Un'esperienza di
evangelizzazione in un ambiente segnato dal sottosviluppo
di Francesco Biasin
Nell'hinterland di Rio de
Janeiro, in una delle zone più contaminate dai mali tipici dei sobborghi delle
grandi metropoli sudamericane, la Parola di Dio genera una comunità cristiana.
E' avvenuto a Gramacho, una città di 100.000 abitanti, affidata al coraggio di
tre sacerdoti e di una piccola comunità di suore. Ce ne parla don Francesco
Biasin, parroco e poi responsabile dell'équipe dei sacerdoti collaboratori.
Al termine di una visita
pastorale, nell'assemblea
parrocchiale voluta dal vescovo per dire a tutti le sue impressioni, siamo
stati sorpresi dalle sue parole: «In questa parrocchia - ha detto - ciò che
balza subito agli occhi è che i sacerdoti, prima di un programma di lavoro,
hanno un progetto di vita comune che fa sentire poi il suo influsso benefico su
tutta l'attività pastorale».
E' scoppiato un lungo e
caloroso applauso che credo abbia impressionato lo stesso vescovo. Egli non
immaginava che persone così umili fossero tanto interessate allo stile di vita
dei loro sacerdoti.
La parrocchia era passata
per varie esperienze, alcune addirittura traumatizzanti, di programmi e
presenze pastorali. Un periodo sofferto che ricordo molto bene, perché ero
arrivato in quel posto nove anni prima, mandato dalla diocesi di Padova.
Prima di partire avevo
frequentato per sei mesi la Scuola sacerdotale del Movimento dei focolari,
un'esperienza indelebile nella mia vita di cristiano e di prete, che mi veniva
confermata dal vescovo durante la celebrazione dell'invio, quando consegnandomi
il crocifisso mi disse: «Più che al petto, portalo in cuore». Un presagio forse
di quanto mi attendeva.
Infatti nella parrocchia
dove fui mandato operavano una équipe di sacerdoti ed una comunità di suore. A
causa però dei gravi problemi sociali della regione, si era sviluppato fra
tutti un eccessivo attivismo che aveva portato a una disunità palese e dolorosa
tra loro e a una certa stanchezza ed apatia da parte della gente.
Dopo circa un anno i miei
colleghi lasciarono il ministero con grave scandalo tra i fedeli e con un certo
sgomento tra i collaboratori laici più vicini. Io rimasi, ma solo e col vuoto
alle spalle.
In un pomeriggio di domenica
mi sfogai con uno dei collaboratori, Manuel Moreno, un falegname, che con
costanza e sacrificio portava avanti la famiglia e trovava sempre il tempo per
aiutare in parrocchia. «Se avessi saputo prima - gli confidai - cosa mi
aspettava qui, forse non sarei venuto...». La sua risposta fu disarmante:
«Conta su di me: in due possiamo voler bene a questa gente». Seppi più tardi
che proprio in quei giorni aveva ricevuto l'offerta di un lavoro meglio
remunerato in un'altra città, ma vi aveva rinunziato per rimanere in quel
suburbio ad aiutare la comunità. Capii subito che dovevo rimanere anch'io e
rimboccarmi le maniche, cercando di non ripetere gli sbagli che erano stati
commessi in precedenza.
Era l'anno in cui nel
Movimento dei focolari si approfondiva il tema della Parola di vita e
contemporaneamente nella Chiesa brasiliana si sviluppava una particolare
sensibilità per i circoli biblici, formati da persone semplici che si riunivano
nelle case per meditare la Parola di Dio, proiettandone la luce sugli
avvenimenti concreti della vita quotidiana.
In parrocchia di questi
circoli ne sono nati parecchi, dapprima lentamente, poi con crescente impegno,
perché sperimentavano che vivere il vangelo era molto interessante: cambiava la
qualità della vita.
Nel frattempo altri due
sacerdoti venivano in aiuto e tra di noi era possibile stabilire un bel clima
di comunione fraterna. Anche le religiose ritrovavano l'armonia e assaporavano
di nuovo la bellezza della vita comune.
L'unità tra noi sacerdoti e
con le suore compaginava di nuovo la comunità parrocchiale suscitando numerosi
collaboratori laici che portavano avanti i circoli biblici e diventavano gli
animatori delle comunità di base.
