La dottrina sociale della Chiesa:

componente essenziale della nuova evangelizzazione

 

 

La nuova evangelizzazione

e il Sud del mondo

 

 

di Joâo Braz de Aviz

 

Il presente articolo offrirà sicuramente a molti dei nostri lettori una nuova prospettiva teologica sull'impegno sociale dei cristiani. L'autore, sacerdote brasiliano, ha il merito di aver messo in rilievo alcuni aspetti di base nel fondare trinitariamente l'opzione per i poveri.

 

 

 

La povertà fenomeno di massa nel Sud del mondo

 

Dal punto di vista dello sviluppo, il quadro attuale del mondo è senz'altro negativo. La situazione della moltitudine di uomini e donne che soffrono nella miseria, privi di speranza, si è aggravata ulteriormente negli ultimi anni. Il fossato tra il Nord sviluppato e il Sud in via di sviluppo, dove vive la maggior parte della popolazione mondiale, non solo persiste, ma si allarga sempre più per la «diversa velocità di accelerazione» che possiedono l'uno e l'altro, in base alla disparità di mezzi e di possibilità (cf SRS 11-15)1.

Agli indici economici si aggiungono altri, come «l'analfabetismo, difficoltà o impossibilità di accedere ai livelli superiori di istruzione, l'incapacità di partecipare alla costruzione della propria nazione, le diverse forme di sfruttamento e di oppressione economica, politica ed anche religiosa della persona umana e dei suoi diritti, le discriminazioni di ogni tipo, specialmente quella più odiosa fondata sulla differenza razziale» (SRS 15).

Questi e altri fenomeni mostrano come la questione sociale sia diventata molto complessa, oltre al fatto che le forme di povertà si sono moltiplicate anche all'interno del mondo ricco assumendo quindi dimensioni universali.

Questo peggioramento della questione sociale trova alla sua radice diverse cause. Ma Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis denuncia in particolare: «l'esistenza di meccanismi economici, finanziari e sociali, i quali, benché manovrati dalla volontà degli uomini, funzionano spesso in maniera quasi automatica, rendendo più rigide le situazioni di ricchezza degli uni e di povertà degli altri. Tali meccanismi, azionati - in modo diretto o indiretto - dai paesi più sviluppati, favoriscono per il loro stesso funzionamento gli interessi di chi li manovra, ma finiscono per soffocare o condizionare le economie dei paesi meno sviluppati» (SRS 16).

Si tratta di quelle che ripetutamente sono state definite «vere strutture di peccato» (cf SRS 36; 37; 46; CA 38). «In ciò consiste la differenza tra il tipo di analisi socio-politica e il riferimento formale al peccato e alle strutture di peccato. Secondo quest'ultima visione si inseriscono la volontà di Dio tre volte santo, il suo progetto sugli uomini, la sua giustizia e la sua misericordia» (SRS 36).

 

 

 

Una «componente essenziale della nuova evangelizzazione»

 

L'affermazione che la dottrina sociale della Chiesa sia una componente essenziale della nuova evangelizzazione, già presente nella Sollicitudo rei socialis (n. 41), è ripresa in modo chiaro nella Centesimus annus:

«Per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società e inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo Salvatore» (CA 5).

E più avanti il Papa aggiunge: «La “nuova evangelizzazione”, di cui il mondo moderno ha urgente necessità e su cui ho più volte insistito, deve annoverare tra le sue componenti essenziali “l'annuncio della dottrina sociale della Chiesa”, idonea tuttora, come ai tempi di Leone XIII, ad indicare la retta via per rispondere alle grandi sfide dell'età contemporanea, mentre cresce il discredito delle ideologie. Come allora, bisogna ripetere che non c'è vera soluzione della “questione sociale” fuori del Vangelo e che, d'altra parte, le “cose nuove” possono trovare in esso il loro spazio di verità e la dovuta impostazione morale» (CA 5).

Sebbene non sia compito specifico della Chiesa offrire soluzioni tecniche per superare i gravi problemi sociali, essa ha, tuttavia, la missione non solo di illuminare gli spiriti, ma anche di spronare i cristiani all'azione in modo da permeare con i principi evangelici l'agire umano (cf OA 48 e PP 81). Infatti «il messaggio sociale del Vangelo non deve esser considerato una teoria, ma prima di tutto un fondamento e una motivazione per l'azione» (CA 57).

 

 

 

Perché l'opzione per i poveri?

 

Se la dottrina sociale della Chiesa è una delle componenti essenziali della nuova evangelizzazione, e se questa dottrina ha come finalità non solo interpretare la complessa realtà sociale ma anche orientare il comportamento dei cristiani, cioè la prassi, allora davanti alla situazione di povertà strutturale del Sud del mondo, la Chiesa non può non far propria l'opzione preferenziale per i poveri.

