incentrati sulla pratica della Parola di Dio, con una particolare attenzione ai temi della vita matrimoniale e familiare letti alla luce del vangelo e dell'insegnamento del magistero della Chiesa. I frutti di questa esperienza che continua tuttora, accresciuta di nuovi membri e di alcuni anni di cammino sono stati particolarmente abbondanti. Oltre ad assistere alla fioritura di famiglie unite e gioiose, abbiamo visto stagliarsi sempre più chiaramente un bozzetto di famiglia cristiana capace di proporre non formule teoriche ma risposte concrete ai problemi d'oggi. Le varie questioni della vita familiare i rapporti con i suoceri, i temi del lavoro e dell'economia familiare, le scelte legate all'apertura alla vita, la gravidanza e la nascita dei figli, la loro prima educazione, ecc. , affrontate insieme nella carità scambievole, apparivano in una luce nuova e fornivano di volta in volta altrettante opportunità per la crescita comune. Si è formato così una sorta di «deposito» di idee e di esperienze che si trasmette alle coppie che entrano in contatto con la comunità e che contemporaneamente si accresce e si arricchisce.

 

La struttura della comunità

La struttura della comunità è, per così dire, a cerchi concentrici. C'è un nucleo centrale, costituito da alcune coppie che nel corso degli anni hanno maturato scelte forti di impegno evangelico; c'è una fascia intermedia di coppie che frequentano l'incontro settimanale con una periodicità regolare; c'è infine una fascia più esterna, difficile da quantificare, di coppie che sono in rapporto col gruppo in forme varie e molto libere, ma che vengono regolarmente contattate con iniziative specifiche.

Anche le attività che il gruppo conduce, pertanto, si differenziano. Oltre alla presenza ormai tradizionale nell'ambito della preparazione al matrimonio, si cerca di ampliare un fronte di servizio nei riguardi del mondo della famiglia e in particolare delle coppie giovani. Ad esempio, si organizzano sempre insieme ai sacerdoti momenti di ritrovo per le coppie contattate nei corsi prematrimoniali. Sono iniziative di vario genere (incontri di aggiornamento, feste di anniversario, celebrazioni liturgiche, cene o gite) che riscontrano un apprezzamento vivissimo per i contenuti che comunicano e per il clima che vi si respira.

Anche le convivenze comunitarie estive che coprono ora l'arco di una settimana nel mese di agosto sono un momento aperto a tutti: quest'anno i partecipanti sono stati 75, senza contare i bambini che ormai affollano numerosi questi ritrovi. Più che vacanze sono una piccola ma autentica scuola di vita, sia per le conversazioni che vi si tengono sia per l'intensità della comunione che si realizza, con uno scambio di esperienze che arricchisce le coppie ed anche gli stessi bambini, che possono socializzare con coetanei e adulti in un contesto aperto, sereno e stimolante.

La cura di questa fascia assai ampia di coppie che sarebbe impossibile senza l'adozione di forme specifiche di apostolato comunitario è di capitale importanza. Attraverso le iniziative sopra descritte si raggiungono infatti alcuni obiettivi fondamentali per una pastorale rivolta alle famiglie giovani:

1) Fornire punti di riferimento relazionali e valoriali che diano sostegno a molte coppie ancora in evoluzione: grazie a questi contatti è stato possibile affrontare e risolvere varie situazioni problematiche che altrimenti avrebbero avuto ben altro esito.

2) Dare libertà per una maturazione personale e di coppia che spesso può avere bisogno di tempi più o meno lunghi prima di approdare a scelte esplicite di vita evangelica: più volte abbiamo costatato che questi passi sono avvenuti dopo che per alcuni anni (quelli dell'inizio della vita a due, delle gravidanze e dello svezzamento dei figli) la coppia, pur chiusa in se stessa, aveva però mantenuto qualche contatto con la comunità.

3) Costituire, attorno al gruppo più ristretto, un'ampia fascia di trasmissione di valori: una sorta di cassa di risonanza attraverso cui l'esperienza della comunità, generando attorno a sé un clima di stima e di consenso, riesce ad incidere e a diffondere modelli di cultura alternativa informata dai valori evangelici.

 

Categorie che articolano la vita di comunione

Per dare ora un profilo dei valori che sostanziano la vita del gruppo, vorrei utilizzare alcune categorie che costituiscono un costante riferimento nel cammino delle coppie che ne fanno parte. Sono dimensioni che articolano la vita di comunione secondo la spiritualità dell'unità 1; e ci sono parse quanto mai illuminanti ed appropriate per quel rinnovamento evangelico della famiglia di cui oggi si avverte la necessità e l'urgenza.