Ad esempio, la signora
Leonia, una popolana dalla fede schietta e trasparente, era il punto di
riferimento del suo quartiere. Durante una riunione, meditando insieme il
vangelo che parlava della fede, lei dichiarava candidamente che non aveva mai
avuto crisi di fede, per lei credere e vivere era la stessa cosa.
Un giorno il marito aveva
raggranellato il denaro perché potesse comprare una bombola di gas che doveva
durare tutto il mese. Verso le dieci del mattino batteva alla sua porta
un'altra signora, tutta angustiata, perché il suo bimbo era ammalato e lei non
aveva un soldo per comprare le medicine. Leonia non ci pensò due volte, prese
il denaro del gas e glielo diede. Non aveva detto Gesù di dare il superfluo ai
poveri? E il superfluo non lo si misura dalle necessità altrui? Lei mise su una
cucinetta a legna e il marito al ritorno dal lavoro non si lamentò, ma ogni
giorno si ingegnò a trovarle anche la legna.
Era in questo clima che le
famiglie dei quartieri più poveri trovavano un forte legame tra di loro e
sperimentavano la gioia della fede. Inaspettatamente Leonia ci lasciò. Era
venuta un pomeriggio di domenica in chiesa e aveva voluto confessarsi «perché -
aveva detto - sento che tra poco devo partire». Il suo funerale lasciò in molte
persone una nostalgia di cielo. Altre persone vollero prendere il suo posto in
quella comunità di base, perché l'esperienza era troppo importante per
lasciarla cadere.
Mentre le comunità sorte nei
vari quartieri andavano avanti, si sentiva ormai il bisogno di costruire anche
un vero centro parrocchiale. Non avevamo nulla. Fino a quel momento ci si
riuniva nelle case o nelle scuole. La stessa chiesa parrocchiale era una
baracca di tavole costruita in un terreno pubblico dato in uso solo per alcuni
anni. Bisognava provvedere la parrocchia di un centro che accompagnasse anche
il forte sviluppo demografico della zona. Ma come fare? Dove reperire i fondi?
Siamo stati testimoni con
nostra grande sorpresa della fantasia della Provvidenza che arrivava dalle
strade più impensate confermando gli sforzi dei parrocchiani che con grandi
sacrifici avevano messo in atto una comunione di beni privandosi spesso del
necessario per dare una casa a Gesù eucaristia in mezzo a loro.
Di fronte a queste
manifestazioni della Provvidenza, che noi sacerdoti portavamo subito a
conoscenza di tutti, i parrocchiani restavano stupiti e commossi, ammiravano
l'amore del Padre e non solo davano i loro pochi soldi, ma mettevano a
disposizione della comunità il tempo, i talenti, la mano d'opera.
In pochi anni, mentre si
costruiva la chiesa, sorgevano anche vari centri comunitari, alcune cappelle e
un centro medico dove i più poveri potevano essere assistiti gratuitamente.
La parrocchia, molto vasta e
densamente popolata con i suoi 100.000 abitanti e con un accentuato flusso
migratorio, esigeva la costruzione di centri comunitari nella periferia per
accogliere e unire quanti vi confluivano.
Lo spirito missionario che
animava i responsabili delle comunità precedentemente costituite li spingeva a
spostarsi nei nuovi quartieri, spesso costituiti da miserabili favelas senza le
più elementari strutture sanitarie, per evangelizzare i nuovi arrivati. Dalle
prime sette comunità, in qualche anno, ne nacquero per generazione spontanea,
altre sette e poi altre quattro ancora.
Contemporaneamente al
moltiplicarsi delle comunità cresceva in tutti i loro responsabili il desiderio
di camminare insieme, di aiutarsi, di restare sempre più uniti. E il consiglio
pastorale divenne il luogo ecclesiale della comunione di tutta la parrocchia,
permettendo una crescita armoniosa, feconda e soprattutto uno scambio fraterno
di aiuti.
Ciò che caratterizzava le
comunità e dava loro espansione missionaria non erano straordinari piani di
pastorale, ma la vita, lo stile di vita fatto di rapporti semplici ma veri, era
la Parola di Dio meditata insieme e insieme incarnata nel quotidiano. Salutarsi
voleva dire: «Sono con te, hai bisogno di qualcosa?». Oppure: «Rinnoviamo il
patto di dare la vita gli uni per gli altri».
