Dall'Africa: la Scuola salva una vocazione e prepara alla missione

 

 

L'avventura di uno scozzese

 

 

di Vincent Lockhart

 

La sua avventura comincia nella Scozia, dove Vincent Lockhart faceva parte di un gruppo cristiano che si prendeva cura delle persone abbandonate. Quando conobbe il Movimento dei focolari trovò la risposta a ciò che da tanto tempo cercava: coniugare armonicamente l'unione profonda con Dio con la vita quotidiana. Ebbe l'impressione di trovarsi immerso in una delle prime comunità cristiane e, senza saperselo spiegare, si sentì attratto verso il sacerdozio. Non immaginava certamente che stava iniziando un cammino che dalla terra di Scozia lo avrebbe portato alle terre d'Africa.

 

Il mio primo  passo fu di  entrare  in seminario, dove speravo di trovare la stessa vita evangelica che stavo sperimentando fuori, ma la realtà che incontrai fu un po' diversa. Era in atto una forte divisione fra professori e studenti che generava un'atmosfera di critica. Era un periodo difficile per i seminari ed in quegli anni anche i migliori studenti interrompevano il loro cammino verso il sacerdozio.

Avevo deciso anch'io di abbandonare il seminario ma, per non lasciare morire gli ideali che avevo nel cuore, chiesi consiglio ad un sacerdote che aveva appena finito la Scuola Sacerdotale. Egli mi propose di trascorrere un periodo alla stessa Scuola.

Accettai il suo consiglio e partii subito dalla mia isola nel nord della Scozia alla volta di Frascati, ignaro di quello che mi aspettava, ma con la speranza che l'Ideale dell'unità mi avrebbe portato avanti così come un giorno mi aveva fatto scoprire la vocazione al sacerdozio. Era il 1974.

 

 

 

Dipingendo un'inferriata

 

All'entrata della Scuola, ancora oggi vi sono un cancello di ferro, una siepe e un'inferriata. Passando di lì si può non farci caso, ma io, ogni volta che mi trovo a Frascati, mi fermo sempre ad osservarli per alcuni minuti. Costituiscono un punto fermo nella mia vita. Per sei settimane ho pitturato quell'inferriata assieme a  Charles, Fernand e Daniel. Charles era un vietnamita e nella sua terra era considerato un sacerdote di grosso calibro, ma questo mi sembrava che non avesse nessunissima importanza. Anche se eravamo sacerdoti e seminaristi, ci avevano affidato un'umile mansione: dipingere un'inferriata «con amore». Nei primi giorni ho pitturato in silenzio e per mio conto, con competenza e scrupolosità scozzese, credendo che questo bastasse per fare le cose «con amore». I miei compagni erano per me una distrazione, un'interferenza nel lavoro che stavo facendo.

Ma essi avevano capito meglio e in un senso più ampio il significato di far le cose «con amore», ed erano riusciti a connettere la dimensione spirituale dell'amore con quella concreta, il lavorare da soli e il lavorare con gli altri, il rispetto per il lavoro che si stava facendo e il rispetto per le persone con le quali si lavorava. Sono stato attratto da questo amore e piano piano ho imparato a pitturare sempre più «insieme a loro».

Durante il lavoro abbiamo parlato della nostra vita, dei nostri paesi, non soltanto di come si dipinge un'inferriata, ma anche della presenza di Dio in ciascuno di noi e di come egli ci aveva messi insieme da paesi così diversi. Il legame cresceva tra di noi in profondità e sentivamo Gesù realmente presente in mezzo a noi.

Tutte le volte che mi fermo lì davanti a quell'inferriata sento ancora oggi una particolare presenza di Dio e ricordo con riconoscenza coloro con i quali ho lavorato.

 

 

 

La scoperta del sacerdozio regale

 

La vita alla Scuola era molto semplice. Non avevamo delle grandi responsabilità. Ogni giorno c'era meditazione, lavoro, riposo, formazione, Messa e un incontro per condividere le nostre esperienze. Forse perché favoriti dal fatto di essere liberi dagli studi e dagli impegni pastorali, alla Scuola riscoprivamo noi stessi come cristiani ed eravamo denudati del clericalismo. Non potendo appoggiarci al sacerdozio ministeriale, scoprivamo la condivisione della vita a livello di uomini, dove il clericalismo, quell'espressione esteriore del sacerdote solo e autoritario, sembrava essere interamente assente.

