Scuola Sacerdotale: a
servizio della Chiesa
Un'esperienza di comunione
di Silvano Cola
Certo fu per molti
sacerdoti una scoperta sensazionale la vita dei «focolarini». Tra questi la
vita di comunione era un dato effettivo: avevano posto a base della loro
convivenza non una finalità estrinseca da raggiungere, ma proprio la «comunione
personale» che nasce dal vivere il comandamento di Gesù, in modo da attuarne il
testamento: «Che siano uno come lo siamo il Padre e Io». Se in questo
comandamento è contenuta la Legge e i Profeti, se esso è l'«ante omnia» da
praticare, se è l'unica possibilità per vivere «alla Trinità», era logico
stabilirlo come norma delle norme. Ma non lo dicevano, si vedeva che era così.
Come a Nazareth
I focolarini erano laici.
Erano professionisti o operai. Vivevano insieme e due volte al giorno, tornando
a casa dal lavoro, si preparavano i pasti. Nessuna persona di servizio: la
piccola comunità era completamente autosufficiente, cosa che permetteva una
vita autentica di famiglia dove ogni azione, ogni parola era motivata
dall'amore. Seppi più tardi che la fondatrice, Chiara Lubich, aveva visto il
modello di questo tipo di convivenza nella casa di Nazareth, dove vivevano «tre
cuori di carne vestiti di verginità». Anche solo l'idea era affascinante, ma tu
vedevi che era così. Guadagnavano tanti soldi col proprio lavoro ma vivevano
con lo stretto necessario, giorno per giorno, perché il superfluo era un
capitale di Dio che andava distribuito ai fratelli poveri: agli «imprevisti»
doveva pensare la Provvidenza, e succedeva veramente. Ma questa comunione di
beni materiali, era soltanto un segno esteriore di quella comunione di beni
spirituali che permetteva loro di vivere la vera povertà interiore che è anche
castità e obbedienza.
Per la prima volta capivo la
logica di Gesù che non ha dato una serie di precetti, ma solo quello dell'amore
scambievole. In un'anima libera, perché spossessata di ogni cosa, non c'è più
ostacolo alla comunione personale: è la povertà che ha come corrispettivo il
Regno dei cieli (Mt 5, 3). E si sperimentava effettivamente. Lì scompariva ogni
nostalgia, ogni desiderio di altre cose; fuori del focolare avevi nostalgia del
focolare, forse come l'uomo Gesù doveva sentir nostalgia della Trinità.
Accostando i focolarini si
poteva capire e valutare l'abissale differenza tra i «predicatori» e i
testimoni. Il nostro linguaggio «apostolico» era per lo più astratto, si
riferiva sempre ad altri, non poteva essere perciò che dogmatico e moralistico.
C'è differenza tra il solo parlare del vangelo e il fare l'esperienza del
vangelo. Se tu il vangelo lo vivi puoi dire con tutta tranquillità: oggi ho
cercato di vivere questa Parola di Gesù ed è successo questo e questo; con un
duplice risultato, che incarnando la Parola ti trasformi in Gesù, e che la
Parola incarnata diventa «comunione» col prossimo, comunione del tuo io più
vero che, donato, non diventa tua ricchezza o prerogativa gelosa, bensì libertà
interiore che ti rende capace di farti ogni momento tutto a tutti lasciando nel
contempo «liberi» gli altri.
L'apostolato lo si vedeva
come testimonianza di vita: prima essere e poi, quando è il caso, parlare. E
veniva in evidenza la verità dell'affermazione di Gesù: «da questo conosceranno
che siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli altri». In realtà la vita
basta da sola a farsi propaganda. Lo si vedeva nelle riunioni, nelle Mariapoli
dove la vita, non ideologizzata, attirava buoni e meno buoni, non cattolici e
non cristiani e persino chi si professava ateo. Lo si vedeva nei focolari dove
tanti andavano a riscaldarsi a quel fuoco spirituale che sprizzava da persone
che si consumavano in uno come legni incrociati.
E lì trovavi Maria, perché
il loro servizio silenzioso ti metteva a contatto con Dio, e quando parlavano
ti davano Dio donandoti il frutto della Parola vissuta, ossia le esperienze
individuali e comunitarie che facevano vivendo giorno per giorno una frase del
Vangelo. Trovavi delle persone di cui si poteva effettivamente dire che
«vivevano in cielo» (Vestra conversatio in coelis est - Fil 3, 20).
