Dall'Irlanda: la Scuola
Sacerdotale, memoria creativa e centro di comunicazione
di una cultura trinitaria
Un intellettuale alla
Scuola
di Brendan Purcell
Alla fine dei suoi studi
in seminario dopo la metà degli anni sessanta, Brendan Purcell, sacerdote
irlandese di Dublino, era così frustrato e irritato per la costante tensione
tra l'autoritarismo allora vigente e il suo impellente bisogno di libertà, che
aveva giurato di non mettere più piede in seminario. Ma negli anni
immediatamente successivi alla sua ordinazione, avvenuta nel 1967, aveva dovuto
affrontare problemi personali che non erano affatto toccati dagli slogan di
quel tempo, che ripetevano i soliti motivi di autorità contro libertà,
tradizione contro rinnovamento, ecc. I suoi problemi veri erano la solitudine e
l'aridità. Ora che poteva liberamente essere quell'individuo a cui aveva tanto
aspirato, portando avanti i suoi studi di filosofia e psicologia, proprio ora
si sentiva completamente perduto senza sperimentare un minimo di comunione con
gli altri. Ma Dio non lo avrebbe lasciato vagare da solo per lungo tempo.
Non parlerò di quella che è
stata la crisi del mio sacerdozio, che mi ha portato dagli studi di Lovanio a
Berlino orientale e da lì in Cecoslovacchia, una crisi che era in atto nella
vita di migliaia di preti di quel tempo. Mi limito a dire che lì per me c'era
in serbo una miniera d'oro, una piccola comunità di giovani cecoslovacchi, che
cercavano di vivere come i primi cristiani del ventesimo secolo.
Mi dissero che questa vita
l'avrei trovata anche nella mia terra e che avrei pouto chiedere, al mio
ritorno, del focolare di Dublino. Quando tornai in Irlanda e seppi dove esso si
trovava, mi ci recai immediatamente. Proprio per caso - anche se più tardi mi
sono reso conto del filo d'oro dell'amore di Dio che lega tutte queste cose -
un seminarista argentino, Enrique Cambón, si trovava lì e mi suggerì di andare
a visitare, appena possibile, la Scuola Sacerdotale che allora si trovava a
Frascati.
Ci andai più volte, ma solo
dopo alcuni anni mi fu concessa una licenza sabbatica dall'università statale
dove insegno: così potei restare a Frascati per nove mesi. Ero un po'
spaventato salendo il colle dove si trova la Scuola, ma appena vidi gli altri
«scolari» - preti e seminaristi dell'Asia, Africa, Europa dell'Est e dell'Ovest,
e America del Sud - mi resi conto che questa Scuola non l'avrei fatta da solo,
cioè non secondo l'orientamento individualistico su cui mi ero formato nel
periodo di seminario.
Vorrei precisare che cosa la
Scuola ha significato per me. Suddividerei l'esperienza in due fasi, nessuna
delle quali potrebbe essere veramente separata dall'altra, anche se c'è una
certa ovvia priorità nella prima fase. Ho intitolato questi ricordi: «La Scuola
Sacerdotale come centro di comunicazione della cultura trinitaria», perché ora
costato che tale essa è stata, e ho premesso l'espressione «Memoria creativa»,
per il fatto che la Scuola ha prima rivissuto una memoria, e poi ci ha
incoraggiati ad essere creativi con quella memoria. Quale memoria? La memoria a
noi proposta era quella di una comunione di persone modellate a mo' della
Trinità, e la creatività che essa doveva suscitare in noi era quella di formare
comunità dello stesso tipo. Questo può risultare chiaro se guardiamo a ciascuna
delle due fasi distinguendovi tre momenti: Proposta, Apprendimento,
Identificazione.
I. La memoria della
comunione
1) Proposta
Ovviamente c'era un
messaggio che veniva trasmesso nella Scuola: i 12 punti della spiritualità del
Movimento dei focolari, che si possono ricondurre agli articoli del Credo,
visti dalla prospettiva del carisma dell'unità; i 7 aspetti, che indicano come
partecipare alla vita della Trinità trasformando ogni aspetto della nostra
vita: fisica, ascetica, intellettuale, morale, spirituale, sociale; e la
sorgente di questo carisma dell'unità nella vita di Chiara Lubich e delle sue
prime compagne.
Ma questo messaggio ci
veniva comunicato prima di tutto non per mezzo di video o di libri, ma
attraverso le persone che vivono questa vita di comunione di cui parlano. Don
Giuseppe Aruanno era il responsabile della Scuola, però egli non era un
individuo isolato, faceva parte di una piccola comunità o focolare di preti
diocesani, ed era ovvio che la sua profonda unità con quella famiglia di
sacerdoti gli dava la forza e l'ispirazione nel cercare di rendere anche noi
capaci di edificare delle comunità simili. Il gruppo di preti diocesani a cui
egli apparteneva era in stretto contatto con la vita di unità vissuta da Chiara
Lubich e dalle sue prime compagne, di cui parecchie sono venute a trovarci e ci
hanno raccontato direttamente la loro esperienza di questo carisma che esse
stanno vivendo da circa mezzo secolo.
