Una conversazione a ruota
libera con alcuni sacerdoti dell'America Latina
a cura di Enrique Cambón
Se è vero che la nuova
evangelizzazione non si potrà fare solo con rapporti interpersonali basati sul
vangelo, è pur vero che nell'attuarla non si potrà prescindere da essi.
L'evangelizzazione, per essere autentica, dev'essere prima di tutto «contagio
esperienziale», cioè comunicazione di vita da persona a persona. E' uno dei
contributi che si ricavano dalla conversazione che presentiamo. Nostri
interlocutori sono: Numa Rivero, venezuelano, parroco e professore in
seminario; Francesco Ballarini, italiano da diversi anni in Argentina,
anch'egli professore in seminario e responsabile di una parrocchia in un
quartiere popolare di Buenos Aires; e Juan Bautista Alzate, che porta avanti
una grande parrocchia nella regione di Quindio in Colombia. Abbiamo voluto
rispettare nell'articolo la spontaneità del loro linguaggio parlato.
L'economia di comunione
e le nostre radici
Numa: Quando per la prima
volta ho sentito parlare di economia di comunione, ho pensato: «Finalmente è
arrivata la risposta a un desiderio che avevo da anni», perché essa non
soltanto può risolvere i problemi economici dell'America Latina, ma ci fa
ritrovare in qualche maniera un aspetto della nostra identità latinoamericana.
Le nostre comunità indigene
infatti possedevano in comune terra e mezzi di produzione e tra loro non
c'erano bisognosi. Ancora oggi ci sono nell'America Latina delle comunità indigene che, pur tra immani
difficoltà, hanno conservato l'uso comunitario delle loro terre. Ho sentito
diversi vescovi che vorrebbero mettere in luce il valore e l'attualità di
questa esperienza nel prossimo incontro di Santo Domingo.
Per questo l'economia di
comunione non è una risposta, che viene dall'esterno, ai nostri problemi
sociali, ma anzi s'innesta nelle radici culturali del nostro continente.
Un'altra cosa che vorrei
rilevare si riferisce alla mia esperienza nell'evangelizzazione
Quando ho cominciato a
lavorare per la prima volta come parroco avevo tanto a cuore la nuova
evangelizzazione di cui parla il Papa, nuova nei metodi, nell'ardore, nell'espressione.
Arrivando in parrocchia ho notato che c'erano, come in tutta l'America Latina,
diverse manifestazioni di religiosità popolare, che riescono ancora a radunare
molta gente, ma hanno poco a che fare col vangelo e non incidono sulla condotta
delle persone.
Non vedendo perciò dei
frutti consistenti, mi sono detto: «Per attuare una nuova evangelizzazione è
necessario cambiare i cuori, c'è bisogno di un rinnovamento spirituale».
In America Latina siamo
stati evangelizzati attraverso una spiritualità barocca, incentrata su certe
pratiche devozionali, con un certo tipo
di immagini. Era un metodo visivo di dare la religione al popolo in gran parte
analfabeta. Tutto ciò portava naturalmente ad una certa maniera di vivere la
sofferenza, di affrontare la vita, che aveva anche degli aspetti positivi.
Ai nostri giorni però, anche
in America Latina si sperimentano gli effetti della mentalità post-moderna,
perché non siamo isolati dal resto del mondo e persino i nostri contadini sono
influenzati da una mentalità consumistica e cominciano a porsi degli
interrogativi suscitati dalla secolarizzazione; domande del tipo: «Ci sarà
effettivamente qualcosa dopo la morte?».
Ci si accorge così che anche
le persone più semplici non possono più essere evangelizzate con una
spiritualità barocca. C'è bisogno di vino nuovo in otri nuovi. Altrimenti esse
resteranno ancora - ma fino a quando? - nelle strutture della Chiesa, ma per
una motivazione esterna, sacrale, senza
che il vangelo trasformi la loro vita personale né influisca, in qualche
modo, nelle strutture sociali.
