Dal nordest del Brasile: fare
del presbiterio diocesano una famiglia
«Ma hai già fatto la scelta di Dio?»
di mons. Bernardino Marchib
Ancora oggi lo chiamano
Don Dino ed egli conserva l'aspetto del giovane sacerdote di Saluzzo, Cuneo,
che negli anni settanta si mise a disposizione della Chiesa per un servizio
missionario. Quando stava per partire per il Brasile, un suo condiocesano, che
già da alcuni anni lavorava in quelle terre ed era cosciente che solo un prete
profondamente radicato in una vita di comunione sarebbe stato utile per la
diocesi dove egli era destinato, gli rivolse una domanda a bruciapelo: «Ma tu
hai già fatto la scelta di Dio?». Una domanda inattesa, che lo colpì nel
profondo, dandogli l'occasione di iniziare una nuova esperienza. Ma lasciamo
che egli stesso ci racconti qualcosa della sua avventura.
Realmente quella domanda, così ovvia, mi mise in crisi o, per meglio dire, accese
in me una luce. Mi resi conto, quasi d'improvviso, che l'importante non era
partire per le missioni o restare in diocesi, ma lasciarmi guidare in ogni
circostanza dalla volontà di Dio e scoprire in tutto il suo amore. Così
nell'ottobre del 1974, invece di andare in Brasile come era previsto, mi
ritrovai a Frascati. Non conoscevo quasi nulla del Movimento dei focolari,
sapevo solo che il vescovo brasiliano, con cui avrei lavorato, era ben contento
che io facessi questa esperienza prima di entrare nella sua diocesi.
A Frascati c'erano circa
cento sacerdoti e seminaristi di tutto il mondo, disposti a prendere parte
attiva in una scuola originale che non avrei mai pensato potesse esistere,
perché non si vedevano libri in giro e non si udivano discussioni teologiche.
Lì l'unico maestro, come ci dicevano, doveva essere Gesù reso presente tra noi
dall'amore scambievole. Lentamente penetrai in tutto questo mistero e mi trovai
così bene da domandarmi come mai ero riuscito a sopravvivere fino a quel
momento con un cristianesimo che ora mi sembrava quasi rachitico, perché
vissuto individualisticamente.
Quando partii per il Brasile
avevo un'altra visione della vita e desideravo iniziare a vivere diversamente
il mio sacerdozio.
Molti anni sono passati
ormai da quel lontano 1974 e la volontà di Dio su di me si è manifestata in
tanti modi. Sin dall'inizio sono vissuto a Palmares in un presbiterio a vita comune
tra vescovo e sacerdoti, lavorando in diocesi prima come responsabile della
pastorale giovanile, poi come parroco della cattedrale e vicario generale. Ora,
da alcuni mesi, sono vescovo coadiutore della diocesi di Pesqueira nel nordest
del Brasile, dove le sfide sociali e pastorali continuano ad essere immense.
Cosa mi è rimasto della
Scuola?
Cosa è rimasto in me
dell'esperienza della Scuola Sacerdotale? Voglio accennare brevemente ad alcuni
aspetti vissuti intensamente in quel periodo e che poi lungo questi anni hanno
dato un significato profondo al mio sacerdozio e al lavoro pastorale affidatomi
dalla Chiesa.
1. La coscienza che Dio è
Amore.
Innanzi tutto una coscienza
viva di Dio-Amore che ha accompagnato tutti gli avvenimenti della mia vita. La
certezza di questa presenza mi ha dato la forza di perdere gli attaccamenti
alle persone e alle cose, alle idee mie personali e anche alle cosiddette
ispirazioni per essere aperto e disponibile agli altri e creare con tutti
rapporti di comunione. Ho potuto liberarmi dell'autoritarismo e creare vere e
autentiche amicizie senza distinzione di persone. Anche nei momenti di
solitudine e di fallimento ho potuto aprirmi con i superiori e i confratelli e,
con il loro aiuto, riscoprire e rivivere nella mia carne il mistero di Gesù
crocifisso e abbandonato senza mai perdere l'equilibrio. Anzi vorrei aggiungere
che, pur vivendo in un contesto sociale ed ecclesiale particolarmente
difficile, la nota caratteristica di questi anni è stata la gioia nella
speranza: la gioia del Risorto presente nel nostro presbiterio e la speranza di
farcela con Lui in mezzo a noi.
2. La passione per la
Chiesa.
La Scuola mi aveva messo nel
cuore un amore nuovo, una vera passione, per la Chiesa e per la sua unità. Da
allora mi è stato più facile guardarla non tanto nelle sue strutture umane più
o meno evangeliche, ma come corpo di Cristo e fonte di vita. Ho scoperto che
non esiste solo la mia parrocchia e la mia pastorale e che la mia vita di prete
non è un orto recintato dal filo spinato, ma una casa accogliente per tutti.
Questa visione di Chiesa mi ha facilitato la disponibilità per qualsiasi
missione, anche difficile, con una grande libertà interiore.
3. La comunione con gli
altri presbiteri.
Venendo in Brasile e
trovandomi subito immerso in un presbiterio a vita comune che cercava di vivere
la spiritualità dell'unità, ho avuto l'impressione che la mia Scuola di
formazione non abbia avuto soluzione di continuità. Il fatto di ritrovarci
insieme un giorno alla settimana per fare una revisione della nostra vita è
stato per me un mezzo straordinario per crescere nella comunione e per avere la
luce necessaria nelle attività pastorali.
In un ambiente
difficilissimo (dove si ha l'impressione che «evangelizzare - così diceva
argutamente un collega tedesco - è come piantare banane in Germania: quando ti
sembra che la pianticella ha messo le radici, arriva la prima gelata e muore
tutto») abbiamo invece trovato il modo di fare qualcosa e forse anche molto.
Siamo partiti dal principio che dovevamo evangelizzare innanzi tutto noi
stessi, vivendo per primi la Parola di Dio per poi annunziarla agli altri. E
oggi, dopo anni di lavoro spesso silenzioso, la diocesi in cui abbiamo lavorato
sembra avere un volto nuovo. Sono venuti su cristiani veri e non mancano le
vocazioni alla vita consacrata e al sacerdozio.
Ho in cuore un sogno
Ora mi è capitato quello che
non mi attendevo: fare il vescovo. Come
farb? Nulla di speciale: continuerò questo stile di vita, valorizzando tutti
gli organismi di comunione e partecipazione che la Chiesa offre.
Il mio sogno, oggi, è di fare del presbiterio diocesano una grande famiglia. Non mi sembra un sogno irraggiungibile, perché l'ho già visto nella Scuola Sacerdotale del Movimento dei focolari e l'ho poi sperimentato personalmente da prete. E poi questo è il sogno vero di tutti i preti, perché tutti - anche se spesso non se ne rendono perfettamente conto - sentono il bisogno di immergersi in una vita di comunione.