Quale cultura in America Latina?

 

 

Le molte identità

alla ricerca di una sintesi.

 

 

a cura di Enrique Cambón

 

Dall'Argentina ci vengono proposti alcuni elementi della realtà culturale dell'America Latina, delle sue ombre e delle sue sfide di fondo per il futuro. Senza indulgere né a una visione superficiale e illusoria né al pessimismo, Esteban Belderrain, docente universitario in filosofia a Buenos Aires, ci offre un'analisi allo stesso tempo realistica e aperta alla speranza.

 

GEN'S  :   Uno  dei valori  che siaffermano

sempre di più nell'umanità contemporanea è la scoperta e il rispetto delle culture. E nel caso dell'America Latina  si moltiplicano le pubblicazioni e gli incontri a tutti i livelli per affrontare questo tema. Qual'è la matrice culturale di questo continente sudamericano?

 

L'America Latina è un luogo dove hanno confluito una pluralità di substrati culturali. La matrice culturale latinoamericana è costituita fondamentalmente da tre universi: l'aborigeno, il bianco e l'africano. Perciò in genere la nostra cultura si presenta con la peculiarità di essere essenzialmente «meticcia». La sua identità è il risultato storico di un «miscuglio» di identità.

Miscuglio, e non sintesi. Non c'è nella maggioranza dei casi un'amalgama di questi elementi culturali diversi. Più ancora, la nostra storia può leggersi come una successione di conflitti tra queste culture, e il nostro presente come il prolungamento fino ai nostri giorni di questi conflitti.

 

 

 

Luci nelle ombre

 

GEN'S: Non può apparire troppo pessimistica una tale visione?

 

Al contrario, penso che questa lettura può risultare più positiva di quella che si preoccupa di equilibrare «luci ed ombre». Secondo il mio punto di vista, è necessario cercare di individuare «le luci nelle ombre» della nostra storia. Cioè dobbiamo riconoscere i conflitti del passato, non per alimentare nuovi rancori, ma per assumere con responsabilità la sfida del suo superamento.

Ad esempio è innegabile che esiste il «trauma della conquista». Nonostante ciò si può vedere quel periodo non come una storia «di buoni e di cattivi», ma come un conflitto tra due culture a loro volta in crisi.

 

GEN'S: Qualche indicazione sulla «crisi» degli indigeni?

 

I nativi ricevettero gli europei con sentimenti di curiosità, timore e speranza. Una profezia maya annunciava l'arrivo dei bianchi come un periodo di terrore e di miseria; in particolare gli Aztechi avevano una leggenda sul ritorno del dio biondo Quetzacoatl, per cui alcuni di loro interpretarono in questo modo l'arrivo degli spagnoli. Per quei popoli la sconfitta militare e lo shock  culturale furono un'unica realtà. Oltre alla supremazia militare e al diverso atteggiamento di fronte alla guerra e ai nemici, il trionfo degli spagnoli fu agevolato dalle divisioni interne degli stessi indigeni. Nell'impero degli Incas c'era una guerra tra Huascar e Atahualpa e l'impero azteco aveva dei nemici tra quei gruppi di indigeni che esso dominava.

 

GEN'S: E la crisi dei «conquistatori»?

 

Anche gli europei attraversavano un profondo periodo di crisi: nel secolo XVI avvenne quell'accelerazione di cambiamenti che condussero la società europea verso la modernità. I conquistatori portarono con sé le ultime manifestazioni dell'ordine iberico-feudale che ritarderà di tre secoli l'ingresso dell'America centro-meridionale nel mondo moderno.

Ma a loro volta, i colonizzatori introdussero nel commercio internazionale i beni ricavati dallle terre americane, producendo processi di accumulazione che costituirono una base importante per il capitalismo. Da qui il paradosso consistente nel fatto che l'America Latina anticipava il capitalismo con la sua partecipazione nel commercio internazionale, mentre il suo sistema produttivo era schiavista o semifeudale.

 

GEN'S: Naturalmente tutto ciò ha avuto delle conseguenze nel campo dell'evangelizzazione...

 

Sì, contraddizioni simili si presentarono anche nell'evangelizzazione dell'America. La Chiesa, in fase di Controriforma, giocava di fatto un ruolo ambivalente: da una parte legittimava l'egemonia iberica e dall'altra costituiva una difesa per gli indios e il loro lavoro.