Uno dei lavori che facevamo era raccogliere al mercato della città i resti delle verdure abbandonati dai commercianti, per poter dare da mangiare ai nostri maiali. Un giorno il vescovo Aniger Maria Melillo del Brasile, che era alla Scuola per alcune settimane, chiese di venire con noi. Mentre stavamo raccogliendo le verdure in mezzo alla sporcizia sotto le bancarelle, uno dei venditori mi chiese chi fossimo. Risposi che eravamo sacerdoti e seminaristi e che l'uomo anziano che era con noi era un vescovo. Subito si formò intorno a noi un piccolo gruppo di venditori che ci posero tante domande sulla nostra vita. Rispondemmo con semplicità e franchezza e, dopo un momento di silenzio, uno di loro, dando un cenno d'assenso con la testa, ci disse: «Sì! Questo è quello di cui noi abbiamo bisogno: sacerdoti che non hanno paura di essere comuni esseri umani». Questa è stata una delle lezioni più importanti per me che mi preparavo a diventare sacerdote: vivere il vangelo come un normale uomo di questo mondo, senza mai perdere la mia umanità.

 

 

 

Dall'individualismo alla comunione

 

Essere esposto a culture e mentalità diverse indubbiamente ha aperto la mia mente isolana e mi ha arricchito in diverse maniere. Sarebbe comunque uno sbaglio limitare l'esperienza della Scuola a quella di una comunità che gode della riuscita di un'amicizia tra uomini di molte nazioni. Un tale ideale non sarebbe sopravvissuto tutto l'anno che ho passato lì e quelle differenze culturali, intellettuali e anche di età così arricchenti sarebbero diventate motivo di irritazione reciproca e presto si sarebbero espresse in rabbia, giudizi e pregiudizi. Questa unità fra di noi era invece frutto del fatto che noi cercavamo di vivere come una comunità cristiana, amandoci l'un l'altro così come Gesù ci ama, quel Gesù che cercavamo di avere presente in mezzo a noi.

Alla Scuola ho compreso anche che nessuna comunità cristiana basata sull'amore di Cristo può esistere senza l'impegno di vivere e amare la croce. La comunità della Scuola Sacerdotale era unita e cresceva sempre più nella sua unità, primariamente perché ciascuno di noi cercava di rinnegare se stesso e di morire per amore negli altri.

C'erano tante esperienze di questo genere, piccoli passi che ci portavano da uno stile di vita individualistico ad uno stile di vita comunionale. Per esempio, mettersi d'accordo per decidere se dormire con finestre aperte o chiuse, vedere insieme come vestirsi - ricordo una volta di aver indossato, una camicia che non avrei voluto portare addosso neanche da morto - o stabilire insieme come trascorrere il tempo libero.

 

 

 

Il segreto

 

Questo vivere concretamente ciò che il vangelo dice circa la crocifissione e l'abbandono di Gesù era la realtà più profonda e spesso nascosta della Scuola. Era un motore che, senza farsi vedere, faceva da propulsore alla nostra vita comunitaria e ci faceva andare sempre avanti.

Come tutti, io ho sofferto tantissimo alla Scuola, ma sono immensamente grato per quest'esperienza, perché mi ha messo più vicino agli altri, a me stesso e a Dio, sì da farmi costatare coi miei occhi che la risurrezione è una realtà uguale a quella della croce, nel senso che può essere sperimentata concretamente così come si sperimenta la croce.

