È la vita che fa capire. Per
questo occorre...
...una nuova scuola di pensiero
di Pasquale Foresi
Pasquale Foresi, il primo
focolarino divenuto sacerdote, è il più diretto collaboratore di Chiara Lubich
nel portare avanti il Movimento nelle sue numerose concretizzazioni. Il tema
che egli ha sviluppato in questo articolo mette in luce la necessità che
l'insegnamento nelle scuole non rimanga nozionistico, ma diventi vita.
Riportiamo il pensiero dell'autore, nello stile parlato della conversazione.
In genere si va a scuola per
ricevere «informazioni utili». Ma, se da una parte l'informazione serve ad
aprire nuovi orizzonti, essa non è ancora la vera scuola. L'insegnamento non può consistere nel
formare solo la ragione, ma deve formare tutto l'uomo, superando l'attuale
frattura tra cultura e vita.
Vorrei fare qualche
riflessione su questo problema, attorno ai seguenti binomi: veritB-bene,
intelligenza-volontà, lavoro-studio, comunità-conoscenza.
La verità che è il bene
Gli studi non vanno
sottovalutati. Quando si affronta un argomento, bisogna conoscere tutti gli
sforzi, i valori, anche gli sbagli che si sono fatti attraverso la storia per
arrivare ad una soluzione. Se si vuol dire qualcosa che abbia valore, bisogna
anche studiare, documentarsi, non lo si può fare in genere con la semplice
intuizione.
Quello però che qui si
vorrebbe rilevare, è il fatto che non bastano erudizione, conoscenza delle
lingue, biblioteche attrezzate dal punto di vista scientifico, ecc. Ci sono
infatti persone che con grande fatica si sono formate una vasta cultura a
riguardo di un dato problema, senza tuttavia essere arrivate a cogliere il
senso più profondo del problema stesso, e quindi senza riuscire a dire nulla di
valido o di nuovo. L'erudizione conta, ma solo secondariamente. La scienza è
utile, ma non basta. Perché?
Uno dei motivi si trova
nella costituzione stessa della realtà. Nel fatto cioè che verità e bene
coincidono ontologicamente. Non c'è una verità che non sia al tempo stesso
bene. Drammatico è stato, nella storia del pensiero, aver creduto che per
capire la verità religiosa ci vuole la bontà, la virtù, mentre per quella
scientifica no.
In realtà, sia nell'essere
umano che nel resto della creazione, così come sono state presentate da grandi
pensatori quali Platone e Aristotele, ma soprattutto dalla rivelazione
cristiana, verità e bontà coincidono: ciò vuol dire che la bontà e la
rettitudine etica sono in stretto rapporto con la comprensione vera della
realtà. E questo non è un principio religioso o pietistico, ma una verità
profondissima che coinvolge tutto l'essere e la stessa conoscenza umana.
Tutto l'essere umano
Se poi guardiamo l'essere
umano in se stesso, vediamo che è dotato di sensi-intelletto-volontà, ma allo
stesso tempo costatiamo che colui che conosce è la persona attraverso quelle
sue capacità, l'uomo-uno prima ancora di essere diviso.
Questo è un altro motivo per
cui non si può concepire un tipo di cultura che implichi solo il raziocinio e
l'intelligenza nel senso classico della parola. È l'essere umano nella sua
globalità che deve venire implicato.
Per rendere possibile
questo, è necessario un nuovo stile di studio. Bisogna studiare vivendo, e non
studiare soltanto studiando, altrimenti le «lezioni» disturbano dal vero
conoscere.
Si dovrebbe studiare quel
tanto che aiuta lo svolgersi ed il chiarirsi di quello che si vive. Questo è lo
studio. Ma è qualcosa che deve implicare l'intelligenza e la volontà
simultaneamente, anzi quasi più la volontà che l'intelligenza; deve essere più
l'amore che spinge l'intelligenza che non l'intelligenza che spinge l'amore. E
questo non per sminuire il valore dell'intelligenza, bensì per dare ad essa il
suo posto e permetterle così di assolvere il massimo della sua funzione e delle
sue possibilità.
Con uno studio così
concepito si dovrebbe diventare più propriamente esseri umani, non solo persone
istruite. Essere colti solo in senso cerebralistico significa in realtà essere
ignoranti. Uno studio insomma che è vita dovrebbe formare persone che sanno
vivere e che sanno affrontare tutti i problemi del pensare umano come problemi
personalmente vissuti, non solo come problemi di studio.
