Dalla Germania: una visione nuova della vita

 

 

Più importante dello studio

 

 

di Emmanuel Siregar

 

Emmanuel Siregar, di padre indonesiano e madre giapponese, nato in Belgio, ma cresciuto in Germania, è sacerdote da tre anni ed è incardinato nella diocesi di Osnabrück. Ha studiato teologia a Roma all'Università Gregoriana e, dopo un anno di esperienza pastorale nella sua terra, è stato mandato di nuovo a Roma per continuare gli studi. Attualmente sta preparando la tesi di dottorato in teologia morale.

 

Poco dopo l'esame finale  della licenza  in teologia morale, espressi al mio vescovo il desiderio di fare, al momento opportuno, la Scuola Sacerdotale del Movimento dei focolari. Con mia sorpresa mi rispose di farla subito, prima del dottorato: «Perché - mi disse- più importante della formazione scientifica è andare avanti spiritualmente».

 

 

 

La scoperta di una «città sul monte»

 

Così sono andato a Loppiano. Un «pezzetto di paradiso in terra», come molti definiscono quel luogo dopo averlo visitato. Non è un paradiso artificiale, ma una normale cittadina con negozi, fabbriche, uffici, scuole. La gente di Loppiano non fa un'altra vita, ma la vive diversamente. Ad accomunarla è soltanto il desiderio di vivere concretamente il Vangelo. Lì puoi vedere una piccola porzione di umanità disposta a scommettere tutto in nome dell'amore cristiano.

La Scuola Sacerdotale, una delle sue otto scuole di formazione, si trova a Incisa, ai piedi del colle su cui sorge Loppiano.

Appena vi sono giunto ho avuto l'impressione che non ci fosse tanta differenza tra questa Scuola e un qualsiasi seminario maggiore. C'è un grande edificio, un antico convento, dove ci sono un refettorio, una cappella, delle stanze, una cucina, una falegnameria, un campo sportivo. Ma subito mi sono reso conto che questa è soltanto l'apparenza esterna, perché la sua specificità è la vita che vi si conduce, tutta permeata dall'amore scambievole che oltrepassa le barriere di razza, nazione, cultura e mentalità. Nonostante la notevole diversità degli «scolari» - in quell'anno eravamo di circa 20 nazionalità diverse -, c'è una «cultura» che tutti ci lega, quella dell'amore reciproco che porta, secondo l'evangelista Matteo (Mt 18, 20), alla presenza del Risorto: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, ivi sono io in mezzo a loro».

Immergendomi in questo stile di vita, il mio rapporto con l'altro non è un secondo momento della mia esistenza, ma momento costitutivo del mio essere, del mio ragionare ed agire come uomo e quindi come cristiano e sacerdote. È stata questa la prima e fondamentale lezione della Scuola. Un amore, quindi, che oltrepassa la diversità dei singoli, la valutazione dell'altro secondo i sentimenti di simpatia o antipatia. È un allenamento continuo e completo, perché qui non si tratta di qualche ritocco nel mio «repertorio spirituale», ma di un vero e autentico cambiamento di mentalità, che rivoluziona ogni mio rapporto con gli altri. E non posso cambiare i miei rapporti con gli altri se non cambio me stesso, e viceversa. L'essenziale di questa Scuola, come di tutta la cittadella di Loppiano, è un nuovo stile di vita segnato da una spiritualità comunitaria che, come diceva il Santo Padre, ha l'amore non come punto di arrivo ma come punto di partenza.

 

 

 

Il primo impatto

 

Subito mi ha colpito la comunione dei beni materiali che ci siamo proposti di vivere. Non era tanto il fatto di mettere tutto in comune. Certo, il tutto è tutto, ma questo lo vivevo già prima con i «gens», i seminaristi che seguono la spiritualità dell'Opera di Maria. Più difficile era di «tenere» tutto in comune, di mettere continuamente tutto a disposizione. Non si trattava allora di un atto eroico compiuto una volta per sempre e, magari rinnovato mensilmente, ma di un cambiamento quotidiano di mentalità: queste scarpe sono mie, ma sono anche nostre; questo pullover l'ho portato io alla Scuola, ma lo voglio mettere a disposizione di chi ne ha più bisogno di me. Ho potuto sperimentare uno stile di vita povero, non per mancanza del necessario, ma perché tutto era vissuto comunitariamente: una vita semplice e modesta, dove ognuno cerca di essere attento ai bisogni dell'altro.