 

1. La condivisione dei beni

Questo aspetto viene puntualmente trattato fin dal corso di preparazione al matrimonio. E non tanto in funzione della scelta del regime patrimoniale, quanto come proposta di un'impostazione comunionale di tutta la vita economica familiare. A questo riguardo, infatti, oggi la famiglia è affetta da una sindrome da individualismo la cui natura e i cui effetti patologici sono evidenti ancorché sottovalutati. Lo dicono certe dinamiche spesso ricorrenti nella prassi economica delle famiglie:

1) In molti casi, la gestione dei bilanci e delle scelte economiche riguardanti la famiglia in quanto tale viene assunta e di fatto monopolizzata da uno solo dei due coniugi, con pratica esclusione dell'altro.

2) Altrettanto spesso, ciascuno dei coniugi dispone di entrate e fondi propri di cui usa con totale autonomia, senza renderne conto affatto al partner; in genere, in questi casi lo stesso criterio è poi applicato nei confronti dei figli, che ben presto avranno anch'essi ciascuno il loro fondo e la propria economia privata da gestire.

3) Non sono frequenti i casi di coppie che cercano un dialogo sistematico e serio sulle questioni economiche; è più facile che ciò avvenga occasionalmente, in ambiti circoscritti, spesso in forma conflittuale o pretestuosa: comunque sempre con la difficoltà di approdare ad accordi costruttivi.

Mi sembra di poter dire che la famiglia oggi appaia più come un'aggregazione policentrica, all'interno della quale interagiscono spinte ed interessi divergenti, che come un vero e proprio soggetto economico capace di formulare scelte unitarie sul piano lavorativo, finanziario, patrimoniale e di maturare quindi una propria progettualità. Tra l'altro, proprio tale difficoltà della famiglia ad avere consistenza come soggetto economico ne fa un facile terreno di conquista  per l'ideologia consumistica, che muove dal dato della particolarizzazione e frammentazione dei bisogni per renderli sempre più irrealistici ed artificiali.

Nostra convinzione è che se oggi la famiglia non diviene capace di vivere almeno in qualche misura in forma comunitaria il rapporto con i beni, di renderli cioè «bene comune», non ha la forza di uscire dalle spire del consumismo, dell'avere fine a se stesso. C'è infatti un rischio consumistico anche in un «dare» vissuto in forma individuale, secondo l'impulso del momento. Ed è precisamente il rischio che si tratti di un dare che, di fatto, serva a camuffare la sostanza di una vita autarchica, borghese, indisponibile agli altri «reali» che si ha accanto tutti i giorni, con apparenze di sensibilità sociale e di ideali umanitari. Il vero dare è quello che sa porre come soggetto il «noi».

 

Alcune forme concrete

Nel lavoro con le giovani coppie proponiamo chiaramente alcune forme di condivisione dei beni, libere ed accessibili a tutti.

1) Un primo modo di condividere è fare insieme il bilancio familiare mensile: riuscire a maturare valutazioni, opzioni e progetti comuni suppone infatti una precisa educazione della coppia al dialogo e alla trasparenza, che va al più presto partecipata anche ai figli.

2) Un bilancio economico è però cristianamente «sano» se al suo interno compaiono voci che indicano una capacità di gratuità in forma stabile da parte della famiglia: cioè un dare ad extra che, essendo parte in bilancio, esprime non gesti episodici di matrice emotiva, ma una vera «cultura del dare».

3) Per questo, occorre avere il senso del superfluo. un punto su cui fare attenzione, perché la «cultura dell'avere» ha letteralmente abolito nella coscienza comune la nozione di «superfluo»: siccome sono in quanto ho, è ovvio che non ho mai abbastanza. In realtà è vero il contrario: siccome ciò che sono non dipende da ciò che ho, posso sempre dare qualcosa senza per questo mancare mai del necessario.

4) Una cultura del dare si qualifica poi nella capacità di costituire un'economia comunitaria: ogni famiglia della comunità non destina autonomamente il proprio superfluo, ma versa mensilmente in una cassa comune ciò che ha liberamente deciso di dare; poi insieme si decide come utilizzare tali fondi per le necessità sia della comunità che al di fuori di essa.

Questa sequenza progressiva, sul piano di una pedagogia di coppia, andrebbe considerata anche all'inverso. Da quanto abbiamo sperimentato: è cominciando con il dare ad extra, esercitando la comunione di beni assieme ad altre coppie, che si diventa capaci di una condivisione vera all'interno della famiglia. Non sempre il percorso inverso risulta altrettanto efficace.