In un ambiente violento, disordinato, aggressivo e spesso
privo di valori morali, queste comunità erano un punto di riferimento e il
luogo della formazione di persone serene, mature, aperte ai bisogni altrui,
sempre pronte per soccorrere, aiutare, consolare.
Loro spesso non se ne
rendevano conto, ma lo notavano quelli che venivano a trovarci e ci chiedevano:
«Ma come fate?». La risposta si coglieva nell'aria: lì la gente si sforzava di
vivere il comandamento nuovo di Gesù, l'essenza del vangelo. E i visitatori se
ne partivano rinvigoriti nella fede e confermati nella loro vocazione.
Le celebrazioni liturgiche,
ben preparate e ben eseguite, erano momenti particolarmente solenni, non tanto
per la fastosità della liturgia che non era neanche pensabile, ma per la
celebrazione della vita, perché la storia della salvezza e la storia della comunità
si fondevano in uno e formavano la storia sacra della parrocchia. E non era
difficile, quando si tenevano corsi biblici, comparare la storia del nostro
popolo con quella del popolo eletto, perché anche in mezzo a noi Dio aveva
posto la sua tenda. Per non crearci
l'illusione di essere arrivati alla Terra promessa, ogni tanto c'erano anche
momenti dolorosi: persecuzioni fuori, incomprensioni e conflitti dentro, ma
tutto diventava materia per far crescere il Regno di Dio.
Questo essere e sentirsi
popolo di Dio ha costituito un terreno fecondo che, oltre a far germogliare
vocazioni al ministero sacerdotale e alla vita religiosa, ha fatto scoprire a
molti laici varie dimensioni di servizio nella comunità - autentici ministeri
laicali - in armonia con le capacità di ciascuno e con le necessità della
parrocchia.
Sotto l'impulso dello
Spirito è nato così un corpo di collaboratori e di collaboratrici, che
costituivano una vera diaconia. Erano ministri della preghiera liturgica che
debitamente autorizzati svolgevano la liturgia della Parola nei quartieri
lontani dove non c'era la Messa domenicale; o ministri della liturgia della
preghiera popolare nelle case dove ci si riuniva per meditare e pregare.
Erano ministri della
speranza cristiana presso famiglie particolarmente provate dal dolore; o
ministri del coordinamento pastorale pronti ad armonizzare le varie esigenze in
modo da poter camminare sempre uniti ed aiutarsi vicendevolmente.
Altri, sempre sotto la
spinta della fede, si preparavano a entrare nelle strutture sociali e politiche
per far sì che fossero messe a servizio dell'uomo.
Ogni anno, nel pomeriggio
del giovedì santo, tutti questi ministri si ritrovavano con noi sacerdoti e con
le suore per un'ora di adorazione. Davanti a Gesù Eucarestia rinnovavamo
l'impegno ministeriale assunto da ciascuno, mettevamo in comune le nostre
esperienze più significative e infine consumavamo una cena molto semplice.
Dieci anni ho trascorso in
questa comunità e vi ho scoperto una particolare presenza di Maria che non
saprei come spiegare.
Certamente era alimentata
dall'azione paziente, discreta e perseverante delle suore; era anche
sostanziata dalla santità a volte eroica di tante mamme di famiglia che
sapevano andare al di là delle preoccupazioni familiari per dedicarsi al bene
dei più poveri. Spesso rimanevo stupito nel vedere ragazze e ragazzi, immersi
in un mondo non solo immorale ma
disumano, che conservavano il cuore così pulito da poter dire con spontaneità
il loro sì a qualsiasi chiamata di Dio.
Dopo questa esperienza il
vescovo ha chiesto a noi sacerdoti di lavorare nella parrocchia della
cattedrale, che fino a quel momento era stata portata avanti da una comunità di
padri francescani. Durante la Messa, presentandoci alla popolazione, egli ha
detto: «Finora questa parrocchia è stata fecondata dal carisma di san
Francesco; ora il Signore l'affida a questi tre sacerdoti, affinché vi facciano
risplendere il carisma dell'unità. Essi, uniti tra loro dalla comunione
fraterna, contemplando nei mendicanti, nei minori abbandonati, nei sofferenti
di ogni tipo il volto del Cristo crocifisso,
sapranno alleviarne le sofferenze e riscattarne la dignità».
Il suo carisma di pastore
gli faceva scoprire il segreto che animava la nostra vita e ogni nostra
attività pastorale.
Francesco Biasin