Se dovessi raccontare una delle esperienze più profonde di questo periodo, non mi fermerei alla comunione dei beni materiali, perché mi ha colpito di più quella dei beni spirituali. Per me non è affatto normale che un tedesco, un americano e un brasiliano si raccontino il lavoro di Dio nelle loro anime. E non mi sembra facile che quest'apertura d'anima avvenga anche tra sacerdoti e laici senza nessun riferimento al differente stato di vita. Scoprivo che è proprio qui la radice del «mondo unito», «il dialogo della vita» tra uomini di diverse razze, nazioni e religioni.

 

 

 

Un modo nuovo di evangelizzare

 

A Loppiano ho potuto imparare un modo diverso di evangelizzare, che chiamerei «evangelizzare con la vita», poiché all'evangelizzazione non servono tanto le parole, le prediche, e neanche la capacità di formulare un bel messaggio spirituale o di usare i mezzi di comunicazione nel modo più professionale possibile, bensì la nostra vita vissuta insieme alla luce del vangelo. La carità fraterna, legge vitale di questa città, si irradia da se stessa come un irresistibile invito a vivere il vangelo.

Durante la mia permanenza alla Scuola spesso ho fatto da guida ai visitatori.  Anche per il fatto che il casello dell'Autostrada del Sole è a due passi da Loppiano, molti vengono a visitarci. Di per sé non c'è niente di speciale da mostrare, ma ogni angolo del vecchio convento, ogni stanza e ogni immagine parla ai visitatori della nostra vita, segnata da una spiritualità comunitaria. E sono loro stessi a testimoniare che tutta Loppiano è una «cosa diversa».

Mi ricordo per esempio di un gruppo di pastori protestanti di Wuppertal-Barmen, in Germania. Arrivarono con un grande pullman, e li accogliemmo tutti insieme nel parcheggio della Scuola. Facendo loro da guida nella casa, cantando per loro le nostre canzoni, raccontando alcune esperienze della nostra vita comune, la visita si trasformò in un vero incontro tra fratelli cristiani, pur essendo di confessioni diverse. Si instaurò un rapporto molto profondo e, alla fine, ci siamo dati appuntamento per l'anno seguente.

Un giorno venne a trovarci un giovane che si considerava ateo. Cercai di non nascondergli niente, ma di raccontargli tutto come era, senza nessun interesse pastorale o di apostolato. Alla fine mi disse: «Non credo in Dio, ma qui sento una pace e una serenità che cercavo da tanto tempo. Devo andare via, ma ritornerò, perché questa giornata non la potrò mai dimenticare!»

Nella cappellina della Scuola, la concelebrazione quotidiana è sempre il culmine della giornata, non tanto per la liturgia, sempre ben preparata, ma piuttosto perché l'Eucaristia è l'espressione della giornata vissuta nell'amore reciproco, vorrei dire, vissuta, come dice la parola «Eucaristia», nel «dono di sé all'altro».

 

 

 

Un lusso da incoraggiare

 

Ogni sabato pomeriggio facevamo sport. Era una momento importantissimo per noi, espressione di una vita anche completa, nella quale il corpo  e la salute non vengono trascurati a causa del lavoro. Certo che per tanti sacerdoti, abituati ad un'attività pastorale a ritmo a volte frenetico, lo sport appariva un «lusso», ma pian piano si faceva strada anche in loro la convinzione che si tratta di un mezzo necessario per conservare l'equilibrio della persona. Per questo giocavamo a calcio con alcuni giovani di Incisa. Loro venivano e partecipavano volentieri. Il nostro modo di giocare, senza ambizioni sportive esagerate e senza durezze, pur mettendocela tutta, sottolineava più l'unità della squadra che la bravura del singolo giocatore. E questo piaceva ai giovani che ritornavano volentieri e portavano altri.

 

 

 

La morte che è vita

 

Quando arrivai a Loppiano erano deceduti da poco Renata Borlone, responsabile femminile della cittadella di Loppiano e Alessandro Mammucari, un focolarino della città. Il loro ricordo era ancora molto vivo. Raccontare di Renata o di Alessandro era un ringraziarli per la loro vita e un voler proseguire quello che loro avevano realizzato: dare la propria vita per tutti.