Un'impostazione del genere è stata accolta con vivo interesse da molte coppie ed ha instaurato una prassi non legata ad effimeri entusiasmi, ma capace di durare nel tempo. Chi entra in questa logica, infatti, sperimenta che saper dare nella gratuità significa non solo acquistare sul piano dei valori; ma vuol dire anche stabilire un rapporto di gran lunga più produttivo con i beni sul piano economico. Mentre chi assegna il primato all'avere vive di quella tipica insaziabilità che instaura una sorta di spirale di inflazione, con la svalutazione del valore psicologico ma reale  dei beni che si posseggono; chi viceversa sa dare si accorge di avere non solo in misura soddisfacente, ma sovrabbondante, appunto perché può dare. una dimensione psicologica dell'esperienza evangelica del centuplo di cui si fa regolare verifica. Ci sono coppie che versano mensilmente in cassa la loro quota, del tutto libera, pur dovendo sostenere i pagamenti rateali del mutuo per la casa con un solo stipendio normale.

L'efficacia della proposta si verifica anche da dati concreti che, nel piccolo, mi sembrano significativi.

In due anni si sono gestiti insieme alcuni milioni di lire, utilizzati a sostegno di coppie in momentanea difficoltà e per iniziative comuni, adozioni internazionali, attività a favore di extracomunitari e altre forme di comunione a vari livelli.

Grazie a questa capacità di condividere, abbiamo potuto affrontare alcuni casi oggi assai frequenti e problematici in cui il lavoro tendeva ad assumere valore primario nella vita della persona a discapito degli spazi dedicati alla famiglia, agli impegni di fede, al tempo libero e al riposo; e si è riusciti ad operare una ristrutturazione che tenga conto di queste dimensioni, anche a costo di una busta-paga di minore entità.

Due membri della comunità rispettivamente presidente e membro del consiglio di amministrazione di una cooperativa che attua nel campo dei servizi sociali hanno operato affinché una parte cospicua degli utili annui fosse destinata a sostegno di iniziative di economia di comunione in Paesi extraeuropei.

 

2. L'impegno apostolico

Già si è detto, nel precedente contributo, di come la coppia capace di vivere una condivisione con altre coppie, nella luce della Parola di Dio, sia già di per sé anche una famiglia apostolica, aperta nel servizio agli altri, capace di irradiare la bellezza della vita evangelica, preparata ad offrire risposte calzanti ai problemi di oggi e modelli di vita validi anche per altre famiglie. Questo è vero: tra l'altro notiamo che le coppie che frequentano gli incontri di comunità maturano ben presto una competenza in rapporti umani ed un intuito diagnostico che le rende capaci di interpretare correttamente i problemi presentati da altre coppie, e a volte anche di intervenire con efficacia.

Occorre però, allo stesso tempo, un'attenzione vigile ed un impegno educativo esplicito e costante, volto ad evitare che la coppia ricada in forme di ripiegamento su di sé che sono sempre latenti, specie nei primi anni di matrimonio. Si sa, infatti, come la coppia giovane tenda ad una gestione «simbiotica» del proprio tempo, assolutizzando il rapporto a due salvo poi veder presto inflazionato e insterilito proprio il tempo trascorso insieme.

Avere impegni comunitari e di apostolato richiede quindi la capacità, da parte della coppia, di ristrutturare i criteri di gestione del proprio tempo. Non è affatto vero che un buon rapporto di coppia abbia bisogno di molto tempo da condividere. Piuttosto, è importante la «qualità» del tempo passato insieme. Risulta vero, anche qui, quel principio che parafrasavo sopra a proposito di una «cultura del dare»:

1) Chi tiene per sé il proprio tempo (utilizzandolo secondo criteri e fini esclusivamente individuali o di coppia) lo perde (nel senso che, non sapendo dare pieno significato a ciò che fa, finisce per non aver mai abbastanza tempo per nulla).

 

2) Al contrario: chi sa dare il proprio tempo (mettendolo a servizio di finalità non solo proprie e di coppia) lo trova (cioè sa farlo fruttare, dando il tempo giusto ad ogni cosa).

Le nostre coppie sono quindi invitate fin dalle prime fasi del matrimonio a prevedere il tempo per l'incontro di comunità; per seguire altre coppie loro affidate; per animare i corsi prematrimoniali o altre attività di apostolato; per aprirsi con disponibilità a quelle persone o famiglie con cui si viene a contatto vicini di casa, colleghi di lavoro, conoscenti vedendovi dei fratelli da servire. E ci si confronta con regolarità, per avere i giusti criteri con cui muoversi, specie in situazioni particolari.