Così ciò che noi avevamo di
fronte non erano formule, ma vita di uomini e di donne protagonisti di una
nuova rivoluzionaria cultura del dare. Ricordo ancora vivamente la
testimonianza di alcune giovani Gen del Brasile, che ci raccontarono come
avevano vissuto un terribile scontro di pullman in cui erano morte alcune loro
compagne; oppure quella di Doriana Zamboni, una delle prime compagne di Chiara,
che ci spiegò come aveva vissuto la realtà di Gesù abbandonato in difficili
momenti di malattia.
2) Apprendimento
Come preti noi eravamo
abituati ad apprendere nuove idee, ma imparare un nuovo modo di vivere era un
po' più impegnativo. Anche qui, diversamente dall'esperienza che avevo fatto in
seminario, non c'era conflitto con l'autorità. Come aveva detto don Toni Weber,
il precedente responsabile della Scuola, a un mio amico che aveva fatto questa
esperienza da seminarista: «Tu ti troverai in difficoltà qui, se mi vedi come
un'autorità». Infatti costatavamo che l'unica autorità della Scuola era Gesù in
mezzo a noi, di fronte al quale tutti eravamo responsabili.
Che tipo di lezioni abbiamo
appreso? Ricordo sempre un'esperienza di Sel Win della Birmania, che allora
lavorava in cucina. Egli disse: «Ieri in cucina eravamo in sette a preparare il
pranzo. Ciascuno voleva essere il cuoco. Il pranzo ha avuto 25 minuti di
ritardo, e molta roba è avanzata. Oggi eravamo in cinque, ma abbiamo lavorato
uniti. Il pranzo era pronto in tempo, ed è stato consumato tutto». Così a poco
a poco abbiamo imparato a lavorare insieme.
Non solo il lavoro, ma tutto
quello che sperimentavamo era diverso se fatto in unità. Quando recitavo il
breviario insieme con Stuart, il ministro anglicano che era alla Scuola, notavo
che egli ometteva la preghiera per la regina d'Inghilterra, forse perché
pensava che questa difficilmente un irlandese l'avrebbe detta! Io insistevo per
dirla: ma egli è stato sempre il primo ad amare, dal momento che quando usavamo
il mio breviario egli pregava sempre per il Papa. Penso che per ambedue quel
tempo in cui recitavamo i salmi in unità era una lezione pratica nell'impegno
comune a servire la Chiesa e la gente a noi affidata.
3) Identificazione
Dall'inizio eravamo distinti
in gruppi di cinque o sei persone, per poter mettere in comune le esperienze
del giorno. Un po' per volta, lentamente, dato che tutto doveva essere tradotto
in due o tre lingue, questi gruppi o focolari divennero come una famiglia per
ciascuno di noi. Considerando che non leggevamo giornali, né ascoltavamo radio
o TV, la vita di ogni giorno era così densa che non ci mancavano mai esperienze
da comunicare.
Per mezzo di questo
apprendistato nella vita di focolare tra noi sacerdoti, abbiamo cominciato a
identificarci con l'esperienza di comunione che ci veniva proposta da tanti
vivi testimoni giorno per giorno.
Notavo ciò quando mi
capitava di avere qualche incomprensione con qualcuno. Invece di rimanere
nell'incomprensione, riuscivo ad andare al di là di essa. Ricordo di un prete
che era un ottimo cuoco, ma aveva la cattiva abitudine, secondo me, di non
pulire i vari utensili che usava nella mattinata, il che comportava che io e
Bernard di Berlino dovevamo lavorare fino a tardi nel fare le pulizie della
cucina dopo il pranzo. Questo mi seccava veramente; sicché cominciai a guardare
il cuoco con molta freddezza. Proprio in uno di quei giorni ci capitò di
ascoltare una frase di Chiara, in cui ella diceva che bisogna amare l'altro come
lo farebbe una madre. Era la prima volta che mi capitava di pensare che il
cuoco potesse avere in me una madre. Di colpo lo vidi in una luce diversa, e
potei persino dirgli che egli era il Michelangelo della cucina. Anche se ci
impiegai più o meno una settimana, imparai a rinnovare la comunione con lui.
II. La creazione della
comunione
La prima fase della Scuola,
quella della memoria, è stata una fase trinitaria: quelli che già vivevano
un'esperienza di comunione, contribuivano a far nascere quell'esperienza in
noi. Era una cosa bella e anche una sfida il fatto che eravamo appena stati
avviati all'esperienza della comunione, che subito ci veniva chiesto di
comunicare tale esperienza ad altri, in maniera che anch'essi in qualche modo
potessero vivere la comunione. Era come dire che l'unica strada per apprendere
la cultura del dare era quella di metterci noi stessi a dare.
Questa volta ai tre gradi
della Proposta-Apprendimento-Identificazione corrispondono il
Creare-Accogliere-Costruire insieme la comunione.
