Un'accoglienza all'insegna della comunione

che crea, nei fratelli musulmani, l'anelito all'unità

 

Lontani dalla patria, ma in famiglia

 

a cura di Alessandro Mayer

 

 

A Nettuno, grosso centro turistico e commerciale della provincia romana, è in corso un'esperienza di accoglienza e dialogo con extracomunitari, in gran parte musulmani. Abbiamo coinvolto in una «tavola rotonda» alcuni dei protagonisti di questa vicenda. Sono due parroci nettunensi, don Marco Schrott e don Angelo Guercini; e due laici: Valter Baldassarre, medico e professore di Medicina legale alla Pontificia Università Urbaniana, e Giuseppe Combi, consigliere comunale, membri del Movimento dei focolari, in rappresentanza di tutta la comunità del Movimento che in zona si occupa di portare avanti questa esperienza.

 

GEN'S: Don Marco, don  Angelo, come è cominciata la vostra esperienza con gli extracomunitari?

Don Marco: Innanzitutto è doveroso precisare che sono due esperienze diverse, anche se strettamente collegate fra di loro, in quanto hanno un campo d'azione differente. Quella della parrocchia di S. Giacomo a Nettuno, dove sono parroco, si svolge attorno ad un «centro di accoglienza per extracomunitari».

Tutto è cominciato nell'82.

Proprio in quegli anni c'è stata una prima ondata di extracomunitari in Italia, quindi anche a Nettuno. Ci chiesero ospitalità ed i primi li abbiamo alloggiati in parrocchia, in attesa di trovare una sistemazione migliore.

C'erano a 500 metri dalla chiesa alcuni casolari abbandonati che abbiamo ristrutturato ricavando quattro abitazioni, con la possibilità di accogliere più gente. Così, nel 1986 è sorto il centro di accoglienza. Questi quattro appartamenti non potevano avere certo la pretesa di soddisfare totalmente al fabbisogno di ospitalità degli extracomunitari che erano in numero molto maggiore e crescente ed allora abbiamo formulato un «criterio» di accoglienza. Nel senso che, quando giungono da noi, li ospitiamo in questi appartamenti per alcune settimane, il tempo di conoscerli, «fare famiglia» con loro, vivere insieme, poi aiutarli a cercare un lavoro, un inserimento sociale; così che abbiano infine la possibilità di affittare una casa in proprio conto e lasciare libero l'appartamento per i prossimi che arriveranno.

 

 

 

I primi frutti

 

GEN'S: E tutto questo funziona bene?

 

Don Marco: Sembra di sì. La maggior parte di coloro che finora sono passati dal nostro centro si è davvero inserita nel tessuto sociale della città.

Le famiglie del territorio si sono aperte, anche grazie ad un notevole nostro impegno di sensibilizzazione, con diapositive, in tutte le scuole elementari, avendo avuto il permesso dai vari circoli didattici. Da tempo ho creato anche un bollettino di informazioni per far circolare le notizie che li riguardano ed il lavoro si è esteso anche ad Anzio.

Tanti inoltre si sono sposati, talvolta costituendo dei matrimoni dove i coniugi sono di religioni diverse. Ben riusciti a mio parere, tanto che spesso grazie a queste unioni si sono risolti casi abbastanza gravi di alcolismo o tossicodipendenza.

Un frutto ancora più bello, mi sembra, è che la maggior parte di loro, una volta che sono riusciti a sistemarsi, collaborano concretamente per portare avanti l'opera di accoglienza verso gli extracomunitari che arrivano. Ormai, quando sopraggiunge un nuovo emigrato, sappiamo subito a chi affidarlo; perché in parrocchia c'è la famiglia dei russi, dei bulgari, dei tunisini ed altri ancora. E sono proprio loro a fare da «valvola d'ingresso» per i connazionali. Si incontrano con i nuovi, vagliano la situazione e insieme capiscono subito se sia conveniente restare o meno; quante e quali possibilità di inserimento nel tessuto sociale ci sono.

Ciò non vuol dire che aiuto e collaborazione siano limitati ai soli connazionali. Un esempio lampante è quanto è successo quando sono arrivati qui gli ebrei russi. In quell'occasione, gli islamici (India, Pakistan e Bangladesh) hanno dedicato loro la «Giornata della pace». E' stata una manifestazione pubblica, con la Messa del vescovo, a cui hanno aderito diversi. Inoltre, cristiani, ebrei russi e islamici hanno lavorato volentieri con me per costruire una cappella cattolica. Gli ebrei, contenti, commentavano: «Stiamo costruendo un tempio allo stesso Dio. Quando c'è l'amore, tutto è possibile!».