A questo riguardo è doveroso riconoscere che se oggi il magistero della Chiesa a livello universale e la stessa riflessione teologica hanno potuto assumere questa opzione come evangelica ed ecclesiale, grande merito per questa nuova coscienza va al magistero della Chiesa latino-americana e all'approfondimento realizzato dalla teologia della liberazione.

L'opzione evangelica dei poveri, fatta seguendo l'esempio di Gesù, è diventata lo strumento concreto di attuazione della dottrina sociale della Chiesa e quindi una delle espressioni essenziali della nuova evangelizzazione: «Oggi più che mai la Chiesa è cosciente che il suo messaggio sociale troverà credibilità nella testimonianza delle opere, prima che nella sua coerenza e logica interna. Anche da questa consapevolezza deriva la sua opzione preferenziale per i poveri, la quale non è mai esclusiva né discriminante verso altri gruppi. Si tratta, infatti, di opzione che non vale soltanto per la povertà materiale, essendo noto che, specialmente nella società moderna, si trovano molte forme di povertà non solo economica, ma anche culturale e religiosa.

L'amore della Chiesa per i poveri, che è determinante e appartiene alla sua costante tradizione, la spinge a rivolgersi al mondo nel quale, nonostante il progresso tecnico-economico, la povertà minaccia di assumere forme gigantesche. Nei Paesi occidentali c'è la povertà multiforme dei gruppi emarginati, degli anziani e malati, delle vittime del consumismo e, più ancora, quella dei tanti profughi ed emigrati; nei Paesi in via di sviluppo si profilano all'orizzonte crisi drammatiche, se non si prendono in tempo misure internazionalmente coordinate.» (CA 57)

A questo punto vorremmo mettere in rilievo una dimensione concreta di questa opzione, che tocca da vicino l'impegno pastorale della Chiesa.

 

 

 

Dall'interdipendenza alla solidarietà

 

La dottrina sociale della Chiesa e, in essa, l'opzione preferenziale per i poveri acquistano oggi una prospettiva internazionale. Non solo perché la questione sociale ha assunto una dimensione mondiale e i poveri si moltiplicano, come abbiamo detto, sia nei paesi ricchi che nei paesi poveri, ma anche perché l'interdipendenza dei popoli si manifesta oggi come una delle caratteristiche più significative del nostro tempo, in tutti i campi della vita umana, economica, culturale, politica e religiosa (cf SRS 38).

C'è però in questa interdipendenza un aspetto negativo che è necessario smascherare. Dietro decisioni apparentemente ispirate a leggi economiche che sembrano immutabili e a norme politiche che si presentano come giuste, si nascondono vere forme di idolatria del denaro, delle ideologie, delle classi e della tecnologia. Si tratta della brama esclusiva del profitto e della «sete di potere col proposito di imporre agli altri la propria volontà» sia a livello individuale che nazionale e internazionale (SRS 37).

Per superare questo fenomeno in una maniera evangelica e, quindi, profondamente vera e umana, è necessario trasformare il concetto sociologico di interdipendenza in un atteggiamento di solidarietà, che costituisce una categoria morale.

A questo riguardo Giovanni Paolo II afferma: «Il principio, che oggi chiamiamo di solidarietà, e la cui validità, sia nell'ordine interno a ciascuna nazione, sia nell'ordine internazionale, ho richiamato nella Sollicitudo rei socialis (nn. 38-40), si dimostra come uno dei principi basilari della concezione cristiana dell'organizzazione sociale e politica» (CA 10).

 

 

 

Poveri e comunione trinitaria

 

A questo punto tocchiamo l'ambito più specificamente teologico. Il passaggio dall'interdipendenza alla solidarietà lo si può fare in base a una scelta etica. È in questo campo che la fede offre un fondamento decisivo: «la coscienza della paternità comune di Dio e della fratellanza di tutti gli esseri umani in Cristo» (SRS 40).

Un tale rapporto tra tutte le persone del mondo, senza alcuna distinzione di dignità, trova la sua radice nel fatto che l'umanità è fatta a immagine di un Dio che, perché è Amore, è Trinità: «Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò che noi cristiani designiamo con la parola comunione». (SRS 40).

È la comunione, la cui radice ultima è la vita della Trinità, autocomunicata a noi nel mistero pasquale, il criterio, il modello, la misura, per il superamento del peccato sociale e delle strutture di peccato, e per la costruzione di una nuova società basata sulla solidarietà.

Alla luce di questa realtà trinitaria, vogliamo accennare a un'altra dimensione dell'opzione preferenziale per i poveri: la necessaria testimonianza della povertà cristiana.

 

 

 

Dimensione trinitaria della povertà cristiana

 

Noi cristiani non possiamo assumere la povertà come valore in sé, e nemmeno soltanto per solidarietà con i poveri, ma come via alla comunione. Una povertà vissuta all'interno della comunità cristiana come spoliazione per mettere in comunione (cf At 4, 34), dovrà tradursi in valore culturale, che si esprime nella vita dei popoli come effetto della nuova evangelizzazione.