In genere queste coppie riescono con qualche assestamento a mantenere tali impegni anche dopo la nascita dei figli: con vantaggio per la coppia, che salva importanti spazi di libertà; ma anche per il figlio, che può sviluppare una sana capacità di indipendenza dai genitori, e che, affidato quando possibile ad altri familiari o conoscenti, si abitua ad una positiva varietà di relazioni affettive.

 

3. La vita di preghiera

Quello della famiglia o della coppia è oggi uno spazio secolarizzato, dove spesso Dio non ha posto, paradossalmente, neppure quando i coniugi si dicono e sono effettivamente credenti e praticanti. Il rapporto con Dio, consumato nel chiuso dell'individualità, è inteso come un'opzione puramente soggettiva, che non incide sul rapporto con gli altri e che quindi non va neppure comunicata e condivisa. Va da sé che un tipo di preghiera che non diventa anche spazio di comunicazione tra le persone può risultare ambigua, esposta ad unilateralità, infarcita di segrete superstizioni; e finisce facilmente per cadere nell'insignificanza ed essere abbandonata.

La preghiera è invece un aspetto fondante per l'identità della famiglia cristiana. Essa va curata con una specifica formazione e con una costante verifica nell'ambito della vita di comunità.

Anche qui, contattando spesso persone senza alcuna pratica di preghiera, l'iter che percorriamo non parte dalla preghiera personale per approdare poi alla preghiera comune, ma fa leva su proposte precise di preghiera di coppia, per conquistare poi via via spazi e capacità sempre maggiori di vera preghiera personale. Questo tipo di approccio garantisce diversi vantaggi per chi comincia o ricomincia a pregare:

1) Il fatto di pregare in due non interpella solo l'iniziativa e la responsabilità del singolo facilmente intaccabili da  disabitudine, demotivazione, pigrizia, ecc. ma la coppia come tale: per cui ciascun partner deve aiutare l'altro a mantenere l'impegno. Vediamo che molte coppie, anche digiune di preghiera, riescono presto ad acquistare e a mantenere un'abitudine in tal senso; mentre il singolo, da solo, difficilmente sa operare cambiamenti reali e stabili.

2) La preghiera comune è un fatto ben più verificabile della preghiera individuale: quando in comunità si rende conto del se e del come si è pregato, la coppia non può barare o sfumare, a differenza di quanto può avvenire per il singolo.

3) La preghiera di coppia può essere esercitata in forme varie, flessibili, via via sperimentabili nell'ambito di un cammino di gruppo: dalla preghiera serale con esame di coscienza, alla preghiera prima dei pasti, alla lettura di brani evangelici, alla meditazione comune.

4) La preghiera in due dà l'opportunità di verificare immediatamente i vantaggi che ne vengono sul piano del dialogo e dell'intimità di coppia; mentre la preghiera individuale è esposta a probabili impressioni di sterilità e di aridità.

5) Il fatto di pregare insieme costringe la coppia ad un esercizio costante di autenticità. Pregare con l'altro è sempre un passo, mai scontato, verso l'altro: tanto che non si riesce a pregare insieme se non si sa riconquistare ogni volta quella sintonia e trasparenza nell'amore che richiede di gettare la maschera, di ricominciare di nuovo, di chiedere scusa o di perdonare.

In questo modo la preghiera diventa anche il momento in cui si fa verità nella vita a due. Così pian piano cresce anche nel singolo membro della coppia l'esigenza della preghiera come apertura personale alla Verità sempre sostenuta dallo stimolo della comunità. E questa ricchezza di rapporto, personale e comunitario, con Dio è la scuola in cui anche i bambini imparano a pregare non attraverso un'artificiale trasmissione di formule, ma attraverso la normale condivisione quotidiana.

 

4. Corporeità e sessualità

È singolare che in una cultura come l'attuale, caratterizzata così fortemente dalla «liberazione sessuale» intesa come trasgressione di ogni regola, si verifichi un così alto tasso di problematicità proprio sul fronte dei rapporti sessuali. Chi opera sul campo sa come sia sorprendentemente alta la percentuale dei coniugati che, molto presto, finisce per non avere più rapporti o, al converso, per vivere una genitalità fatta di gesti dalla ripetitività quasi meccanica, privi di ogni contesto di tenerezza o di comunicazione affettiva.