Il lavoro, scuola di vita
Il lavorare, in questa
prospettiva degli studi, non è una perdita di tempo, poiché il lavoro è anche
un mezzo di conoscenza. Voglio dire che non è soltanto un mezzo per vivere, ma
è qualcosa di inerente al nostro essere uomini, e quindi anche un mezzo per
conoscere la realtà, per capire la vita: è strumento di formazione umana reale
ed effettiva. Se ho una difficoltà in un lavoro che eseguo, o se devo aumentare
la produzione perché altrimenti l'azienda non si regge, questi sono problemi
che devo risolvere concretamente, non in maniera astratta o solo
spiritualmente. Quando si studia soltanto, uno può anche inventarsi un sistema
di pensiero e dire che va bene, che è giusto, ma quando si deve far funzionare
una macchina, non si può inventare una filosofia; si deve far funzionare quella
macchina, dove si scoprono delle leggi intrinseche che sono quelle che sono e
alle quali ci si deve adattare, perché sono leggi di Dio.
Il lavoro ci dà il senso del
reale, ci mette a contatto con la materia, con il cosmo. Lì si acquista
quell'esperienza vitale che proviene dal doversi adattare alla materia concreta
e cercare di adattare essa a noi stessi.
Succede spesso che quando si
dà un pensiero vitale, difficilmente si è capiti da coloro che studiano
soltanto, mentre forse capisce di più una massaia, un operaio che lavora tutto
il giorno, perché essi non hanno delle categorie astratte e degli schemi in
testa attraverso i quali filtrare quello che si vuol dire e quindi fraintenderlo.
Per questo anche queste persone «semplici» costituiscono la migliore «cassa di
risonanza» per aiutarci ad uscire dai concetti vuoti, e trovare un pensare che
sia vita, essere, umanità.
Una prova di quanto veniamo
dicendo la troviamo, ad esempio, quando incontriamo degli operai, dei
contadini, dei pescatori, che con la loro esperienza ci esprimono non solo la
saggezza del loro contatto faticoso con la vita e con la natura, ma della
natura ci sanno esprimere in qualche modo anche la concretezza, l'armonia, la
purezza. A contatto con queste persone possiamo imparare molte cose su certi
valori dell'esistenza umana che nessun libro potrebbe mai darci.
Quindi non dobbiamo - con lo
studio - staccarci dal mondo del lavoro, dal mondo della materia, bensì farlo
diventare un tutt'uno con noi. Per questo è necessario un lavoro serio,
produttivo, concreto. Lì si vede se siamo innestati bene nel reale, se siamo
veri. È al contatto con la realtà che l'intelligenza, lo spirito, l'essere
dell'uomo si verifica, si staglia, s'illumina, si chiarifica.
Il lavoro riesce a
distruggere buona parte di quello che uno ha imparato solo nozionalmente,
lasciando così dentro di noi solo quel tanto di verità che era vita, che era
saggezza, quel tanto che è diventato parte del nostro essere al di là di tutto
quello che abbiamo imparato. Il lavoro ci fa capire cose molto importanti: tra
l'altro ci fa capire che lo studio non è l'unica realtà della vita.
Logicamente non è da
considerarsi soltanto il lavoro manuale. Prima di tutto perché come il lavoro
manuale coinvolge la nostra libertà e la nostra conoscenza, così anche il
lavoro intellettuale fatto bene può implicare in qualche maniera tutto il
nostro essere. E poi è anche lavoro e sacrificio ad esempio imparare quelle
nozioni necessarie per lavorare meglio e per incarnare bene quello che si
studia. È lavoro pure la fatica umana di leggere, o d'imparare lingue difficili
al fine di poter leggere certi autori. Chi ha il compito di studiare deve fare
bene questo suo lavoro. Quanto abbiamo detto però, mette al suo giusto posto il
valore degli studi: colui che studia non vale più degli altri, perché in un
certo senso lo studio in sé è secondario e marginale.
Evidentemente tutto questo
vale soltanto per quelle persone che vogliono non solo erudirsi, ma che debbono
dire qualche cosa. Per queste, il lavoro è parte essenziale anche degli studi.
Proprio perché è la vita che fa capire.
Socialità e conoscenza
Un'altra dimensione
fondamentale che porta conseguenze decisive per lo studio è la socialità. Se
noi diciamo: «L'essere umano è costitutivamente sociale», esprimiamo una verità
che porta delle coseguenze enormi a tutti i livelli, compreso quello della
conoscenza.
Si tratta in primo luogo del
fatto che la verità va raggiunta o approfondita «a corpo», assieme agli altri,
e quindi dobbiamo essere sempre aperti a lasciarci completare dalla verità
altrui. Tanto più oggi, che nessuno può arrivare ad avere una conoscenza che
comprenda tutta la realtà.
Quello però che vorremmo
sottolineare è che non basta un qualunque lavoro «in équipe», un mettere
assieme tante idee, tante conoscenze, per trovare una sintesi. Non è possibile
prendere più cose morte per farne una cosa viva. Una vera sintesi superiore e
diversa potranno farla solo delle persone che non restino sul piano
dell'astrattismo e che siano loro stesse fuse in unità. Quella comunione
profonda che Gesù è venuto a portare tra gli esseri umani, è fonte di luce
sempre nuova anche nel piano umano. Una profonda unità con Dio e con gli altri
offre lumi nuovi per affrontare ogni problema. Ci vuole contemporaneamente la
cultura e l'unità per superare teorie sconnesse, appiccicate, e per arrivare
sia a una sintesi più alta, sia a certe intuizioni in qualche senso nuove ed
originali, impastate di sapienza umana e divina.
