Condividere
i valori evangelici nel mondo della scuola
Con i giovani, un'esperienza
di libertà
di
Virgilio Marone
Testimoniare la
propria fede senza strumentalizzare le strutture scolastiche non è facile,
specie se si è sacerdoti. Riportiamo l'esperienza di uno di essi, insegnante di
storia e filosofia in un liceo del napoletano, che da diversi anni ha fatto
un'esperienza tipica in questo campo.
Da
giovane sacerdote ho
avuto la convinzione che i luoghi
di trasmissione della fede non sono solo quelli «classici», come chiese,
oratori, associazioni religiose, ma tutti quegli spazi dove quotidianamente le
persone vivono ed operano. Anzi, mi sembra che proprio in questi ultimi anni,
la strada, la scuola, la fabbrica, siano luoghi privilegiati di
evangelizzazione. E ciò sia per il numero limitato di persone che frequentano
le nostre chiese, sia perché nei posti dove la gente s'incontra per motivi
vari, come la scuola, i circoli di ogni tipo, è necessaria una presenza che dia
la possibilità del confronto e soprattutto della riflessione, se è vero che
nella nostra società post-moderna ciò che difetta è proprio la capacità di
ragionamento.
L'incontro,
quando ero ancora giovane sacerdote, con la spiritualità del Movimento dei
focolari, mi ha donato «lo stile» per tentare almeno un approccio adeguato alle
varie realtà della nostra società e, in particolare, al mondo dei giovani
studenti dove operavo.
I giovani sono «altrove»
Sono
stato sempre convinto, anche in base ad esperienze personali, di quanto afferma
P. Babin, che cioè «i giovani non sono contro, sono
altrove», per cui l'esperienza dell'insegnamento è diventata per me una
continua avventura per entrare in questo «altrove» giovanile.
Ho
potuto constatare non poche volte che è presente in una parte del mondo
giovanile un sentimento di fatalismo che spesso porta all'edonismo, alla
violenza sessuale o alle varie forme di suicidio. Vivere il quotidiano,
dimenticando la società che si vuole contestare, non di rado diventa un
comportamento di fuga.
Spesso
i giovani, come diceva A. Levin, «sono come dei passeggeri che hanno deciso di
prendere un biglietto di prima classe sul Titanic». Quante volte ho sentito,
infatti, «bisogna vivere la vita mentre scorre e astrarsi dalla società che sta
sprofondando». Forse senza saperlo, i giovani esprimono la caratteristica di
fondo del clima culturale che tutti respiriamo.
Di
fronte a tali realtà mi sembra che la scuola, pur con tutte le sue inefficienze
croniche, diventi un luogo privilegiato per proporre, attraverso i vari
contenuti culturali, una visione della vita che affonda le sue radici nel
vangelo e che si trova già dentro di ciascuno di noi, poiché siamo costitutivamente «programmati» per vivere queste realtà.
Mi
sono reso conto nei miei 23 anni di insegnamento, che i giovani, con tutte le
contraddizioni di cui sono portatori, per un insegnante e sacerdote si
presentano soprattutto come domanda a cui urge dare una risposta. E tale
risposta non può essere mai teorica o peggio ancora paternalistica. Per cui ho
cercato sempre di dialogare con loro presentandomi con due atteggiamenti
fondamentali: da una parte sforzandomi d'incontrare l'alunno innanzitutto come
persona e facendomi carico del suo mondo, e allo stesso tempo non
strumentalizzando la scuola e l'insegnamento per un cammino di fede, ma
rispettando fino in fondo le scelte personali di ciascuno.
Superare
questa tentazione è fondamentale, perché quando avvertono che siamo lì non per
amarli ma per far passare un messaggio, per «accalappiarli», i giovani ci
rifiutano. Certo, non è facile un tale atteggiamento, bisogna purificare
costantemente il nostro modo di agire, essere lì per amare disinteressatamente,
non per «fare apostolato». La conversione è opera di Dio e dell'apertura
dell'essere umano, e se il nostro amore è sincero, costituisce la migliore
premessa perché quell'incontro con Dio e con la vita evangelica possa avvenire.
