Dal Pakistan: rinnovare la
vita dei cristiani e aprire un dialogo con i musulmani
La via della vita
Rufin Anthony
Rufin, freschissimo di
ordinazione dopo gli studi teologici all'Università Urbaniana, non vedeva l'ora
di tornare finalmente alla sua terra nel Pakistan per immergersi nella
pastorale, ma il suo vescovo gli aveva scritto di non muoversi da Roma fino al
suo arrivo e di approfittare dei mesi estivi per fare un po' di vacanze. Quando
giunse in quel settembre del 1968, gli fece una proposta inattesa: «Sarei
contento - gli disse - che tu frequentassi per un anno la Scuola per sacerdoti
aperta da poco dal Movimento dei focolari».
Restai interdetto
e feci presente che di studi ero veramente stufo e di
continuarli non me la sentivo proprio. Egli però, con una convinzione che gli
veniva dal cuore, mi disse: «No, Rufin, questa scuola è differente dalle altre
e sarà molto utile per te e per la diocesi». Volevo bene al mio vescovo come ad
un padre ed accettai, anche se dentro di me restava qualche dubbio.
Senza neanche una stanzetta
per me
Andai dunque a Grottaferrata
per cercare la sede di questa Scuola e non potevo credere che fosse quel
piccolo e vecchio edificio che trovai seguendo l'indirizzo che mi era stato
dato. Forse mi ero sbagliato. Invece no, era proprio quella villa un po'
cadente, dove mi attendevano alcuni sacerdoti. Chiesi della mia stanza per
sistemare le mie valigie e, con sorpresa e sconcerto, mi fu indicato un salone
con tanti letti. Erano ormai alcuni anni che avevo una stanza tutta per me ed
ora dovevo tornare a vivere insieme ad altri e per di più con gente
sconosciuta! Pensai: «Povero me dove sono capitato! Certamente il mio vescovo
non conosce questo ambiente!». D'altra parte il dado era tratto e non mi
restava altro da fare che attendere la fine di questo nuovo ed originale anno
scolastico. In fondo noi orientali, diversamente da quello che vedevo in Europa
in quel famoso '68, non ce la prendiamo molto con le strutture, perché sappiamo
trovare sempre un modo per sopravvivere.
Mi affascinava la
spiritualità
La Scuola ebbe inizio.
Eravamo una settantina tra preti e seminaristi. Al mattino si lavorava e al
pomeriggio, in un saloncino francescanamente povero, si davano lezioni di
spiritualità corredate da esperienze di vita vissuta.
La convivenza con gli altri
nell'impegno di vivere insieme il comandamento nuovo di Gesù e le lezioni che
ascoltavo, pian piano mi aprirono la mente ad una nuova visione del
cristianesimo. Avevo studiato teologia con molto impegno ed ero stato un buon
alunno in collegio, ma sempre da solo pur vivendo in mezzo a tanti. Qui invece
mi sentivo impegnato in prima persona a vivere un cristianesimo di comunione,
come l'avevo intravisto negli Atti degli Apostoli e nelle lettere paoline.
Imparai così a credere
all'Amore, ma anche a renderlo concreto nei nostri rapporti. Mi stupiva in
maniera straordinaria il mistero di Gesù crocifisso e abbandonato. Ero abituato
alla rinunzia e ancor più lo è il mio popolo, ma ora essa prendeva un altro
significato: capivo che davanti a Dio e al prossimo dovevo, come Maria, essere
aperto e vuoto, un vuoto d'amore dove tutti si sentono bene. Avrei trovato qui
la chiave per iniziare un rapporto diverso anche col mondo musulmano nel mio
paese.
Un'altra cosa che mi
attirava era l'unità. Conoscevo il valore dell'obbedienza e mi trovavo così
bene col mio vescovo, ma l'unità era qualcosa di più, era dare tutto, anche la
vita per l'altro, era generare con l'amore mutuo la presenza del Risorto nella
comunità. Questa presenza viva del Cristo in mezzo alla comunità cristiana del
Pakistan avrebbe potuto risolvere i tanti problemi della nostra Chiesa.
Tra cristiani e musulmani
Il tempo della Scuola era
trascorso più rapidamente di quanto avevo immaginato all'inizio e mi trovai in
partenza all'aeroporto di Fiumicino con un gruppo di sacerdoti che mi
auguravano di portare e di diffondere nella mia terra la gioia sperimentata
nella Scuola.