4) Creare la comunione
La differenza radicale per
molti di noi alla Scuola, rispetto a come eravamo soliti svolgere
precedentemente il lavoro pastorale, era che prima lo programmavamo e lo
portavamo avanti da soli, per cui ciò che veniva fatto era ciò che ognuno aveva
fatto per proprio conto. Ora - nei ritiri ai giovani, nei contatti pastorali
con le giovani coppie, negli incontri con gruppi parrocchiali di altri paesi, o
con grandi gruppi di sacerdoti che volevano sapere qualcosa della nostra esperienza
- operavamo non più come individui, e neanche come gruppo sociologico, ma come
una nuova realtà, come comunione di preti con Gesù in mezzo a loro.
Non importava se, ad
esempio, tra quelli che dovevano tenere un ritiro a un gruppo scolastico, c'era
un esperto nella cura pastorale dei giovani. Siccome cercavamo di lavorare con
Gesù in mezzo a noi, al di là delle diverse esperienze pastorali, o delle
intuizioni personali, emergeva un approccio nuovo. E spesso accadeva che i
giovani restavano a parlare con noi invece di tornare a casa appena scaduto il
tempo stabilito, grazie a questa evangelizzazione fatta con quei rapporti che
noi cercavamo di realizzare.
5) Accogliere la
comunione
A mano a mano che le
settimane trascorse insieme diventavano mesi, la nostra vita di comunione
cominciava a generare piccole comunioni tra coloro che venivano a contatto con
noi. La più chiara conferma di ciò erano le molte testimonianze ed echi che ci
arrivavano, riguardanti il nostro operato. Una volta Tran Van Trong, un prete
vietnamita che era alla Scuola, aveva preparato alcune esperienze della sua
vita, da comunicare a uno di questi gruppi di giovani di una scuola di
Frascati. Io dovevo tradurre in italiano mentre egli parlava in inglese. Ciò
che, mi sembra, colpiva quei giovani non era tanto la storia interessantissima
del prete vietnamita, ma il fatto che un asiatico e un europeo erano così uniti
tra di loro.
Certamente si potrebbe
ancora citare il caso delle domestiche buddiste tailandesi, che lavoravano a
Roma, le quali spesso visitavano la Scuola la domenica, perché dicevano di
sentire tra noi un'atmosfera spirituale come in un tempio; oppure le coppie di
fidanzati, che noi preparavamo al matrimonio, le quali venivano una volta al
mese, e che, malgrado non molti provenissero da ambienti di fede, erano
desiderosi di ascoltare la nostra esperienza di come superavamo le difficoltà
nella nostra convivenza.
6) Costruire la comunione
insieme
Tra i vari servizi che noi
compivamo alla Scuola c'erano la celebrazione delle Messe e l'ascolto delle
confessioni durante i convegni delle diverse diramazioni del Movimento al
Centro Mariapoli. Per parecchi di noi questi servizi erano anche occasioni in
cui riscoprivamo il vero significato dei sacramenti, quando sono celebrati
nell'amore scambievole e con la presenza di Gesù tra noi.
Con il trascorrere dei mesi
imparavamo anche noi a «generare il Cristo» nei gruppi e nelle comunità con cui
venivamo a contatto; ed essi, nella loro misura, ricambiavano il nostro amore,
formando una «temporanea» ma vera Chiesa, una Chiesa fatta di cristiani, preti
e laici, con Gesù in mezzo a loro.
Attraverso questo quotidiano
dinamismo della memoria e della creatività, ho potuto riscontrare la verità di
quello che ci disse don Giò all'inizio: che noi potevamo essere come i primi
discepoli di Gesù, che vanno in giro per il mondo a fondare nuove comunioni
dovunque, a condizione che avessimo sempre Lui in mezzo a noi. La Scuola era
come un'esegesi vivente in cui, per mezzo di piccole e grandi esperienze di comunione,
compreso l'andare oltre i tanti nostri fallimenti, potevamo capire, in una
maniera viva e quasi familiare, la relazione tra la memoria della primitiva
Chiesa circa la vita di Gesù nei vangeli e la creazione delle nuove Chiese
negli Atti e nelle Lettere degli Apostoli.
Ricordo la gioia che avevo
provato alla fine della cerimonia di chiusura del Concilio Vaticano II, quando
tutti i vescovi della Chiesa si riversarono in Piazza san Pietro e in via della
Conciliazione. Pensavo al Nunc dimittis di Simeone, nel senso dell'inizio di
una nuova era nella vita della Chiesa e dell'umanità. Ma proprio come il
programma stabilito dal Concilio di Trento, particolarmente riguardo alla
futura formazione dei preti diocesani, fu messo in atto da grandi figure
carismatiche come san Carlo Borromeo e da movimenti come i Teatini e i
Sulpiziani; allo stesso modo - capivo tornando a casa dall'esperienza della
Scuola - l'ideale dell'unità di Chiara Lubich apriva la strada a una formazione
nuova, nella comunione, per i preti della Chiesa del terzo millennio, e ad una
nuova civiltà del dare sullo stile della vita trinitaria.
Brendan Purcell