Questo distacco lo si nota
già nei nostri giovani, anche in ambienti popolari. Essi non vanno più in
chiesa, non s'interessano di religione, perché il nostro annunzio del vangelo
spesso non risponde più alle loro esigenze.
La nuova evangelizzazione
perciò deve dare una nuova spiritualità che si adatti all'uomo contemporaneo,
che gli faccia vivere, interiorizzare di più la Parola di Dio, che non si fermi
ad espressioni, magari piene di fervore e degne di rispetto, ma cultuali ed
esteriori.
Io ho tentato di impostare
così le cose. Sicuramente non sempre ho azzeccato i metodi. Per alcune persone
in un primo momento è stato uno shock, però dopo, in pochi anni, ho visto
crescere dei cristiani responsabili, dei giovani convinti di essere chiamati ad
incarnare il vangelo nella vita personale e nella storia.
Anche con i seminaristi, con
cui mi trovo regolarmente, ho puntato non tanto sul fare, ma sul vivere il vangelo insieme alla nostra gente, affinché la nuova evangelizzazione
non resti uno slogan.
Francesco Ballarini: Quando
nel 1980 sono partito dall'Italia, ho sentito questo incontro con una cultura
diversa come una sfida. Sapevo che dovevo conoscere questo popolo «dal di
dentro», incarnandomi nella sua realtà. E solo
adesso, dopo tutti questi anni, mi pare di poter dire che conosco un po'
il popolo argentino. All'inizio era soprattutto uno sforzo, adesso mi sembra
che sto entrando. Non pretendo di «essere argentino», perché le mie radici
rimangono, però cerco di camminare con la gente.
La sociologa Vera Araujo
diceva che il vangelo è transculturale, perché si fa cultura in tutte le
culture. Ma perché ciò succeda ci vuole uno sposalizio tra il conoscere
profondamente una cultura e la fedeltà genuina al vangelo. E' necessaria da una
parte una conoscenza non da dilettanti
ma seria, e dall'altra la fedeltà alla Parola di Dio. Ma questo lo si fa con
molta fatica, perché non avviene dall'oggi al domani ed esige una profonda
comunione con gli altri.
In questi anni ho imparato
tanto al riguardo. Per esempio, nell'affrontare certi problemi, come europeo
sono tentato di volerli risolvere subito. Invece c'è tutto un cammino che
bisogna saper fare e anche una distanza che bisogna saper prendere dai problemi
stessi. Poi non dare soluzioni dall'alto, ma ricercarle insieme, scoprendo e
mettendo in atto i valori della gente.
Le problematiche sociali:
prima «sanarle dentro»
Nella mia prima tappa in
Argentina, quando c'era ancora la dittatura militare, lavoravo in una
parrocchia di periferia, che oltre a tutti i problemi della povertà aveva anche
quello tragico dei desaparecidos. Se in quel periodo non avessi avuto alle
spalle l'aiuto di una profonda spiritualità, soprattutto se non avessi avuto
davanti a me come modello Gesù crocifisso e abbandonato, non so come avrei
retto di fronte a problemi sociali così immani.
Non si può vivere o entrare
in questi immensi quartieri poveri, facendosi prendere dall'impotenza, dalla
rabbia o dall'odio, e neanche lanciandosi nell'attivismo. Bisogna prima «sanare
dentro» tutte queste ferite per non rimanerne schiacciati e per cercarne la
soluzione con uno stile evangelico.
Per me è stato un cammino e
una sfida, la sfida di questo sposalizio continuo tra il vangelo e la realtà locale.
E ci riesco nella misura in
cui vivo la mia esperienza di prete, in collegamento con altri sacerdoti che
condividono questo stile di vita. Dall'unità con loro, dalla presenza di Gesù
in mezzo a noi, ci viene la luce per affrontare insieme le più svariate
situazioni.
L'esperienza che sto facendo
adesso in un'altra parrocchia, anch'essa popolare, è molto interessante. Ciò
che sta trasformando la parrocchia è l'esperienza della Parola di Dio, presa
come norma di vita.