 

La crisi attuale

Occorre, per poter imbroccare la giusta direzione di risposta al problema e di proposta formativa, un'analisi attenta delle matrici culturali e comportamentali che evidentemente collegano l'ideologia dello spontaneismo in campo affettivo-sessuale con l'attuale crisi del rapporto tra i sessi. Non possiamo svolgerla qui. Mi sembra però da sottolineare, ancora una volta, quel tipico fraintendimento consistente nel vedere l'amore principalmente come effusione affettiva mentre l'amore è ben di più: è cercare e volere la Verità e il Bene, per sé e per l'altro.

Proprio la mancanza del senso della Verità e del Bene, come trascendenti rispetto a sé, rende il soggetto incapace di un vero vaglio autocritico e, quindi, lo spinge ad identificarsi di fatto col proprio sentire momentaneo e soggettivo. La comunicazione allora (e anche l'atto sessuale è comunicazione) non sarà più sforzo di adeguamento al vero, nel quale si apre lo spazio per l'incontro con l'altro; sarà invece per così dire espansione di sé, in cui il soggetto crede di comunicare con l'altro ma in realtà, incapace di uscire da sé, non fa che operare un transfert emotivo, sovrapponendo al volto reale dell'altro le proprie fantasie e aspettative.

Faccio un esempio specifico. Sulla base di molte testimonianze al riguardo, direi che il rapporto genitale tende ad essere esercitato precisamente come dinamica di espansione attraverso l'uso strumentale della corporeità altrui di un mondo segreto di pulsioni e fantasie ego-centrate. Cioè: niente affatto rapporto (che implicherebbe una comunicazione nel trascendimento di sé), ma sovrapposizione di due interiorità chiuse, dove l'impressione della comunicazione è data piuttosto dalla tendenza ad attribuire anche all'altro i propri vissuti emozionali.

Questa lettura in chiave di irrelazionalità, di espansione del sé non-comunicativo mi pare coerente con una serie di dati oggi in crescita statistica:

a) La tendenza a ricercare la gratificazione più sul piano degli stimoli immaginativi che nella consumazione del rapporto fisico.

b) Il frequente manifestarsi dell'impulso sessuale in forma di coazione incontrollata e quasi meccanica.

c) L'alto tasso di violenza, psicologica ma anche fisica, che spesso accompagna l'esercizio della genitalità.

d) Infine la scarsa gratificazione affettiva che spesso specie per la donna, più sensibile alla «simbolicità» dell'atto genitale accompagna tali vissuti, fino a renderli del tutto frustranti.

Ora: qual è l'anello mancante per un'autentica maturazione affettiva? Come si può innescare in queste situazioni di latente o patente patologia, una qualche dinamica di crescita?

 

La riscoperta della castità

La risposta, anche se a prima vista paradossale per la mentalità corrente, va data, credo, senza tentennamenti: occorre una stima e una pratica della castità. L'esercizio della castità non è surrogabile con altro, e va proposto nel suo valore educativo e terapeutico altissimo. Esso vuol dire non solo un impegno di autocontrollo e di vaglio autocritico delle proprie pulsioni, necessario per maturare in capacità di libertà e di gratuità; ma rappresenta anche la possibilità di convogliare le proprie risorse intellettuali, volitive, affettive, immaginative in uno sforzo di dialogo e di conoscenza reale di sé e dell'altro.

Generalmente, le coppie che contattiamo hanno un'esperienza molto diversa da quella di un impegno di castità. Non per questo rifiutano la proposta, motivata, di tentare di astenersi da rapporti sessuali prima del matrimonio (magari per «espiare» qualche senso di colpa!). Comunque, i problemi si pongono poi all'interno del matrimonio: quando quasi inevitabilmente, sotto il carico dello stress da convivenza, i nodi di una mancata maturità affettiva vengono al pettine.

 

I frutti

In questo senso, nella nostra esperienza si è rivelato prezioso l'utilizzo dei metodi naturali di regolazione della fertilità, proprio in quanto richiedono una pratica positiva e regolare della castità. Vorrei raccogliere in tre punti i risultati che abbiamo potuto verificare dall'applicazione, in particolare, del metodo Billings, in contrasto con gli effetti di una mentalità e di una prassi di tipo contraccettivo.