 

GEN'S: Come si è cercato di superare quello scontro tra la cultura che arrivava dall'Europa e le realtà dei popoli locali?

 

Il conflitto si decise, nella maggior parte dei casi, con le armi. E si sa che la violenza, più che risolvere un conflitto, lo accentua. La maggioranza dei nativi non si è mai integrata nella cultura nascente. Cominciò un processo di deculturazione e disintegrazione (nei due primi secoli la popolazione indigena scese da 6,3 a 3,5 milioni!). Vanificata la loro capacità difensiva, l'unica alternativa fu per loro quella di generare una «cultura di sopravvivenza». Isolati, ancora oggi lavorano senza mezzi né organizzazione sufficienti per poter concorrere sul mercato, rimanendo condizionati dagli intermediari e dai grandi produttori.

 

 

 

La seconda conquista

 

GEN'S: Dopo quella degli spagnoli e dei portoghesi, non c'è stata una specie di «seconda conquista», non attraverso le armi ma economica?

 

Effettivamente, a partire dal secolo XVIII si è sviluppata una nuova colonizzazione, questa volta avendo come protagonisti le potenze economiche: Inghilterra, Francia e Olanda. Diversamente dalla precedente, in questa colonizzazione il conflitto culturale non ebbe come attori principali gli europei, ma gli stessi americani. Alcuni gruppi vollero conservare ciò che consideravano lo spirito proprio ereditato dalla colonizzazione iberica, mentre altri si proponevano di assimilare la cultura che sosteneva il potere e quindi la possibilità di progresso.

Ancora una volta ci fu il conflitto, dovuto al fatto che non si cercò la sintesi, ma si fece ricorso all'imposizione. Di nuovo la violenza, che questa volta imperversò per tutto il secolo XIì. Guerre di indipendenza, guerre civili, «civiltà contro barbarie», «progresso contro restaurazione», «tradizione contro modernizzazione», sono soltanto alcune delle contrapposizioni, dei nomi che ricevette questo secolare conflitto che continua ad essere costitutivo della cultura latinoamericana.

 

GEN'S: L'evento della commemorazione dei 500 anni può vedersi, tra l'altro, come un'occasione per prendere coscienza ed approfondire - seppure in mezzo ad un dibattito non sempre sereno e oggettivo - tutta la problematica della vostra cultura?

 

Certamente. Cito a riguardo un solo aspetto, molto noto oggi non solo in America Latina ma anche a livello internazionale. Mi riferisco al linguaggio, che è un ottimo specchio per individuare i caratteri essenziali di una mentalità comune.

Ad esempio, lo psicologo sociale cileno Jorge Gissi fa notare che la maggioranza dei nomi che si usano attorno a queste tematiche, sono inadeguati o almeno indicativi di una realtà e di una storia che ci sono state imposte, a cominciare dallo stesso nome America, nome assegnatole dal cartografo tedesco M. Waldscemüller in omaggio ad Amerigo Vespucci, primo europeo a rendersi conto che era arrivato in un continente diverso.

Indios: sono chiamati così - e si continua a farlo ancora oggi - i nativi di questo continente, per la confusione dei primi navigatori che credevano di essere arrivati in India.

Scoperta: questa espressione è terribilmente etnocentrica. E' stata una scoperta per gli europei, ma quando loro sono arrivati quei popoli e quelle culture abitavano quelle terre da migliaia e migliaia di anni. D'altra parte, com'è noto, l'imposizione di questo termine è dovuta ad una proibizione da parte della corona spagnola di usare le parole conquista e conquistatori, sostituendole con scoperta e coloni. Dall'uso di questi termini si coglie il diritto che si arrogavano gli scopritori e i coloni di appropriarsi di terre o di ammazzare gli indios, legittimandolo con il pretesto della guerra giusta. E' famosa ad esempio la replica del gesuita Francisco de Vitoria il quale affermava che la scoperta «per niente giustificava il possesso di quelle terre, perché sarebbe come dire che, qualora gli indios ci avessero scoperto, per ciò stesso avrebbero potuto appropriarsi delle nostre cose».