È
un equilibrio sempre nuovo da conquistare, anche perché il rispetto non
significa neutralità nei riguardi di tante problematiche esistenziali.
Un'esperienza di
libertà
Sono
rimasto sempre contento e anche alquanto sorpreso quando alla fine del triennio
gli alunni più maturi dicevano di aver fatto, «attraverso l'insegnamento della
filosofia, un'esperienza di libertà».
In
questo contesto, nella mia esperienza scolastica, non ho quasi mai parlato
esplicitamente della fede nelle lezioni, o almeno in genere non iniziavo io il
discorso se non mi facevano delle domande (non solo per non provocare il
rifiuto del «predicozzo» e dell'«indottrinamento», ma anche perché il cibo è
più gradito e meglio assimilato quando c'è fame...). Ho voluto essere prima di
tutto uomo tra gli uomini, ma avendo alle spalle e testimoniando un'esperienza
che di fatto si presentava come alternativa al modo individualistico di vivere
la vita.
Qualche
volta è bastato un accenno alquanto semplice alla vita personale perché alcuni
entrassero in un mondo completamente diverso dal loro. Così, ad esempio, alla
domanda dove andavo a pranzo, ho risposto che normalmente stavo insieme ad
altri sacerdoti diocesani amici, ma non tanto per risolvere il problema pratico
del pranzo quanto per crescere in una socialità più autentica. E da qui tutta
una serie di domande e di interessamento a questo tipo di vita. Dopodiché è
stato un dono per alcuni di loro essere invitati a convegni o incontri di
approfondimento cristiano, con ripercussioni positive anche sull'andamento
scolastico della classe.
Alcuni frutti
Forse
potrei sintetizzare la mia esperienza dicendo che ho potuto constatare come il
problema fondamentale sia arrivare al cuore dei giovani, presentare loro
un'esperienza evangelica e quindi profondamente umana, far sì che ci sia una
reale condivisione della loro vita, pur rispettando i diversi ruoli.
Nella
misura in cui sono riuscito a muovermi così, sono maturati tanti frutti.
Diversi alunni hanno avvertito la chiamata a donarsi in modo totalitario a Dio,
molti altri hanno scoperto o riscoperto la bellezza di un servizio ecclesiale
più maturo e più rispondente alle esigenze della nostra società. Alcuni
attraverso la spiritualità dell'unità hanno contribuito a far nascere comunità
ecclesiali più vive; altri, pur restando nei loro gruppi di appartenenza hanno
avvertito il bisogno di rivedere l'impostazione pastorale; altri ancora, pur
non integrandosi in strutture ecclesiali o non abbracciando esplicitamente la
fede, hanno posto «al centro della loro vita la questione etica», come più
volte mi hanno scritto.
Trascrivo
dei brani della testimonianza scritta di due di loro, poiché è indicativo di
quello che tanti altri hanno espresso in questi anni. «Non si può dire che non
trasparisse per nulla che il professore fosse un sacerdote; anzi dal punto di
vista umano il fatto che fosse sacerdote era una maggiore sicurezza almeno per
alcuni di noi. Non che non ci fosse fiducia negli altri professori, ma con lui
avevamo un rapporto differente, lo sentivamo più vicino a noi, come un vero
amico a cui poter confidare non solo i problemi scolastici, ma tutto ciò che
poteva tormentarci. Tanti di noi, per la prima volta si sono posti in modo
serio il problema di Dio e soprattutto come utilizzare il tempo libero per gli
altri».
«Ciò
che maggiormente ci ha formato sono stati i temi concernenti l'essere umano, il
suo mondo interiore, il suo cammino indirizzato alla conquista del Sommo Bene e
il suo ruolo nella storia, ma anche il suo ineluttabile destino di morte. Da
qui la ricerca del significato della vita, e alcuni di noi si sono lanciati in
una meravigliosa avventura...».
Giovani «controcorrente»
È
veramente consolante constatare come i giovani, anche nei nostri paesi, quando
si presentano loro degli ideali grandi e autentici, s'impegnano a vivere contro
corrente e non poche volte pagando di persona. Per cui concludendo, e per dare ancora
voce a loro stessi, trascrivo brevemente due esperienze tra tante.