a) Una maggiore accoglienza di sé da parte della donna. La contraccezione, scindendo l'atto genitale dalla sua potenzialità procreativa, tende a rendere la donna sessualmente disponibile a prescindere dalla fase di fecondità o infecondità che sta attraversando. In realtà, così si esprime una mentalità che insinua una negativizzazione della particolarità fisiologica femminile penalizzante per la donna stessa. La quale è tentata di misconoscere e deprezzare proprio ciò che la distingue dal maschio: tra l'altro, anche quella varietà cangiante di emozioni, di sentimenti, di energie volitive che è legata alle fasi del ciclo e che, se accolta, ben rappresenta la maggior ricchezza del mondo affettivo femminile rispetto alla monodicità maschile. Peraltro, l'impegno richiesto alla donna dal metodo naturale di conoscersi a fondo nelle peculiarità del proprio ciclo la rende capace di interpretarle con maggiore consapevolezza, valorizzando le fasi «positive» e sdrammatizzando quelle «negative», e le consente un acquisto di serenità nel rapporto con se stessa e con il partner.

b) Una maggiore conoscenza del mondo femminile da parte del partner maschile. Una prassi contraccettiva si accompagna in genere, nella coppia, ad un basso livello di dialogo sulla propria vita sessuale. Anche perché il contraccettivo tende a ridurre l'area di differenziazione problematica tra i partners, rendendo tutto troppo facile e scontato. Di qui, una serie di incomprensioni e di fraintendimenti dovuti alla difficoltà da parte dell'uomo di percepire le diverse attese della donna, e alle remore di quest'ultima nell'esprimere liberamente le proprie frustrazioni. L'utilizzo di un metodo naturale, al contrario, è impossibile senza una scelta di dialogo e di condivisione. Ciò significa, per l'uomo, educarsi a comprendere e rispettare le esigenze diverse dalle proprie di cui l'altra è portatrice; e al tempo stesso imparare a comunicare su altre lunghezze d'onda e con altri linguaggi, altrettanto importanti di quello genitale, ma che la sensibilità maschile è spesso portata a sottovalutare. Così ci si educa a valutare positivamente i tempi di astinenza dal rapporto, richiesti dal metodo: in essi si ha la possibilità di accrescere la ricchezza di dialogo e di scambio affettivo tra i coniugi, che altrimenti tenderebbe a monotonizzarsi.

c) Una maggiore significatività dell'atto coniugale. L'impegno di comprensione e di accoglienza reciproca maturato attraverso l'esercizio della castità rende capaci di vivere anche l'atto genitale nell'ascolto e nel rispetto di sé e dell'altro. E in questo contesto, ricco di significato perché ricco di dialogicità, si capisce meglio anche il rispetto dovuto al valore procreativo, inscindibilmente connesso con quello unitivo, dell'atto coniugale. Si comprende che c'è qui una sacralità che non è possibile modificare a piacimento. Ad esempio: la donna avverte che usare un contraccettivo nel momento in cui tutto in lei, corporeità e affettività, parla di fecondità e apertura alla vita, sarebbe una menzogna. Può, invece, astenersi dal rapporto così come, per evitare di dire qualcosa che risulterebbe inopportuno, si sceglie di tacere piuttosto che falsare le cose: e il «non dire» non esprime contraffazione, ma rispetto profondo della Verità.

 

Su questi piani abbiamo visto molte coppie produrre, in breve tempo, cambiamenti radicali, segnati dalla gioia di una bellezza prima neppure immaginata. Ma questo è stato possibile perché di tali temi si è parlato con continuità negli incontri di comunità, nel confronto tra coppie con uno scambio regolare di consigli e di esperienze e nei colloqui personali col sacerdote. Tutto ciò rifluisce all'interno della coppia, che trova così una libertà di dialogo che non sarebbe pensabile senza tali apporti.

 

5. L'impegno sociale

Mentre sposarsi significa, il più delle volte, passare ad un regime di vita imborghesito dalle prospettive piuttosto anguste, nella nostra vicenda vediamo verificarsi il contrario: anche persone che non hanno mai pensato di coltivare un impegno sociale scoprono orizzonti vasti entro cui poter lavorare e portare un contributo. proprio la ricchezza di esperienze e di idee sperimentata negli incontri e nella vita della comunità che rende consapevoli di poter essere portatori di valori e di modelli relazionali nuovi.

Si sviluppa così, attorno al gruppo, un raggio d'azione che sebbene ancora molto limitato comincia a produrre qualche segnale di presenza nel campo delle problematiche sociali.

Faccio solo qualche esempio.