La spiritualità dell'unità,
infatti, non era solo un aiuto per il mio ministero, ma mi appariva come una
via: la via della vita, una via moderna che Dio offre a tutti.
Cominciai il mio lavoro
pastorale. I cristiani in Pakistan, sparsi in tanti piccoli villaggi, sono
molto poveri. Per visitarli dovevo affrontare lunghi viaggi in mezzo a nuvole
di polvere d'estate e a canali di melma durante la stagione delle piogge.
Vedendo la miseria in cui tutti vivevano, mi si stringeva il cuore e sorgeva
spontanea la domanda: cosa avrei potuto fare per migliorare le loro condizioni
di vita? Non avevo a mia disposizione grandi mezzi, ma almeno potevo farmi uno
con loro, spronarli ad aiutarsi di più tra di loro e a perdere ogni senso di
inferiorità rispetto al mondo musulmano, mettendo in atto l'amore che tutto
vince.
Gesù in mezzo a distanza
In quegli anni non c'era
ancora il focolare nel mio paese e mi sentivo solo. A volte mi perdevo di
coraggio di fronte alle innumerevoli difficoltà che incontravo sia all'interno
della Chiesa che nell'ambiente musulmano predominante. Leggevo allora e
meditavo gli scritti di Chiara, ma non avevo molta esperienza per incarnarne lo
spirito nel mio ambiente. Una volta venne a visitarmi Toni Weber: ebbi
l'impressione di risuscitare. Egli mi aiutò a capire che, pur essendo ancora
solo nel vivere questa spiritualità nella mia diocesi, non dovevo sentirmi
tale, ma credere, come insegnano i Padri, che anche a distanza possiamo tenere
Gesù presente in mezzo a noi, se ci sforziamo di fare in ogni momento la
volontà di Dio.
Dopo sette anni mi si
presentò l'occasione di passare un nuovo periodo alla Scuola Sacerdotale. Mi
fermai tre mesi e mi sentii rinnovato nel mio intimo e scoprii quanto era
importante mantenere stretti rapporti con la fonte del carisma per avere la
forza di affrontare nella luce i problemi che incontravo.
Al mio ritorno il vescovo mi
affidò il compito di vicario generale, un lavoro difficile. Dissi il mio sì
nella fede. Era difficile per me prendere decisioni, perché spesso mi sentivo
frenato dal rispetto umano e dal timore di far soffrire qualcuno. Nell'unità
col vescovo e, mettendo al primo posto l'amore verso il fratello, ho affrontato
e superato momenti particolarmente difficili.
La verità vi farà liberi
Dopo due anni sono stato
inviato di nuovo in parrocchia, nel mio villaggio natale. Qui le difficoltà
erano ancora maggiori. Innanzitutto per il rispetto umano e per i legami di
parentela che da noi possono condizionare l'attività del sacerdote e poi per le
solite difficoltà di rapporto della comunità cristiana con quella musulmana. Ho
cercato di avere come norma di ogni azione la Parola di vita ed ho sperimentato
come sia vero che «la verità vi farà liberi».
Ai cristiani ho cercato di
donare quanto io stesso vivevo, insegnando soprattutto con l'esempio. Nei
rapporti con i musulmani le difficoltà erano maggiori perché, quando li
incontravo, essi neanche mi guardavano. Se hanno un senso di superiorità verso
i semplici cristiani, verso il sacerdote cattolico, più istruito di loro, hanno
un senso di timore. Capii che toccava a me fare il primo passo, salutandoli
ogni volta che li incontravo e mettendo in luce i loro lati positivi. Oggi,
quando arrivo in un villaggio, sono loro i primi a salutarmi e i rapporti con
gli altri cristiani ormai si basano sulla stima mutua.
Ora in Pakistan ci sono già
due focolari, maschile e femminile, e c'è già una bella comunità che vive
questo spirito. Per me è motivo di grande gioia, se ripenso al cammino fatto in
questi anni. Il mio vescovo aveva ragione in quel lontano 1968, quando mi disse
del suo desiderio che questo «fuoco» fosse acceso anche nel nostro paese.
Rufin Anthony