Cultura di massa
Una scuola così impostata
risolverebbe anche un problema molto attuale: spesso la scuola, soprattutto
quella superiore, è stata concepita come scuola di élite, cioè come scuola per
alcune persone, non per l'umanità. Per questo si è specializzata: sembrava più
facile andare avanti con le persone cosiddette colte ed intelligenti. In realtà
è stato un estraniarsi dalla vera umanità di cui ha sviluppato soltanto alcuni
aspetti.
Bisognerebbe invece arrivare
(forse è un sogno, forse è un'utopia, ma penso che dovrebbe essere storicamente
possibile) ad una cultura di massa che sia vera, elevata, ma che sia
assimilabile da milioni di persone.
Bisogna arrivare ad una
cultura intersoggettiva, ma soprattutto ad una forma di comunicazione e di
espressione che tutti devono poter capire. Altrimenti non è cultura: è solo di
una parte di umanità che pensa, ma non è universale.
Ora non è detto che tutti
sappiano tutto. Ma come il vangelo è fatto per tutti - e se fosse fatto solo
per le persone intelligenti non sarebbe più vangelo - così la vera cultura deve
essere fatta per tutti.
La vera grande cultura
antica era seguita dalle folle. Ricordiamo le grandi tragedie greche o
l'Odissea, l'Iliade erano forse una scuola di élite? No, era il popolo che
vibrava, che viveva. E noi oggi diciamo: ma come facevano? Proprio perché era
vera cultura vibravano, perché esprimeva l'umanità, non esprimeva delle cose un
po' arzigogolate che solo alcuni credono di capire o che, dicendo di capirle,
non cercano altro che passare per intelligenti, come a volte succede. Lo stesso
quando si leggono le lettere di san Paolo. Come faceva a dire delle cose così
alte a persone così ignoranti? - potrebbe domandarsi qualcuno. È che noi
abbiamo un concetto sbagliato dell'ignoranza. Le persone a cui erano
indirizzate quelle lettere erano umanità, e quelle parole erano universali ed
in esse s'esprimeva l'umanità; davano delle cose che tutti capiscono perché
sono la vita degli esseri umani. Un Agostino, un Crisostomo, parlavano facendo
un'esegesi che adesso i teologi stentano a volte a capire; eppure essi la
facevano alle folle. Perché? Perché c'era questo humus, vero, reale, che era
vera cultura, era l'«essere umanità» che s'esprimeva.
Se riusciremo a comunicare
non solo con alcuni uomini, ma con le persone comuni che vivono nel mondo di
oggi, con le esigenze autentiche di oggi, con l'intelligenza autentica di oggi,
soltanto allora faremo vera cultura.
Se invece non riusciamo a
farci capire, bisogna domandarsi se si dicono delle cose vere o artificiali.
Perché le cose vere sono per tutti e quest'universalità di comprensione è uno
dei segni per capire se quello che diciamo è invenzione nostra o vera saggezza
e sapienza.
I libri possono diventare
cattivi compagni se ci allontanano dall'esistenza, dall'essere, per trasferirci
in categorie astratte e difficili, quando solo nel cuore dell'umanità - la cui
intelligenza tende fondamentalmente alla verità - si ha la vera saggezza. Oltre
tutto, Gesù è nell'umanità, specie là dove è crocifisso. È nella sofferenza, è
nel dolore che si trova la sapienza.
L'insegnamento nuovo
Si tratta insomma di passare
da un piano di studio fatto di nozioni astratte e di erudizione, ad uno studio
basato su un altro concetto di uomo e di cultura. Un uomo «unificato» che vale
non per quello che possiede o che sa, ma per quello che P. Una cultura intesa
come essere, come vita, come profondità, come saggezza umano-divina. E questo
non solo per conoscere il divino, ma anche per capire tutti i problemi umani, i
problemi dell'esistenza scientifica, il problema dell'organizzazione del
lavoro, il problema professionale, ecc.
Una scuola di questo tipo
non è facile realizzarla in concreto. Bisogna ancora crearla. Ci sono dei
tentativi, ma bisogna avere pazienza proprio perché è una scuola che deve
nascere dalla vita.
Quel che conta quindi non è
tanto lamentarsi del passato, o credere che arriveremo noi all'ottimo, ma
dobbiamo cominciare a realizzare, in un'autentica comunione di vita, questa
nuova scuola, dove la formazione sia umana, piena e impegni tutto il nostro
essere. È soltanto da una tale formazione che viene la gioia, la pace, un tipo
di conoscenza che i libri non possono dare.
Pasquale Foresi