Negli ultimi tempi abbiamo sentito la spinta di sensibilizzare anche organizzazioni laiche come sindacati, gruppi ecologici, associazioni per l'accoglienza degli immigrati. Abbiamo creato un'«associazione comune» ed abbiamo progettato la costruzione di una nuova casa su un terreno della parrocchia. La Provvidenza ha fatto sì che il progetto sia stato accolto ed ora riceveremo un finanziamento dalla Regione Lazio che permetterà - speriamo presto - di poter accogliere altri fratelli in bisogno.

È molto bello vedere come grazie a questo clima di amore reciproco che si crea molti problemi che a volte sembrano insormontabili si risolvono spesso molto semplicemente. Anche il problema economico, ad esempio. Un gesto da loro molto apprezzato è stato quando tutta la comunità parrocchiale fece una colletta per riportare in India e restituire alla famiglia la salma di un indù, morto a Nettuno.

Ad un certo punto, essi stessi hanno proposto di creare una cassa comune, dove si mette il superfluo, parte dei proventi del loro lavoro, spesso precario e poco redditizio, che si utilizza secondo le necessità comuni. C'è da tenere presente che non tutti lavorano ancora e che quindi questa cassa serve particolarmente per questi ultimi. Ad esempio proprio l'altro giorno una famiglia marocchina della parrocchia di don Angelo chiedeva dei soldi per pagare l'affitto e loro sono stati ben lieti di dare dalla loro cassa per questo scopo.

 

 

 

«A Nettuno c'è la gente buona»

 

GEN'S: E nella parrocchia di S. Anna? Don Angelo, ce ne parli un po'.

 

Don Angelo: Da noi l'esperienza è cominciata soprattutto quando due anni fa, dopo l'evacuazione della Pantanella a Roma, mandarono a Nettuno circa 400 profughi del Bangladesh ed una trentina di tunisini e algerini. Erano alloggiati in un albergo della città, ma avevano ogni sorta di problemi. Non avevano neanche la sicurezza del vitto, in quanto, a causa degli scarsi finanziamenti da parte dello Stato, veniva assicurato soltanto un pasto al giorno.

In parrocchia abbiamo sentito la necessità di far qualcosa per aiutarli. Innanzi tutto abbiamo provveduto, mediante una raccolta, a rifornirli di viveri. In secondo luogo abbiamo organizzato una raccolta di indumenti ed allestito una saletta dove distribuirli. Raccolta che non si è più fermata, anzi si è incrementata, proprio perché i bisogni crescevano. Quasi tutte le sere venivano in venti-trenta a chiedere per il vestiario e ci stupiva spesso la loro dignità. Qualcuno restava per mezz'ora in fila per avere poi soltanto un paio di calzini.

Ma oltre al vitto ed al vestiario chiedevano il lavoro ed un alloggio, dal momento che i finanziamenti non arrivavano più e quindi erano costretti a provvedere da soli. Ci siamo mossi anche per questo e sovente i parrocchiani hanno offerto possibilità di lavoro o hanno messo a disposizione appartamenti a basso prezzo, talvolta accontentandosi solo del rimborso spese.

Si parte insomma dal concreto, dalle cose più necessarie di cui hanno bisogno e si stabilisce un rapporto fraterno, destinato a crescere in profondità.

Hanno tutti esperienze dolorose alle spalle, spesso lunghi periodi di viaggio alla ricerca di accoglienza e solidarietà, sono lontani da casa e nella massima povertà; molti nei loro paesi non avevano da mangiare, pur essendo laureati o tecnici. Trovare un po' d'accoglienza, di amore concreto, è per loro un dono grandissimo e non puoi immaginare quanto siano grati di questo. Sperimentiamo la loro gratitudine in mille modi.

Molto significativo mi sembra un episodio che ha per protagonista una famiglia russa che è stata da noi per due mesi, costretta poi ad espatriare negli USA. In segno di gratitudine e nonostante la loro povertà, hanno voluto mandare per diverse volte un contributo economico di 20-30 dollari alla parrocchia; ed una volta, scrivendo a dei loro parenti che sono in Italia dicevano: «Non andate in quella città o in quell'altra, ma andate a Nettuno, perché lì c'è la gente buona».

 

 

 

Dalla prima accoglienza

al dialogo della vita

GEN'S: Ma, don Angelo, oltre al vostro operato ed all'aiuto degli extracomunitari stessi, come fate a portare avanti questo lavoro? Certamente richiede tanta manodopera.