«Gli
anni di Liceo sono stati fondamentali per
formarmi una coscienza che mi
aiutasse a vivere controcorrentenei
riguardi della mentalità comune.
Laureata a pieni voti da qualche anno, come tantissimi altri
giovani anch'io ho
difficoltà a trovare
un lavoro. Ma l'ideale di vita evangelica col quale mi sono incontrata all'età di 15 anni mi sta
aiutando ad affrontare anche questo problema
in maniera costruttiva. Da un lato, è
vero, c'è la sofferenza per tutta una serie di ingiustizie
che si presentano ai miei occhi, soprattutto quando
persone notoriamente non preparate riescono ad ottenere dei vantaggi grazie alla
“piaga”, purtroppo diventata
consuetudine nel nostro tessuto
sociale, della “raccomandazione”. Dall'altro lato, però, sento che è importante
rimanere coerente con l'ideale che
ho scelto e quindi non scendere a compromessi, ma
continuare a fare tutta la mia parte nella ricerca del lavoro, fidandomi
dell'Amore di Dio. Inoltre si è sviluppato in me uno spirito solidaristico
verso gli altri giovani che si trovano nella mia stessa situazione, ad esempio
condividendo con essi notizie ed ansie per i vari concorsi e colloqui per
possibili posti di lavoro, in quanto cerco di vedere in loro prima di tutto dei
prossimi più che dei concorrenti. Mi sto accorgendo proprio in questi giorni
come tale solidarietà trasmetta a tanti miei amici fiducia nella vita, in un
contesto che porta ormai tanti giovani alla depressione» (Sabrina Aresu).
«Lo
studio al tempo del Liceo è stato importante per me poiché subivo il fascino
profondo della cultura, ma allo stesso tempo sentivo l'esigenza d'impegnarmi
per il miglioramento della scuola. Era la fine degli anni '70, quindi in piena
contestazione giovanile, con la
ricerca di uno
studio più aderente
alla realtà, più aperto
alle problematiche sociali.
Così mi candidai
per la rappresentanza studentesca nel Consiglio di
Istituto. Lo spirito col quale
vivevo questa esperienza
mi era suggerito dall'incontro col vangelo che approfondivo in
quel periodo assieme a tanti altri giovani. Tutti gli
anni, nel periodo della cosiddetta “campagna elettorale” , un po' per
convinzione un po' per timidezza, non
ero capace di andare per le classi a chiedere voti.
Eppure, in virtù dei rapporti creati e curati quotidianamente, impostati
secondo l'amore evangelico e quindi senza finalità strumentali,
risultavo sempre la prima
dei non eletti cosicché
ogni anno, venuto meno il
rappresentante dell'ultima classe
liceale, finivo per sedermi al tavolo del Consiglio di Istituto.
Finiti
gli anni del Liceo, non doveva venir meno l'impegno. Continuai così nella
comunità parrocchiale una formazione ispirata a quell'amore che si traduce in
disponibilità e solidarietà concrete. Per far sì che i valori che portavamo
avanti fossero conosciuti e per contribuire a creare una mentalità nuova nel
nostro contesto sociale, decidemmo di mettere su il centro culturale “Igino Giordani” e demmo vita ad un giornale. Ad essi
abbiamo dedicato molto tempo ed energie.
Oggi
il giornale non si edita più, ma esso ha contribuito, nel suo piccolo, ad
alimentare una sensibilità nuova e diffusa nella nostra città verso le
problematiche sociali e culturali. Lo dimostra ad esempio la prontezza con cui
nelle assemblee parrocchiali è stata accolta la proposta di istituire una
biblioteca che funga per tutti da punto di riferimento per organizzare incontri
e dibattiti sui problemi del nostro tempo, nell'intento di offrire una
possibilità di ascoltare parole e prospettive nuove, ispirate al vangelo,
diverse da quelle propinate dai mass media. Insieme con mio marito siamo
responsabili di questa attività, ma sento in maniera molto chiara che essa
affonda le sue radici in quella volontà d'impegno e di apertura, informata dai
valori evangelici, maturata e affinata negli anni dell'adolescenza» (Patrizia Moscarella).
Virgilio Marone