Dal Belgio: a scuola senza
libri, per imparare a vivere
Il professore diventa
alunno
di Jacques Renders
A 42 anni, undici di
sacerdozio, Jacques del Belgio sente il bisogno di prendersi, col consenso del
suo vescovo, un anno sabbatico e così interrompe il suo lavoro d'insegnante ed
altri impegni pastorali per venire alla Scuola Sacerdotale di Loppiano. Questo
perché, nonostante la buona formazione ricevuta in seminario, sente diminuire
in sé la dimensione spirituale con gravi conseguenze nella sua vita di prete.
Da qualche anno ero venuto a
conoscenza
del Movimento dei focolari e
della sua spiritualità. Fu un grande balzo in avanti, perché potevo incontrare
dei sacerdoti con i quali era possibile trovare il tempo per parlare di Dio e
della propria fede, ma avvertivo che questo non mi bastava: dovevo passare da
una scoperta teorica dei punti cardini della spiritualità ad un'incarnazione
nella vita di ogni giorno. Ne parlai col mio vescovo ed ottenni l'anno
sabbatico.
Eccomi dunque per un anno a
Loppiano, alla Scuola Sacerdotale. All'inizio mi sentivo quasi in ferie. Lo
studio della lingua italiana assorbiva gran parte delle mie energie. Ma presto
le ragioni vere della mia presenza vennero alla luce. Ero lì per approfondire
il mio rapporto con Dio e, conseguentemente, per rivedere tutto il mio modo di
vivere il cristianesimo.
Prima la pratica, poi la
grammatica
Dopo un breve periodo di
adattamento, scrissi nel mio diario: «Sono due mesi che il professore è
diventato alunno! Sotto tanti aspetti! In primo luogo, seguo il corso di lingua
italiana. È una lezione che come pratica dura dal mattino alla sera, mentre
come teoria dura solo un'ora al giorno e una mattinata alla settimana. Un
metodo un po' curioso visto che, contrariamente all'uso corrente, qui prima
s'impara la pratica e poi la grammatica. Curioso, ma efficace.
Seguo anche il corso su “le
civiltà del mondo”, grazie alla diversità delle 15 nazioni attualmente presenti
a questa Scuola, senza tener conto dei numerosi visitatori che vengono da ogni
parte. Sono allievo anche nella falegnameria e in altri diversi lavori in
questa grande casa. Altri fanno da mangiare, lavano o stirano, puliscono,
lavorano nel giardino o nell'orto: facciamo tutto da noi, senza operai o donne
di servizio. Ma l'importante è essere pronti a cambiare lavoro, non attaccarsi,
essere disponibili, visto che tutti lavoriamo per la comunità e non,
individualisticamente, ciascuno per sé, e i bisogni della comunità possono
cambiare da un momento all'altro».
Dall'individualismo alla
comunione
«Questo tipo di vita
richiede un certo sforzo al quale non sono abituato. Noi sacerdoti spesso
lavoriamo da soli, decidiamo da soli e organizziamo individualmente le nostre
attività. Per me tutto è diventato più facile quando ho deciso di non pormi più
la domanda perché o perché io. Il
programma cambia? Va bene così! Chiedono a un altro di fare questo lavoro che
mi piace o nel quale mi sento competente? Bene! Avevo del tempo libero e se n'è
andato in fumo? Potrei arrabbiarmi... ma a che cosa serve? Non si tratta
affatto di rassegnazione ma di semplificazione della vita, di disponibilità
agli altri e agli avvenimenti: è vivere bene il momento presente».
«Il soggiorno in questa
singolare Scuola è proprio un appuntamento con il Signore e vedo quanto grande
è la sua bontà per me. Egli è di una pazienza infinita e con essa egli ottiene
da me un cambiamento di condotta che prima mi sembrava impossibile. Credevo,
per esempio, in buona fede, di vivere già da cristiano. Adesso vedo che seguire
Gesù, fare quello che Dio si aspetta da me, richiede un impegno totale e
incondizionato. Davanti all'invito di scegliere solo Dio, sono rimasto bloccato
per un mese. Come mi è stato difficile arrivare ad abbandonarmi alla volontà di
Dio, decidere di fare solo questa e nient'altro, al cento per cento! Prima
questa sottomissione mi sembrava un'attitudine passiva e servile. Oggi constato
che richiede una vera lotta ogni giorno e un impegno che esige la messa in
opera di tutte le mie risorse. Lotta che porta però una gioia profonda. Nasce
allora un'altra sensibilità e sento la necessità dell'aiuto degli altri per
capire questa volontà di Dio e per rimanervi immerso».
Lasciarsi formare all'unità
«In fondo è anche molto
semplice, perché tutto si riassume nell'amore del prossimo, nell'unità
realizzata tra tutti. In quest'ottica, lasciarsi formare è un'attitudine
attiva. Sto imparando a misurare l'utilità delle mie azioni secondo un altro
criterio. Come la pioggia che cade sull'asfalto della strada è totalmente
inutile per la terra che vi sta sotto, tanti buoni desideri e anche tante
realizzazioni che ho portato avanti con la mia testa nel passato, mi sembrano
oggi totalmente inutili, perché fatti fuori dell'amore che Dio mi chiedeva per
gli altri».