Uno dei mezzi con cui la Scuola ci avvicinava di più a Dio e costruiva l'unità tra di noi era il condividere le esperienze della Parola vissuta. Erano momenti molto belli. Non era certo facile, perché non bisognava tanto comunicare delle riflessioni spirituali o produrre omelie - pericolo nel quale facilmente ricadevano i sacerdoti - ma di donare la propria vita, dire cioè come ognuno aveva messo in pratica il vangelo durante la giornata. Alcuni di noi non erano abituati a questa condivisione e hanno trovato difficoltà all'inizio, perché la nostra formazione era fondata su una spiritualità individualistica. Anch'io avevo ricevuto questa formazione e in più sono scozzese, così che anch'io ho dovuto superare grosse difficoltà. Ma, ascoltando gli altri che raccontavano esperienze semplici o che rivelavano l'azione di Dio nella loro vita, mi sono sentito più vicino ad ogni persona. E più riuscivo ad entrare nell'anima altrui, più ero capace di donare me stesso.

 

 

 

La scoperta «vitale» delle verità della fede

 

Questa comunione fa capire che lo stesso Dio è presente e agisce in ognuno di noi, e ci fa uno. La Trinità ha avuto un senso per me e l'unità non è rimasta più un semplice concetto teologico. Amando ho conosciuto Dio («Chiunque ama... conosce Dio», cf 1 Gv 4, 7). L'esperienza della Scuola mi ha dato inoltre una nuovissima visione della Chiesa. Era interessante notare che proprio in quegli anni, quando intorno alla Chiesa arieggiava un'atmosfera di negatività, noi riscoprivamo il suo valore e la sua preziosità. È stata proprio la nostra comunione che, facendoci Chiesa, ci ha spalancato il cuore sulla sua bellezza e sulla sua missione nel mondo.

Con questa luce nuova nell'anima accettai con gioia l'ordinazione presbiterale.

 

 

 

La spiritualità dell'unità e la cultura africana

 

Adesso mi trovo da dieci anni in Africa, a Fontem (Camerun), una delle cittadelle del Movimento dei focolari, e vivo insieme ad altri sacerdoti che seguono la spiritualità dell'unità.

Avere imparato alla Scuola a vivere l'unità e ad andare a Dio attraverso il fratello, ha fatto sì che ora in Africa io abbia qualcosa di valido da donare. Una delle pietre miliari della cultura africana è la comunità. Siccome noi sacerdoti viviamo in comunità e condividiamo ogni cosa tra noi, questo stile di vita è già di per sé evangelizzante per gli africani. Anche il mistero più alto del cristianesimo, che cioè le tre Persone divine sono un solo Dio, viene spiegato in qualche modo dalla nostra vita, frutto del continuo dono di sé, dell'annientamento di sé nell'altro, per far risplendere l'amore.

Questo mettere Dio prima del sacerdozio, questo dare importanza primaria al vivere il sacerdozio regale che noi condividiamo con tutti i cristiani costituisce un profondo appello, un richiamo per l'ambiente africano.

Ho visto che un sacerdozio, che illumina il suo significato e la sua forza nella spiritualità dell'unità, ha una grande attrattiva sui seminaristi e sui sacerdoti africani. Tanti seminaristi hanno paura di diventare sacerdoti per la solitudine che li attende, perché sentono questo in contraddizione con la loro cultura. Il sacerdote, se appartato, si pone al di fuori della vita del popolo e corre il rischio diventare un semplice venditore ambulante di moralità e di pietismo. Vivendo la spiritualità dell'unità i seminaristi e i sacerdoti africani trovano che non solo si realizza l'identità culturale di solidarietà tra di loro e tra loro e i laici, ma anche si conferma e rafforza la convinzione che la vita del vangelo può essere incarnata in un modo «africano».

Nell'edificio della missione dove io vivo c'è una siepe fatta di lunghi alberelli, piantati da Andrew, un seminarista, e da me. Quando stavamo piantando questa siepe, noi parlavamo e condividevamo tante cose, circa l'esperienza di Dio nella nostra vita. Questo fatto mi ricordava ciò che era successo anni prima davanti all'inferriata della Scuola di Frascati. Capisco ora che la proposta di andarci era venuta da Dio, che mi chiamava al sacerdozio e mi donava la possibilità di viverlo in una maniera molto più bella di quanto avrei mai potuto immaginare, un sacerdozio che, vissuto in unità, rende visibile Dio in questo mondo.

 

Vincent Lockhart