La povertà cristiana, intesa come impegno personale (spogliamento per mettere in comunione) e sociale (opzione per i poveri), che trova il suo fondamento nella vita stessa di Dio comunicata a noi, si costituisce così in un cammino indispensabile per il superamento degli attuali nodi strutturali della convivenza umana.

«Nella sua dimensione cristologica la povertà si mostra come un elemento interiore e necessario dell'agape, in cui la testimonianza normativa del Nuovo Testamento riassume il significato più profondo dell'evento cristologico (cf in particolare 1 Gv). Se l'agape è Dio che si dona, la povertà (si ricordino i testi di san Paolo, soprattutto l'inno della Lettera ai Filippesi) è l'atto del dono in quanto esso implica un momento di espropriazione di ciò che si è e di ciò che si ha (una kenosi, in termini paolini), per farne partecipe il destinatario del dono. Più profondamente ancora, è la libertà da ciò che si è e da ciò che si ha, quella libertà-povertà che è interiore all'agape come vita di Dio che in Cristo è partecipata agli uomini. La condivisione con tutti gli uomini, ma in particolare con i poveri, è per Cristo l'espressione di questa sua radicale povertà. E come giustamente sottolineano alcune spiritualità e teologie del nostro tempo, il culmine di tale povertà cristologica è l'abbandono vissuto da Cristo in croce: là dov'egli ha donato tutto se stesso, quasi “perdendo” la sua unione col Padre, per donarla agli uomini. Tale è l'aspetto più profondo della povertà che, a livello teologico-spirituale, Gesù ci rivela: la povertà come dimensione esistenziale di quell'autentica libertà (da sé e dalle cose) che è presupposto del dono pieno di sé nell'amore».

Come si vede, la povertà evangelica non è qualcosa di astruso e di teorico, ma è una realtà profondamente esistenziale, che tocca il cuore della condizione umana e cristiana. La povertà di Cristo ha portato nell'umanità quella dinamica che appartiene alla stessa vita trinitaria: «il mistero supremo della povertà del Cristo (la kenosi dell'incarnazione e l'oblazione e l'abbandono sulla croce) non acquista tutto il suo senso se non alla luce del mistero dell'agape trinitaria. La “povertà” - analogicamente in ciò che ha di misteriosamente positivo - è dunque anzitutto un attributo divino».

In questo modo, la povertà come libero dono-espropriazione di sé, che costituisce l'essenza stessa della vita trinitaria dell'Amore, fonda un'esperienza di povertà autenticamente evangelica, vissuta cioè non, per reazione, per spirito di parte, per attivismo, ma per quell'unica cosa per la quale merita di essere vissuta: per amore. «La vita trinitaria di Dio è totale povertà da sé di ciascuno dei Tre, in uno spogliamento che è nello stesso tempo suprema originalità, per donarsi incondizionatamente all'Altro e realizzare così la suprema comunione. Nella libertà da sé il Padre si dà al Figlio, che in un'analoga libertà accoglie il dono e si dà al Padre, nello Spirito, che è come il “Noi” della povertà trinitaria di Dio: Spirito della libertà da sé e del dono all'Altro»4.

 

 

 

Povertà perché tutto circoli

 

La povertà propria della Chiesa deve essere quindi povertà trinitaria. Essa, come contemplazione, è nella preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17), ma a livello di prassi storica e di ideale da raggiungere è già presente nella comunità primitiva, come viene narrato negli Atti degli Apostoli, ed è il “dover essere” di ogni comunità cristiana.

Ma cosa significa in concreto questa povertà trinitaria vissuta dall'uomo liberato dal peccato?

«A livello personale significa che la povertB-finitudine dell'uomo come creatura di Dio, da lui interamente dipendente, in Cristo diventa “povertà filiale”, totale abbandono d'amore dei figli, nel Figlio, al Padre - il quale, a sua volta, è Padre che nulla risparmia di sé per donarlo, nello Spirito, ai suoi figli.

A livello comunitario, significa che la comunità ecclesiale è chiamata a tradurre, per la forza dello Spirito e nella concretezza della sua condizione storica, la koinonia trinitaria nella vita dell'umanità: a livello spirituale come povertà da sé, a livello materiale come povertà da ciò che si ha, perché tutto (come nella vita trinitaria) circoli fra tutti, in una comunione che, essendo fondata sui beni escatologici della salvezza, si manifesta anche, necessariamente, nella condivisione dei beni materiali»5.

Come si vede queste realtà non sono destinate ad un'esperienza intimista e individuale, ma ad una incarnazione nel sociale attraverso concretizzazioni spesso di non facile attuazione, ma alle quali non si può assolutamente rinunziare. Una tale esperienza vitale di povertà come comunione concreta, faciliterà il superamento delle strutture di peccato, e renderà possibile la ricerca e la costruzione di quelle strutture storiche di mediazione impregnate dell'amore trinitario, e perciò degne dell'essere umano.

 

Joâo Braz de Aviz