 

Don Angelo: Tutto ciò che abbiamo finora raccontato non è che una parte della punta di un iceberg che silenziosamente e nascostamente sta sotto, ma grazie al quale può esistere anche la parte superiore. È l'operato della comunità del Movimento dei focolari nella zona, che accomuna fra l'altro l'esperienza della nostra parrocchia con quella di san Giacomo.

Valter: In effetti, fin qui abbiamo soltanto messo in luce l'aspetto che riguarda la prima e importante accoglienza nei confronti di questi prossimi, ma certamente questa esperienza va al di là di essa.

I nostri amici hanno innanzitutto necessità di lavoro, di abitazione, necessità alle quali in vario modo si è cercato di sopperire in questi anni, ma questo non è tutto, è solo l'inizio di un rapporto, di quel dialogo della vita che sentiamo deve andare avanti. Essi soffrono di solitudine, vivono dolorosamente la lontananza dalla patria e soprattutto si sentono emarginati dalla maggior parte della gente. Abbiamo visto come anche qualche invito a pranzo nelle famiglie è per loro una boccata d'ossigeno.

Per noi sono fratelli ed in questi anni ci siamo sforzati affinché il nostro atteggiamento di donazione nei loro confronti non fosse interpretato come un atteggiamento di superiorità. Stiamo cercando di fare del tutto per eliminare i pregiudizi, per metterci nella predisposizione di cogliere i valori umani e le grandi ricchezze culturali che possiedono, così che anche loro si scoprono fratelli nostri e sentono di poter dare a loro volta (penso alla pazienza, alla capacità di sopportare disagi, all'ottimismo che traspare dal loro sorriso, alla fiducia in Allah).

Ci sembra che nei nostri incontri con loro venga fuori questa uguaglianza, questa fraternità della quale sia noi che loro siamo molto contenti. La nostra intenzione (un punto di partenza e insieme di arrivo di questa esperienza) è soprattutto quella di creare l'unità, di far sentire a questi fratelli che siamo una famiglia universale. Questo intento si traduce spesso in opere concrete, senza le quali non è possibile cominciare e neanche portare avanti questo discorso, ma «lo specifico» è creare l'unità. La nostra via è il dialogo soprattutto della vita.

 

 

 

Una «tecnica» originale

 

GEN'S: Come si concretizza questo progetto?

                  

Valter: Innanzitutto cerchiamo di lavorare in comunione, cioè come Chiesa.

Il fatto che sia un lavoro portato avanti dalla comunità tutta intera è una testimonianza che colpisce questi extracomunitari. La maggioranza di loro sono musulmani e spesso fra i musulmani è diffuso il concetto che noi occidentali siamo consumisti, che separiamo la religione dalla vita quotidiana e che per questo la nostra fede risulta essere molto blanda. In un certo senso, guardando i paesi «cristiani» è proprio così, ma mi sembra che vedere questa comunità composta da tutte le vocazioni della società, adulti e piccoli, uomini e donne, che si muove come «un corpo» per venire incontro a loro e cercare un dialogo all'insegna della fraternità e dello scambio di valori, li abbia impressionati notevolmente ed abbia loro ispirato un atteggiamento di fiducia e di apertura nei nostri confronti. Così che ora è prassi normale organizzare insieme a loro gli stessi «incontri».

 

 

 

Incontrarsi alla pari

 

GEN'S: Di che incontri si tratta?

 

Valter: Alcuni di loro hanno partecipato al congresso per musulmani amici del Movimento dei focolari di cui si parla in questo stesso numero. Sono rimasti molto contenti e per continuare a tenere vivo il rapporto con tutti si sono organizzati vari incontri più o meno al largo, invitando anche altri a partecipare.

Per noi, alla base di questi incontri di dialogo e di reciproca inculturazione, c'è la convinzione che potremo incontrarci e trovare l'unità soltanto in Dio, nella sua volontà. E quanto più noi saremo cristiani veri, autentici e loro musulmani veri ed autentici, tanto più cammineremo verso l'unità, proprio perché ognuno sarà in linea con ciò che Dio gli chiede.

Anche in loro troviamo questo concetto e ce lo ripetiamo spesso, per evitare rischi di proselitismo o sincretismo.