Distacco e libertà
Un mese più tardi scrivevo
ancora: «Una delle cose che approfondisco qui è il distacco. Già per prendere
la mia decisione e venire qui avevo dovuto fare qualche passo in questo senso:
rinunziare alla professione, abbandonare la patria, gli impegni, gli amici, le
abitudini, la mia lingua... In questa Scuola tutta la nostra vita si svolge in
comunità e per entrarvi un po' dentro bisogna perdere almeno in parte le idee e
i desideri personali. Qui mettiamo le nostre cose, le auto, i talenti personali
a disposizione di tutti, e mettiamo in comune anche i nostri soldi. Mettiamo
insieme anche le nostre idee in uno scambio fraterno e l'importante non è che
sia la mia ad essere adottata, ma quella che ci sembra migliore».
«Per il lavoro, da quando
non sono più in falegnameria, cambio spesso e conosco solo al mattino il
compito che mi attende. Mi fa molto bene per distaccarmi... Nei fatti concreti
questo distacco vuol dire povertà. Per me non si tratta di indifferenza,
neanche di santa indifferenza per essere più accetto a Dio, ma piuttosto l'aver
scoperto che l'importante nella vita è la comunione. Mi sono sentito a mio agio
davanti a questo scritto di San Basilio trovato sulla porta di un monastero
vicino Firenze: “Il pane che sprecate è il pane dell'affamato. La tunica appesa
nel vostro armadio è di colui che è nudo. Le scarpe che non mettete sono quelle
di chi non ne ha. I soldi che tenete nascosti sono quelli del povero. Le opere
di carità che non fate sono altrettante ingiustizie che commettete”».
La famiglia dei Focolari
«In questa Scuola di vita ho
sentito una nuova chiamata di Dio, più radicale di quella al sacerdozio
percepita a 17 anni, ma col vantaggio che ora mi è stata offerta con chiarezza
anche la possibilità di rispondervi più facilmente, perché questa spiritualità,
oltre ad organizzare ed illuminare la
vita evangelica che voglio vivere, mi offre anche una famiglia spirituale in
seno alla quale posso crescere, la famiglia del Movimento dei focolari, che sto
scoprendo sempre più tramite il carisma della sua fondatrice e le diverse
vocazioni che la compongono».
Trovo nel mio diario altre
scoperte fatte durante la Scuola: «In questi ultimi giorni mi sembra di aver
capito, dopo due settimane un po' difficili, che consacrarsi a Dio significa
vivere per Lui ogni momento, rispondendo concretamente a ogni attesa di aiuto,
di ascolto di tutti quelli che mi stanno attorno. Dunque, vivere costantemente
fuori di me, verso gli altri, verso l'Altro. Non ci sono ancora totalmente
arrivato, ma è quello che cerco di realizzare».
Disponibile allo Spirito
Nell'ultimo periodo della
Scuola compresi alcune cose importanti. Scrivevo: «Sento che Dio ha un progetto
d'amore per ogni uomo. Lo percepisco molto bene quando qualcuno, che a lui si è
consacrato, racconta quello che ha vissuto. È interessante vedere quel che Dio
ha realizzato in lui e con lui a partire dal momento in cui egli si è
abbandonato alla volontà del Padre. Sempre più chiaramente vedo che questo vale
anche per me: è lo Spirito Santo che lavora, che agisce in me, che mi trasforma
e mi rivela il suo progetto nella misura in cui sono aperto a lui, disponibile
e capace di lasciarmi lavorare.
«Capisco che non posso più
dirmi cristiano e ancora meno sacerdote senza puntare tutto su Cristo; invece
di decidere da solo su cosa farò o non farò, come facevo prima, ora cerco di
capire con l'aiuto degli altri quello che Dio prevede per me. Accolgo gli avvenimenti
gradevoli o sgradevoli, cercando di cogliere anche in essi qualche cosa di ciò
che mi vuol dire il Signore».
Un punto di riferimento
La mia permanenza alla
Scuola ebbe termine, anzi passò come un lampo, ed io tornai in Belgio.
Ancora oggi, dopo cinque
anni, non so valutare appieno tutto quello che questa esperienza mi ha donato.
Certamente ho capito un po' la spiritualità dell'unità e cerco di viverla.
Sento che questo impegno, portato avanti in unità con altri sacerdoti, mi aiuta
a vivere meglio come cristiano e come prete nella Chiesa di oggi. Mi aiuta a
rimanere in piedi, a sapere come comportarmi in ogni circostanza o davanti a
nuovi impegni che si presentano. Mi è di luce particolarmente nella mia
delicata missione di sacerdote, di animatore, di consigliere spirituale. Ne
rendo grazie a Dio.
Quest'esperienza è stata per
me un evento importante, perché è riuscita a rifondare la mia vita cristiana su
ben solide basi. Per questo è rimasta come un punto di riferimento che mi aiuta
a mantenere la rotta giusta. Da allora sono stato più cosciente del fatto che
le mie parole e i miei gesti evangelizzano solo nella misura in cui permetto a
Gesù di esprimersi attraverso di me, nella misura in cui incarno la Parola di
Dio che annunzio. Oggi, prima di mettere in moto una qualunque iniziativa in
campo pastorale, verifico in unità con i collaboratori se conviene, se
costruisce qualcosa di valido per la comunità.
Anche nel mio paese la
spiritualità dell'unità ha seminato germi di vita evangelica non solo tra i laici,
ma anche tra i sacerdoti. Anche noi preti ora ci ritroviamo insieme e
sperimentiamo che il presbiterio, più che un fatto giuridico, può e deve essere
un'esperienza di comunione ecclesiale, dove si sperimenta la presenza di Cristo
tra i suoi.
Jacques Renders