Gesù in mezzo, il formatore
Poi capivi che sotto sotto
c'era molto di più: che la sostanza della loro vita spirituale era «avere il
Santo in mezzo a loro» per la promessa di Gesù del «dove due o più» di Mt 18,
20; e che questo comportava un'ascetica allo stesso tempo individuale e
collettiva, perché per vivere quella realtà dovevi continuamente «passare dalla
morte alla vita amando il fratello» che ti stava accanto (cf Gv 3, 14), e che
questo implicava per te quello spogliamento interiore ed esteriore che ha il
suo esemplare tipico in Gesù che si spoglia di tutto per farsi «uno» con l'uomo
e divinizzarlo. E ti veniva allora da dire: ma qui c'è un abisso di dottrina
teologica, ascetica e mistica; qui non solo pregano, qui vivono la TrinitB! E
in realtà capivi che il problema della «formazione» (in quella specie di
«seminario» che era il focolare) era molto semplice: si viveva per avere Gesù
in mezzo in quella piccola comunità, e il formatore era Gesù in mezzo e il fine
della formazione era costruire persone che sapessero vivere 24 ore su 24
nell'amore reciproco, ossia costruire delle piccole cellule di vita trinitaria
sulla terra (piccole icone del Regno di Dio). Con quella esperienza di vita
alla base, si capiva come mai anche all'esterno creassero comunione.
E un'altra scoperta ancora
facevi: che non si parte dai libri per arrivare ad essere formati, ché anzi i
focolarini passano tutti per la fase cosiddetta del «mettere i libri in
soffitta» per non conoscere altro che «Cristo e Cristo crocifisso» che è però
la Sapienza di Dio. I libri, per essi, non erano che uno strumento che serve
all'amore di Dio e del prossimo, ad avere un sano apprezzamento dei valori
culturali che sono anch'essi espressione della presenza del Verbo nella Storia.
Non gruppo ma comunione
A me, per quel po' di
psicologia che avevo studiato e insegnato, colpiva in particolare un aspetto
nuovo della loro vita: vivevano assieme in piccoli gruppi, ma la psicologia del
gruppo non si adattava troppo a loro. Lì appariva evidente che tra vita di
gruppo e comunità di persone la differenza è abissale. Si sa che un gruppo
psicologico è formato da individui che si associano in vista di finalità
particolari (gruppo sportivo, sindacale, assistenziale...) e che perciò
interagiscono limitatamente agli interessi comuni che vogliono perseguire, così
che per tutto il resto ognuno rimane chiuso in se stesso, nella propria privacy.
In altre parole, nel gruppo
non esiste una comunione totale tra persone, quella che può essere espressa
dalla legge della socialità trinitaria vivibile sulla terra: «Siate una cosa
sola...», quella legge sociologica, dunque, che Gesù aveva insegnato a vivere
agli apostoli, i quali avevano la cassa comune, l'anima in comune perché Gesù
li faceva parlare e li incitava a comunicare i loro pensieri che così potevano
venir confermati, disconfermati, discussi... Sembra proprio che l'unico «chiuso
alla comunione» sia stato l'Iscariota: nessuno conosceva i suoi pensieri, le
sue ansie e le sue trame.
In termini di vita
spirituale la «comunione tra persone» non ne cambia la dinamica psicologica ma,
grazie allo Spirito Santo presente in esse, si produce in ciascuna una
disposizione stabile che san Basilio chiama hexis dalla quale dipendono sia i
pensieri nel loro nascere, sia le parole che si pronunciano, sia gli
atteggiamenti esteriori presi dall'insieme della persona. E san Basilio dice
che simili pensieri, parole e atteggiamenti, quando vengono condivisi con gli
altri credenti realizzano fra essi una comunione spirituale (koinonia
pneumatiké) della quale possono sperimentare i benefici soltanto coloro che
vivono da vere membra del Corpo di Cristo. Grazie a questa comunione, infatti,
si stabilisce tra esse una «singolare identità»: con una passione che solo lo
Spirito sa donare, ciascuna partecipa alle sofferenze e alle gioie che
scandiscono la vita dei fratelli come se fosse lei al posto loro.
In questa descrizione, che
Basilio fa, degli effetti che produce la vera comunione, ho visto confermata la
radicale diversità che esiste tra gruppo e comunità, ma soprattutto che la
«comunione» di cui si parlava e che avevo scoperto tra i focolarini non era
soltanto un essere uniti nella fede e misteriosamente inseriti (per il
battesimo) nel Corpo di Cristo, ma era vivere con Lui, concretamente, la vita
trinitaria in qualsiasi espressione della vita quotidiana, così che
effettivamente si poteva dire di vivere una spiritualità collettiva.