Di solito si pensa che i musulmani siano gente chiusa nella propria religione, poco aperta al dialogo. Noi stiamo sperimentando proprio il contrario. È chiaro però che questo tipo di discorso suppone che a dialogare siano persone autentiche, tutte intere, che sanno donare se stessi con lo sguardo, col sorriso, con l'accoglienza, con l'amore concreto più che con grandi discorsi (che d'altronde non possiamo fare per le difficoltà linguistiche). Persone che sanno di essere soltanto degli «strumenti» nelle mani di Dio.

Giuseppe: Anche per questa ragione, per ogni incontro abbiamo proposto a tutti una frase a senso compiuto del Vangelo ed una frase analoga del Corano. Nel primo incontro ad esempio la frase del Vangelo era «Amerai il Signore Dio tuo (...) Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12, 30-31). Quella del Corano era «Adorate Dio (...) Siate buoni verso papà e mamma, verso i parenti, gli orfanelli, i poveri, i vicini per sangue e i vicini casuali, verso il compagno di cammino, il figlio della strada...» (Corano 4, 36) , quindi «ogni prossimo» come noi diciamo. Queste due frasi le abbiamo scritte in italiano su due grandi tabelloni, per viverle fino al prossimo incontro, ciascuno secondo la sua fede. Adesso stiamo cercando di scriverle direttamente in arabo (sappiamo che il Corano non ammette traduzione) ed anche in Bengalese che è la loro propria lingua.

Sta venendo in evidenza con loro quanto sia presente anche nel Corano l'amore universale di Dio e come solo quell'amore ci possa veramente unire.

 

GEN'S: Come si svolge un incontro?

 

Giuseppe: Innanzitutto esso vuole essere un momento di comunione culturale reciproca e di riflessione su ciò che ci unisce a vari livelli (umano, spirituale etc.). Ci sono danze, canti, da ambo le parti, si mangia insieme; il tutto in un clima di festa, di desiderio di conoscersi reciprocamente, di comunione. Insieme a questo c'è anche un momento di riflessione sulla Parola di Dio, rimandando all'incontro successivo uno scambio di esperienze su come la si è messa in pratica.

Questi incontri colpiscono molto. Una volta uno di loro diceva: «Se tutti vivessero la religione come qui, le cose andrebbero veramente bene». Sentire questo da loro è tanto. Hanno infatti un carattere un po' schivo, sono un po' timidi. Comunicare un'impressione del genere è un segno evidente della loro gioia.

Sono colpiti anche dal fatto che noi puntiamo prima a porre ciò che ci unisce anziché a ciò che ci divide.

È doveroso chiarire inoltre che in questi incontri non «nascondiamo» niente, nel senso che esponiamo chiaramente anche il nostro pensiero, mostriamo la nostra identità di cristiani; ma questo non è certo un ostacolo, anzi contribuisce a far sì che il cammino verso l'unità si costituisca sul mutuo rispetto e non si faccia un superficiale miscuglio di convinzioni diverse.

Cerchiamo di rispettare anche i loro modi di fare. Per esempio proprio in questi giorni avremmo voluto tenere un altro incontro, ma visto che siamo nel Ramadan ci hanno suggerito di rinviarlo.

 

 

 

A scuola d'italiano

ma nello spirito di comunione

GEN'S: Realizzate altre attività concrete?

 

Don Angelo: In seguito al primo incontro, ci si è accorti che un grande ostacolo allo scambio e alla comunicazione fra di noi è la difficoltà per loro di comprendere e parlare l'italiano. Ci hanno chiesto in quell'occasione stessa di aiutarli ed allora abbiamo allestito una «scuoletta di italiano», nella mia parrocchia; e per chi poi si è trasferito a Roma, abbiamo, con i nostri amici romani, creato un'altra possibilità d'insegnamento.

Giuseppe: Anche in questa occasione abbiamo cercato di muoverci a corpo: abbiamo vagliato la proposta fra i responsabili del Movimento della zona, abbiamo lanciato l'idea a tutti ed abbiamo raccolto la disponibilità di ognuno, stabilendo dei turni di «lezione».

Abbiamo visitato altre quattro scuole simili nel nostro territorio, ma nessuna di esse ci sembrava rispondere pienamente alle esigenze dei nostri extracomunitari ed al nostro spirito. Sentivamo di non dover fare una scuola nel vero senso della parola: la nostra doveva creare innanzitutto il rapporto umano fra tutti. Era necessario conoscerci ad uno ad uno, interessarci delle famiglie, dei costumi, del cibo, delle usanze, degli studi... Così è stato, ed ogni «lezione» si è trasformata in un altro piccolo incontro di comunione. Talvolta abbiamo addirittura portato qualcosa da mangiare e lo abbiamo condiviso lì stesso. Abbiamo inoltre prodotto un alfabetiere con disegni fotocopiati da consegnare a ciascuno di loro.