Abbiamo invitato alla nostra Scuola i compagni di Alessandro perché ci raccontassero qualcosa di questo giovane che si era donato tutto a Dio. Ognuno di loro, avendolo accompagnato giorno per giorno nelle ultime tappe della sua ascesa verso Dio, raccontava qualche particolare. Alla fine uno di loro ha cantato una canzone che avevano composto per Alessandro e che era ispirata alla Parola che aveva guidato la vita di questo giovane: «Cambierò davanti ad essi le tenebre in luce». Nella canzone si diceva: «Hai cambiato in te quelle spesse tenebre in un giorno di luce!».

Davanti a me si apriva una visione nuova della vita: un'avventura divina, perché radicata nella Parola di Dio, che continua in cielo. Quella sera ci raccontavamo senza stancarci quello che Dio aveva operato in uno dei nostri fratelli e il tempo sembrava essersi fermato. Doveva essere così quando i primi cristiani leggevano gli atti dei martiri: fu una serata di Paradiso.

 

 

 

L'armonia che comunica il divino

 

Il Paradiso in questo vecchio convento? Certo che il primo impatto con esso può insinuare l'impressione di qualcosa di antico, di sorpassato, ma noi con il nostro stile di vita cercavamo di trasformare dal di dentro tutto ciò che non ci sembrava adatto ad esprimere l'amore che ci eravamo proposto di vivere.

Le stanze erano condivise in quattro e anche in sei. Ed è qui che cominciava il «gioco concreto». Non c'è più via di scampo per la verifica dell'unità se vivi insieme ad altri cinque in un'unica stanza. L'arredamento, gli armadi, le sedie, la tavola, i letti, ma anche il lavandino, il vicino che russa, persino il modo di lavarsi, tutto esige amore ed è chiaro che non basta un semplice adattarsi. Dovevamo veramente e continuamente accettare l'altro così come era. L'amore vero ha ben poco di romantico. E qui ho capito che una spiritualità dell'unità ha la sua verifica nelle piccole cose, magari nella semplice armonia di una stanza, nel modo di attaccare i panni, di pulire il lavandino, persino nel rifare il letto dell'altro.

Ci siamo proposti che ogni angolo della casa fosse, o almeno diventasse man mano, «espressione estetica» della nostra spiritualità. Devo dire che è proprio vero: persino una piccola pianta messa bene su un tavolino diventava qualcosa di diverso, perché espressione dell'amore scambievole. Sembra che la sensibilità di ciascuno per l'altro si proietta sul lavoro fatto con questo spirito e produce armonia. Il risultato è straordinario. Non pensavo che anche la gente di fuori se ne accorgesse.

 

 

 

Sapienza e studio

 

Al pomeriggio c'erano normalmente delle lezioni. Le materie erano la storia dell'Opera di Maria, alcuni aggiornamenti teologici, interscambi con le altre scuole della cittadella. Il livello non era certamente universitario, ma lì ho scoperto la differenza tra studio e sapienza. Capivo che la dinamica della reciprocità dell'amore si può vivere anche a livello intellettuale, quando perdo tutti i miei pensieri ascoltando l'altro, facendo in me il vuoto totale, così che l'altro possa esprimersi pienamente e, stuzzicato dal mio ascolto - fatto per amore -, diventi capace di «parlare amando». E viceversa. Lo chiamavamo il Gesù in mezzo della sapienza. A volte ci sembrava di sentire delle cose più profonde di quanto umanamente uno fosse capace di esprimere.

 

 

 

Comunicare con la vita

 

Spesso mi toccava fare da traduttore nella mia lingua. Era sempre una grande gioia. Un giorno avevo un forte mal di testa ma, non trovando un sostituto, entrai ugualmente in cabina per tradurre. Quel pomeriggio capii che la traduzione è un po' come la vita cristiana. Nel tradurre mettiamo a disposizione, per amore, tutte le nostre capacità per trasmettere con fedeltà e trasparenza quello che ascoltiamo. Ma questo esige sempre un «perdere», un «sacrificarsi», c'è sempre un prezzo da pagare. Così, anche la cabina di traduzione diventa un simbolo della dinamica divina dell'amore, vissuta così bene da Gesù che si è «dato» per amore.

In quel pomeriggio il mal di testa rimase, ma capii che solo su questo fondamento nasce la vera comunicazione tra gli uomini.

Non finirei mai di parlare della Scuola, perché la luce che ha lasciato in me mi serve nella vita quotidiana e illumina i miei studi. Oramai non posso più immaginare una vita cristiana - e tanto meno sacerdotale - vissuta nell'individualismo.

 

Emmanuel Siregar