Scuola come tirocinio
alla vita di comunione
È anche vero, del resto, che
spiegare questo tipo di comunione è difficile se non se ne fa l'esperienza. È
frequentando i focolari che l'abbiamo fatta. Ora, questa è precisamente la
«scuola» indispensabile da fare, come lo è stata per gli apostoli con Gesù: si
tratta di un effettivo cambiamento o spostamento di idee e di valori e quindi
di comportamento che tocca anche le fibre più nascoste della persona, in quanto
devi capovolgere letteralmente i punti di riferimento: l'«ante omnia mutuam et
continuam charitatem» (1 Pt 4, 8) diventa la priorità assoluta poiché, se
manca, nulla ha valore. È evidente pertanto che la «formazione» deve essere
adeguata a questa antichissima e nuovissima spiritualità comunitaria.
E siamo convinti che non è
una moda, bensì una riscoperta del vivere cristiano oggi più che mai necessario
nella cultura in cui viviamo.
Il Movimento dei focolari, con la sua spiritualità
dell'unità che appunto lo anima, è nato prima del Concilio Vaticano II e in
pochi anni si è diffuso in buona parte del mondo. Molti sacerdoti ne erano
venuti a contatto (come abbiamo detto) e si esercitavano a viverla; e quando i
Padri conciliari emanarono i loro Decreti, soprattutto il Presbyterorum Ordinis
e l'Optatam Totius, esultarono di gioia scoprendovi le stesse istanze alla vita
di comunione tra sacerdoti e tra sacerdoti e laici che essi stavano praticando
inseriti nel Movimento.
Nel 1964, data l'abbondanza
delle vocazioni laiche alla vita consacrata nei focolari, la fondatrice del
Movimento, Chiara Lubich, fondò a Loppiano, presso Firenze, una Scuola che
servisse per così dire da noviziato ove apprendere la tecnica del vivere in
unità, esperienza effettivamente affascinante perché faceva riscoprire la vita
del vangelo come la più straordinaria avventura dell'uomo che non ha paragoni
con altri ideali umani.
Così nacque la Scuola
sacerdotale
Fu nel '66 che Chiara mi
disse: «Perché non mettiamo su anche una scuola per i sacerdoti e i
seminaristi? Dovrà essere una scuola più breve, forse di un anno, forse di sei
mesi...». E mi ripeteva l'idea che già si stava concretizzando a Loppiano: «Noi
sentiamo la vocazione di dare Dio al mondo attraverso una città posta sul
monte, una città che lo testimoni e lo doni, una città che vuole essere vita,
essenzialmente vita, solamente vita: vita di carità, quindi vangelo; carità
reciproca, con Gesù in mezzo a noi...». E mi riferiva che lo stesso cardinale
Florit, allora arcivescovo di Firenze, le aveva detto, dopo aver visitato
Loppiano: «Ci vorrebbe una Loppiano anche per formare i sacerdoti!».
Lanciata l'idea l'11
settembre, il 24 ottobre si inaugurava la scuola nella Villa Maria Assunta di
Grottaferrata che una nipote di Pio XII, la contessa Pacelli, aveva affittato
al Movimento. Miracolo: contro ogni previsione umana otto sacerdoti e tre
seminaristi, di sei nazionalità e di tre continenti iniziano quest'avventura
col permesso dei loro vescovi. Ai quali occorreva un buon coraggio e una buona
dose di discernimento, in quegli anni dell'immediato postconcilio, quando tutti
stavano ad osservare cosa sarebbe successo di una Chiesa così aperta, tra
l'altro, ai laici.
L'unica a non essere
preoccupata era proprio Chiara. I vescovi che avevano conosciuto lei e i
focolarini erano tutti più che favorevoli e usavano espressioni che quasi non
osavamo ripetere. Come queste: «L'Opera di Maria è proprio quello che ci vuole
nell'era postconciliare, e quindi anche per i sacerdoti postconciliari»; «È lo
spirito che ci vuole oggi. Si parla tanto in questo tempo della Chiesa come
comunità: ebbene, lo spirito dell'Opera di Maria sta penetrando in tutta la
Chiesa come fermento di unità»; «L'Opera di Maria è in primissimo piano nello
svolgere una formazione provvidenziale in seno al laicato e in funzione del
rinnovamento di tutta la Chiesa»; «L'Opera di Maria è un bozzetto di ciò che il
Concilio deve attuare»...
Per altri vescovi il
pensiero dominante erano i sacerdoti, e si rivolgevano a Chiara: «I sacerdoti
hanno enorme bisogno di spiritualità, e la vostra è una spiritualità che
rinnova la vita e il ministero sacerdotale». Tutte affermazioni, queste, che
sarebbero state poi confermate autorevolmente da Giovanni Paolo II nella visita
che fece al Centro del Movimento nell'agosto del 1984: «... Voi non siete un
movimento, voi avete la fisionomia della Chiesa del postconcilio... La
scintilla ispiratrice del Movimento, infatti, è la carità...»