Ma l'amore suscita una risposta. Infatti, sono stati così grati di tutto questo che hanno voluto come segno di riconoscenza, nonostante la loro spaventosa povertà, organizzare una cena per noi con cibi tipici del Bangladesh. Era uno spettacolo. Il riso preparato nei modi più svariati possibili, persino il dolce di riso. Noi siamo stati molto contenti di questo, perché è stata un'occasione per sentirci tutti sullo stesso piano, in modo che l'amore sia veramente reciproco.

Valter: È stata una serata memorabile. Ci hanno raccontato tanto dei loro costumi, della vita famigliare, dei loro paesi. Il tutto con canti tipici, addirittura con l'aiuto di un ex cantante della TV bengalese. Era insomma un momento di famiglia e tutto secondo il loro modo di fare. Per esempio, dopo che si è servito da mangiare, nessuno cominciava a mettere mano alle posate. Tutti aspettavano che fossi io a cominciare, essendo il più anziano (valore che hanno conservato nella loro cultura). Ho dovuto inoltre inventare lì per lì una preghiera di benedizione nel nome di Dio misericordioso (attributo frequente nel Corano), per benedire cibi e commensali. Per loro è molto importante la benedizione; ogni volta che qualcuno di loro mi telefona, il discorso si chiude sempre con un «Che Dio ti benedica!». Noi sottolineiamo che, essendo Dio misericordioso, anche gli uomini creati con il suo spirito non possono che riflettere nei loro rapporti questa misericordia.

 

GEN'S: Hanno un punto di riferimento religioso nella zona?

 

Valter: In questi giorni sarà inaugurata la Moschea di Roma. Noi li stiamo incoraggiando vivamente ad andare. Abbiamo contatti anche con l'imam che ci ha invitati all'inaugurazione. Sono contentissimi che anche noi saremo presenti quel giorno, perché per loro la moschea non è solo un tempio, ma è il luogo di riunione, di incontro di tutta la comunità.

 

 

 

«Allah ci aiuti a vivere l'unità»

 

GEN'S: In conclusione, quali vi sembrano i frutti più importanti di questa esperienza e quali le prospettive future?

 

Don Angelo: Penso che il frutto che a prima vista risalta più di tutti è il fatto che, sebbene lentamente, in questi anni è incominciata una progressiva crescita nell'unità. Unità nel senso di dialogo fra cristiani e musulmani e unità anche fra loro stessi. Nei primi tempi della nostra esperienza certamente non c'era la profondità di rapporto che oggi si può costatare fra di loro. Ora non si tratta di ricevere passivamente l'aiuto, l'accoglienza; sono diventati parte attiva di questo operare: si aiutano vicendevolmente; chi ancora non ha lavoro viene nel frattempo sostenuto dagli altri; chi non ha casa viene temporaneamente ospitato, e tanti altri casi del genere.

Don Marco: Un altro frutto molto importante, scaturito anch'esso da questa crescita nel rapporto, è che ormai si può tranquillamente dire che questi emigrati non sono più degli extracomunitari qui a Nettuno. Certo restano sempre bengalesi, tunisini etc., ma non vivono qui come in un ghetto, ma si sentono a tutti gli effetti - e lo sono parimenti - parte viva della nostra società.

Valter: Io ho l'impressione che oltre ad essere cresciuta l'unità in Dio, sia cresciuto anche l'anelito ad essa in noi e in loro, il desiderio di realizzarla quanto più perfettamente possibile e quanto prima possibile. Dopo ogni incontro, lasciamo sempre dei fogliettini, dove ciascuno può scrivere alcune impressioni sulla giornata trascorsa insieme e mi ha colpito una volta un giovane bengalese che concludeva la sua impressione così: «Che Allah ci aiuti a vivere l'unità!».

Questa è la nostra prospettiva per il futuro. Può sembrare ardimentosa, ma sperimentiamo ogni giorno che è possibile, se sappiamo perdere per amore la nostra cultura, la nostra lingua, le nostre usanze e farci per amore - come direbbe oggi s. Paolo - bengalesi con i bengalesi, tunisini con i tunisini, tutto a tutti (Cf 1 Cor 9, 20-22). Ed ora possiamo costatare come questo desiderio, questo anelito non è solo una nostra prerogativa, ma è esigenza anche di questi nostri fratelli musulmani.

 

Alessandro Mayer