Attualmente sono circa una
cinquantina i giovani impegnati. E poi tanti adulti che prendono su la
responsabilità della parrocchia. Sebbene io vada soltanto il fine settimana,
perché ho diversi altri compiti, la comunità va avanti bene. Dal vivere la
Parola nasce la responsabilità di portare avanti i vari compiti: la catechesi,
la liturgia, l'impegno sociale. Non mi vedono come il prete che fa tutto, ma
come un fratello che col suo carisma ministeriale cammina insieme a loro.
L'esperienza di unità che
faccio con gli altri sacerdoti passa, come per osmosi, alla comunità. Mi rendo
sempre più conto che se noi preti non facciamo l'esperienza concreta di un
amore autentico e reciproco fra noi, non siamo capaci di generare una vera
comunità. Ho l'impressione che quando si parla di nuova evangelizzazione si
pensa sempre alla parrocchia, ai laici, ai diversi settori della pastorale, ma
ci si dimentica che i primi destinatari dell'evangelizzazione dobbiamo essere
noi stessi, i pastori.
Da tre anni stiamo facendo,
col consenso dei vescovi, un'esperienza di vita di unità fra sacerdoti di
diverse diocesi. Alcuni abitiamo nella stessa casa, altri vengono ogni
settimana a passare un giorno o due con noi. All'inizio questi incontri
settimanali si concentravano sui problemi che ognuno portava; adesso si parla
di come noi riusciamo a vivere il vangelo. C'è stato un vero cambiamento di
mentalità. In questa comunione troviamo poi tanta luce e la forza per superare
le difficoltà personali, per donarci con gioia nella pastorale e per far nostri
i problemi della Chiesa e del paese.
E' interessante notare che
quando uno fa questa esperienza, automaticamente la comunica. Così Gustavo nel
corso di due anni ha potuto trasmettere ciò che viviamo ad altri sacerdoti
della sua arcidiocesi (La Plata, vicino a Buenos Aires), ed è nata tutta una
serie di incontri con un gruppo di essi. Nell'ultimo incontro uno di loro ha
detto: «E' la prima volta nella mia vita che mi trovo con preti dove mi sento
libero di dire quello che vivo, quello che penso, e dove gli altri mi accolgono
così come sono». Stiamo cercando, cioè, di incontrarci prima di tutto come
persone. Non è che facendo così non ci interessiamo della pastorale, al
contrario, avvertiamo che l'affrontiamo in una maniera più giusta.
Abbiamo contatto anche con
tanti seminaristi. Io stesso insegno in seminario e certamente non è che mi
avanzi il tempo per prepararmi, anche se cerco di farlo in modo sufficiente e
con coscienza. L'anno scorso, trovandomi in Italia a Verona, ne ho approfittato
per incontrare il direttore degli studi teologici del seminario. Egli mi ha
suggerito alcuni libri che avrei potuto comprare per quelle materie che
insegno. Ho dovuto dirgli che non avevo i soldi per comperare tutti quei libri,
tanto più con i prezzi che hanno i libri in Europa, che a volte equivalgono da
noi a interi stipendi mensili. Dopo aver parlato a lungo di come noi studiamo,
egli ha fatto questo commento: «In fondo voi siete in una situazione migliore,
perché da noi la teologia si fa soprattutto sui libri, mentre da voi, stando a
quanto mi hai raccontato, scaturisce di più dalla vita».
Sono convinto che è
importante avere un bagaglio culturale ed essere competenti nella propria
materia, però quello che si trasmette deve sgorgare dalla vita. Infatti i
giovani in seminario sono molto sensibili alla testimonianza e stabiliscono con
noi rapporti stupendi: si aprono, confidano i loro problemi, vengono a
trovarci. La nostra casa adesso è un via vai di seminaristi.
Juan Bautista: Alcuni anni
fa sono arrivato nella mia prima parrocchia. Il sacerdote che mi aveva
preceduto l'aveva organizzata molto bene, facendone una parrocchia «pilota».