La magna charta
Chiara così espose, come in
una «magna charta», le finalità della Scuola Sacerdotale:
«Se i sacerdoti sapranno
posporre tutto, anche il sacerdozio, per assicurarsi la presenza di Gesù fra
loro vivendo come bambini il Regno di Dio, sarà inevitabile che Gesù faccia
venir fuori una pastorale nuova, dei seminari nuovi... E se ci sarà anche l'unità
con la parte laica del Movimento, si darà origine a quello che ho chiamato
«cittB-Chiesa» o «societB-Chiesa» che farà vedere al mondo come esso sarebbe se
fosse tutto clarificato da Gesù, dal suo vangelo.
Stiamo mettendo qui la prima
pietra di una realtà che sboccia dopo il Concilio, ma che ha le sue radici
prima del Concilio, perché le ha in Dio che ha suscitato quest'Opera. Potremo
offrire al mondo sacerdoti che saranno nuovi, perché vivono il Comandamento
Nuovo che trasforma tutti gli aspetti della vita».
Un po' di cronistoria
A questo punto non c'è che
da registrare un po' di cronistoria di questi 25 anni di vita della Scuola
Sacerdotale, per poi lasciare spazio a seminaristi, sacerdoti e vescovi che
l'hanno frequentata o ne hanno visto i frutti. Dalle loro variegate esperienze
si riesce a ricostruire «una giornata vissuta».
Bisogna dire che la voce che
si andava diffondendo ovunque, che alla scuola sacerdotale si lavorava
manualmente mezza giornata non soltanto per essere autosufficienti ma per «imparare»
a svolgere qualsiasi servizio amando; il fatto che anche monsignori o docenti
universitari o vicari generali o superiori di seminario fossero addetti alla
cucina, alla pulizia delle toilettes, alla lavanderia o ad altri lavori più
tecnici per scoprirvi la gioia del lavorare per Gesù presente nei fratelli; che
gli stessi andassero al mercato a fare la spesa scoprendo la gioia di poter
amare nella quotidianeità il panettiere e il salumiere e il verduraio; sapere
di dover dormire in camere a più letti dopo essere stati abituati per anni alla
camera singola; dover ascoltare, quando si era abituati a parlare; comunicare
come si era vissuta la Parola di vita durante la giornata davanti a giovani
seminaristi... ebbene, poteva far prevedere un calo netto delle frequenze, e
invece si verificò proprio l'opposto: la casa fu troppo piccola e si dovette
affittarne un'altra. Nel '71 eravamo arrivati a un centinaio di presenze per
cui occorreva trovare ancora una soluzione. Tecnicamente non è il numero grande
che fa difficoltà, se c'è la possibilità di far vita di famiglia in piccoli
«focolari» dove la comunione possa essere concreta e costante. E la Provvidenza
ci venne incontro quando nel '72 la Curia generalizia dei Cappuccini ci mise a
disposizione il convento «cardinale Massaia» di Frascati. Un lavoro da matti
per ristrutturarlo, ma le mani non mancavano e i calli che si formavano erano
la testimonianza che, se si ama, tutto è sacro.
Chi non ricorda in quegli
anni la figura di don Anton Weber, detto Toni, medaglia d'oro per la teologia
all'Università Gregoriana, inserito nel Movimento fin da studente e inviato,
subito dopo la laurea, in Brasile a lavorare per i sacerdoti, ed ora
responsabile di quella Scuola?
Ma Chiara aveva sognato una
«città», e quella che era nata a Loppiano lo era, costellata di
casette-focolare, di famiglie-focolare, di aziendine, di ateliers e,
naturalmente, di scuole. Mancavano solo i preti e i frati. Ed ecco, puntuale,
la Provvidenza: ancora i figli di san Francesco, sempre loro, i Minori questa
volta, ad offrici ai piedi di Loppiano un altro convento. Ci spostammo dunque
là, a Incisa Valdarno, nel luglio dell'84. A Toni Weber - che viene inviato ad
iniziare la stessa Scuola a Tagaytay, nelle Filippine, su richiesta rivolta a
Chiara dalla Conferenza Episcopale Filippina a servizio di tutto l'Estremo
Oriente e dell'Oceania - succede don Giò, ossia don Giuseppe Aruanno, già
canonico con cappa di ermellino a Molfetta, ma che fin dall'inizio della Scuola
a Grottaferrata ne è sempre stato corresponsabile. Altro lavoro, altri calli,
altre piroette spirituali, linguistiche, culturali, temperamentali... Ma sì,
tutti concludono, il mondo unito è possibile perché in questa città lo si vede:
è una città di vivi dove tutti vogliono amare, dove tutti sono a servizio degli
altri, dove si mettono le basi per portare nel mondo la civiltà dell'amore:
perché lì ti accorgi che effettivamente l'unico Formatore è Gesù.
Silvano Cola