Tre anni fa ci fu ad Ascoli la prima immissione di profughi dall'Albania e dalla Romania. Fummo avvertiti dei loro problemi di alloggi precari, in inverno, senza riscaldamento e senza vestiario pesante. L'impegno delle nostre coppie non fu solo quello di mettere in comune con loro abiti, scarpe, coperte; di acquistare due buoni termoventilatori; di preoccuparci perché trovassero qualche lavoretto; ma soprattutto di stabilire con loro rapporti che li facessero sentire davvero accolti. Andammo quindi a trovarli con regolarità e organizzammo per loro qualche cena e qualche iniziativa di festa. Questa attenzione fatta di dialogo rispettoso, di servizio concreto, di calorosa amicizia fu per loro importantissima. Ci si è visti per un certo tempo. Poi ad uno ad uno si sono trasferiti o sono tornati in patria. L'ultimo di loro, qualche mese fa, poco prima di partire per la Romania, è venuto a salutarci. Commosso, ci diceva che senza il nostro aiuto non ce l'avrebbe fatta a resistere. E ha voluto regalarci, in segno di gratitudine, una Bibbia in lingua romena.

Tempo fa conoscemmo un giovane, tossicodipendente da dieci anni, che seguimmo con regolarità attraverso due delle nostre coppie. Messo alle strette, proprio grazie al gruppo accettò di affrontare il suo problema e di entrare in una comunità terapeutica. Anche il successivo reinserimento è stato aiutato dal gruppo, nel quale diceva di aver trovato la sua famiglia. A distanza di due anni si è fidanzato, ha un buon lavoro e partecipa regolarmente alla vita del gruppo. Ora stiamo seguendo quasi a mo' di comunità terapeutica un altro caso del genere, che sembra ben avviato a soluzione.

Due anni fa, nell'impostare la gestione della cassa della comunione dei beni, decidemmo di impegnarci non come singole famiglie ma come gruppo nel campo delle adozioni a distanza. Attraverso il Movimento Famiglie Nuove fu adottata una bimba argentina. Seguì, qualche mese dopo, l'adozione di una brasiliana. Con loro c'è stato uno splendido scambio di notizie, di biglietti augurali e di foto. Ora abbiamo programmato una terza adozione.

 

6. L'educazione dei figli

Si sa che oggi avere un figlio fa paura, e non tanto, direi, per i disagi e condizionamenti che ne possono venire. Credo che buona parte del timore derivi, per molte coppie, dal sentirsi impreparate alla paternità e alla maternità. Si avverte che non si hanno, in fondo, grandi valori da trasmettere; e che nonostante il gran proliferare di riviste specializzate, di esperti sicuri, di consigli e di voci di fatto si è soli di fronte al mistero di un «altro» che dipende dalla propria fragile responsabilità.

Anche sotto questo profilo è stata determinante la vita in comunità. già significativo il fatto che gran parte delle coppie che sono in qualche modo in contatto col gruppo abbia deciso subito, nei primi mesi di matrimonio, di aprirsi alla vita, proprio perché sostenute da una solidarietà concreta.

Ma i momenti più difficili sono venuti dopo. L'arrivo del figlio è sempre una fase delicata per la coppia e per la sua apertura nel gruppo. Tra l'altro fra le mamme tende ad innescarsi una sottile tensione di confronto reciproco: come se al minimo vagito di bimbo ciascuna vedesse scattare, da parte delle altre, il giudizio critico sulle proprie capacità di educatrice. Date le difficoltà, tanto più importanti sono state le aperture che si è riusciti a conquistare. In particolare: la decisione di una mamma di parlare in comunità del dramma degli interminabili pianti notturni della figlia ci offrì la prima possibilità di confronto su questi temi, cui è seguito uno scambio regolare sempre più approfondito.

Proprio dal confrontarsi insieme sui problemi concreti sono derivate via via delle linee, insieme teoriche ed operative. Ne esemplifico alcune più generali:

1) Primato del rapporto di coppia. Il punto di equilibrio della vita familiare è e deve essere il rapporto a due. Il maggior investimento che un papà e una mamma possono fare per il loro figlio, già da neonato, è coltivare l'unità tra loro e saper assumere sempre davanti a lui posizioni unitarie. infatti la saldezza del rapporto tra i genitori che dà sicurezza al figlio. Ma questa capacità non si improvvisa; è anzi impossibile se non si impegnano tempi precisi per curare il dialogo a due, anche a costo di dover lasciare talvolta il proprio figlio a terzi.

2) Principio del «sì sì, no no». Quando due genitori sanno confrontarsi con regolarità, hanno anche al di là delle momentanee defaillances l'obiettività e l'equilibrio che consente loro di distinguere quando il figlio esprime esigenze reali e quando invece «fa i capricci». Questa unità di giudizio aiuta la coppia a rispondere alle richieste del figlio con messaggi chiari e distinti: mostrando tutto l'affetto nel primo caso, negando con fermezza tale manifestazione nel secondo.