Egli aveva fatto conoscere la spiritualità del Movimento dei focolari ad alcune
persone e con loro ho potuto stabilire subito quell'unità che assicura la
presenza di Gesù tra i cristiani. In sei mesi, circa 130 parrocchiani hanno
iniziato questo tipo di rapporto che pone alla base la carità fraterna. A
partire da lì abbiamo organizzato insieme la catechesi; gli incontri con gruppi
di giovani, di bambini; la pastorale sociale, quella missionaria e varie altre
attività.
Naturalmente le attività e
l'organizzazione su vasta scala presuppongono l'impegno di vivere bene il momento
presente, amando fino in fondo il prossimo che si ha davanti. Ricordo, ad
esempio, un ministro dell'Eucaristia che un giorno nella Messa ha iniziato il
canto dell'Alleluia fuori tempo. Ha guardato verso di me, aspettandosi un
rimprovero. Io ho cercato di non farglielo pesare, andando avanti come se
niente fosse, sapendo che la carità era più importante della perfezione nella
cerimonia liturgica. Alla fine della Messa egli mi ha detto: «Grazie, perché
lei mi ha amato». Questi rapporti basati sul vangelo permettevano poi di
portare avanti le varie attività perché, in un tale clima, tante persone si
rendevano facilmente disponibili nel servizio alla comunità.
Vedevo anche come questa
vita creava nelle persone il desiderio di una formazione più solida. Attraverso
la Parola di vita (una frase del vangelo a senso compiuto che ogni mese ci
sforzavamo di mettere in pratica) avevamo occasione di approfondire la
conoscenza della Bibbia, di animare la catechesi, e soprattutto di accompagnare
la crescita di coloro che prendevano parte alla vita della comunità
parrocchiale. In questa maniera tutti si sentivano protagonisti e portavano
avanti la parrocchia.
Questa vita poi si
manifestava e si concretizzava a tutti i livelli. Le persone crescevano, ad
esempio, nella sensibilità sociale, cominciavano a scoprire i poveri e gli
ultimi della parrocchia e a vederli con occhi nuovi, a domandarsi cosa si
potesse fare, a prendere contatto con queste persone, a stabilire un rapporto
con loro, a farsi carico e ad affrontare le concrete problematiche di salute,
di abitazione, del quartiere, ecc. E quanto più si impegnavano in questo
lavoro, più se ne innamoravano, nonostante tutte le difficoltà che tale lavoro
implica per superare la povertà e la miseria. Il popolo avverte che il vangelo
è vero, non soltanto perché risolve in qualche maniera i suoi problemi, ma
soprattutto perché crea tra tutti un ambiente di famiglia.
Ma questo vale pr tutti noi,
di qualsiasi età. La realtà sociale in cui ci troviamo è talmente opprimente,
che butta giù chiunque e non si può andare avanti senza un’esperienza forte di
Dio in un clima di comunione fraterna. Veramente questa esperienza di Gesù in
mezzo alla comunità presbiterale è la risposta per noi sacerdoti oggi in
America Latina.
E’ ovvio che per trasformare
la società non basta convertire le persone, modificare i rapporti
interpersonali e fare altre azioni a piccolo raggio. Come dicono i vescovi a
Puebla, bisogna andare alle cause dei problemi sociali, trasformare le
strutture a livello sociale e internazionale, prendere di mia il macrosociale,
ecc.
Ho notato però, che quando
le persone cominciano a vivere il Vangelo, prendono coscienza della propria
dignità e cambiano non solo i rapporti tra di loro, ma migliorano la propria
casa e quelle altrui; cominciano ad impegnarsi socialmente nelle cooperative,
nelle associazioni per la promozione dei quartieri, nei movimenti ecologici e
per la pace, nei partiti.. Se ognuno fa la sua parte, lo Spirito Santo porta avanti tutta la realtà sociale, muove i
cuori, spinge i movimenti storici, crea l’opinione pubblica e fa venire fuori
dei cambiamenti magari impensati.
Così gettiamo in mezzo alla
gente i semi del Vangelo, piccoli ma autentici; essi sono capaci di crescere
per se stessi, di operare lentamente le più profonde trasformazioni nelle
strutture della società.
a cura di Enrique Cambon