3) Saper «perdere» il figlio. Il problema è che normalmente i genitori non riescono ad avere, nei confronti del figlio, quel «distacco» che consenta loro di capir bene e di operare per il bene. Ad esempio: quando il figlio piange per capriccio, scatta l'istinto protettivo di evitargli una sofferenza che invece non gli andrebbe affatto sottratta. In realtà, spesso un genitore specie la madre investe «troppo» nel figlio: vi vede, di fatto, il luogo della sua realizzazione affettiva. Queste simbiosi sono sottili forme di strumentalizzazione dell'altro che vanno evidenziate e progressivamente superate. Lo ripetiamo spesso: il figlio non è mio, ma di Dio. Io, mamma, anche se devo fare bene tutta la mia parte, non ho alcuna esclusiva su di lui. Né il figlio è indispensabile per la mia realizzazione: solo Dio lo è!

Tale capacità importantissima di educare alla e nella libertà si conquista, però, attraverso l'apertura e il confronto con gli altri. In questo senso le «settimane estive» di convivenza, che proponiamo ogni anno, sono una scuola preziosa per genitori e figli. Abbiamo visto mamme imparare non senza sofferenza a staccarsi dal figlio e affidarlo ad altri. E abbiamo visto tanti bambini acquistare notevolmente in capacità di socializzazione.

L'applicazione di queste stesse categorie primato assegnato al rapporto di coppia, capacità di dire dei sì e dei no insieme, distacco dal figlio come conquista di libertà è stata preziosa anche per la gestione del rapporto con i suoceri. Anche qui infatti il nodo problematico è in genere il rapporto madre-figlio. E anche qui si è riusciti ad affrontare con efficacia diverse situazioni non facili.

 

7. L'uso dei mezzi di comunicazione sociale

Nell'era del villaggio globale la famiglia deve fare i conti con la propria immissione in quello spazio-tempo artificiale che è la TV. In genere nei confronti del mezzo televisivo c'è quella bonaria acquiescenza che si ha con le cose scontate o innocue. Una certa preoccupazione può scattare di fronte a qualche palese teledipendenza del figlio; ma non si va nei casi più illuminati al di là di qualche sterile proibizione: tanto più che anche il genitore si sottrae a fatica al magnetismo dello schermo. Così c'è il rischio che il mondo artificiale degli spots e delle fictions dilaghi nell'artificialità dei rapporti quotidiani in famiglia.

Di fatto la TV c'è. E non va sottovalutata. Se non la si vuole subire acriticamente, bisogna dialogarvi positivamente. Ma la condizione di possibilità di un dialogo con la TV è che ci sia il «dialogo» tra i membri della famiglia.

Il dialogo con la TV l'abbiamo attivato anzitutto come gruppo: scambiando giudizi su questo o su quel programma o affrontando l'argomento in modo sistematico. Più volte si è fatto l'esperimento di vedere insieme qualche programma o film e poi di parlarne. I criteri che abbiamo assunto sono:

1) da sconsigliare la «visione solitaria»: la TV va vista il più possibile insieme.

2) I programmi vanno scelti prima della visione e non a caso.

3) Quando si guarda la TV, lo si deve fare bene: non facendo altro col video distrattamente acceso.

4) Di ciò che si vede in TV bisogna parlarne, con la capacità di dare giudizi sul piano dei valori: non si può restare in silenzio.

5) L'adulto, quando possibile, veda la TV insieme ai bambini piuttosto che parcheggiarli soli davanti allo schermo.

Inserita così in un contesto di rapporti familiari curati, la TV perde buona parte del suo magnetismo dispotico e diventa uno strumento capace di fornire chances varie e vaste per arricchire il dialogo educativo.

Ovviamente, quanto ho cercato di delineare sono soltanto punti schematici di una vita che è al tempo stesso più semplice e più complessa perché non è nata a tavolino, ma da un cammino in cui si è cercato di seguire passo passo quello che Dio ci faceva capire e di imparare, allo stesso tempo, gli uni dagli altri. Comunque si tratta di un'esperienza ancora molto giovane. Sia perché è nata da poco; sia perché le famiglie di cui ho parlato sono tutte sia come tempo di costituzione, sia come cammino cristiano appena formate. Questo mi rende convinto che, continuando a camminare insieme, ci sia ancora molto da fare e da scoprire.

Credo anzi che proprio la famiglia per la possibilità che dà di andare alle radici della convivenza umana sia oggi uno degli ambiti più stimolanti e fecondi per l'inculturazione del vangelo.

Mauro Bartolini