Americani: è ben noto che in genere oggi vengono chiamati «americani» gli abitanti degli Stati Uniti, come se tutti gli altri cittadini del continente non lo fossero...

Latinoamericano: questo termine ha sostituito storicamente quell'altro di iberoamericano ed è sorto come conseguenza della politica di opposizione di Napoleone III di Francia all'impero della Spagna e alle pretese di lui sul Messico. Attualmente sembra essere il più adeguato, poiché prende dentro l'America spagnola, quella portoghese e quella francese; raccoglie buona parte delle correnti migratorie della fine del secolo XIì e gli inizi di questo secolo, soprattutto nel cono sud. Però ignora le culture aborigene, le culture nere, le colonizzazioni anglosassoni (Guiana, Giamaica, Trinidad Tobago, ecc.) e le importantissime correnti migratorie non latine (polacchi, tedeschi, arabi, e via dicendo).

Questi sono soltanto degli esempi che offre la lingua, ma che permettono di cogliere processi di sottomissione e dipendenza. E, ciò che più direttamente interessa il nostro tema, mostrano la precarietà della nostra identità, per ciò che si riferisce alla sua originalità e autonomia.

 

 

 

Il disincanto postindustriale

 

GEN'S: Come si va sviluppando la situazione nel presente?

 

Sembra inimmaginabile che, in un continente dove ancora non si sono superate situazioni proprie del medioevo, si stia, per certi versi, vivendo già un'era postindustriale. Eppure è cosX: la postmodernità è già fra di noi e con notevole sincronia. E' senz'altro l'ultima ondata culturale giuntaci dall'Europa che ha trovato fra noi un terreno molto preparato per la sua diffusione e il suo sviluppo. C'è una parola che la simbolizza: il disincanto. Il disinteresse politico, il pragmatismo generalizzato, il ritiro nel privato, sono sintomi del disincanto nei riguardi dei grandi ideali, delle sfide provenienti dalla modernità, delle speranze di cambiamenti di strutture, di liberazione, di giustizia, e così via.

 

GEN'S: Com'è possibile che una tale cultura postmoderna, frutto della saturazione del consumismo nelle società capitalistiche, sia penetrata nella società latinoamericana, dove almeno una terza parte della popolazione non possiede i beni indispensabili per una vita degna?

 

Una causa è senza dubbio il favoloso potere dei mezzi di comunicazione, quale nuova arma del neocolonialismo per l'imposizione dei suoi modelli. Però questa visione è riduttiva o addirittura semplicistica se non riconosce la predisposizione a ricevere ead  adottare tali modelli.

I progetti degli spagnoli fondatori, i liberali illuministi, gli immigrati che portarono braccia e menti per il lavoro ed il progresso, i discendenti degli aborigeni e dei meticci che emigrarono dalla campagna sotto l'abbaglio della città e dell'industrializzazione: tutti hanno contribuito al disincanto in cui oggi vive buona parte della nostra società.

 

 

 

Nella fraternità la sintesi

 

GEN'S: Di fronte a questi elementi che lei descrive nella cultura latinoamericana (successione di conflitti irrisolti, sovrapposizione di progetti incompiuti, eredità culturale composta da pezzi non amalgamati, crescita di atteggiamenti postmoderni), quale prospettiva di fondo intravede per il futuro?

 

Tutta questa panoramica rappresenta, in un certo senso, anche la nostra ricchezza: basti pensare a quei popoli che non sono riusciti a raggiungere nemmeno questa forma dolorosa e incompiuta d'integrazione.

Il ricordo dei 500 anni ci spinge a lavorare perché la nostra storia evolva da «conflitto» a «incontro», da «miscuglio» a «sintesi».

Perché ciò sia possibile non basta promuovere determinati contenuti culturali o cambiamenti di strutture, anche se essi sono imprescindibili. E' necessario far nascere atteggiamenti che caratterizzino cristianamente il modo di assumere la crisi della cultura latinoamericana. Tra tutti gli atteggiamenti possibili voglio rilevarne due a mio giudizio prioritari.

Il primo risponde alla caratteristica più tipica della crisi culturale del nostro continente: le masse immense di empobrecidos, umiliati, oppressi, parlano chiaramente dell'insufficienza delle risposte offerte dal contesto culturale latinoamericano. Loro sono il punto nevralgico della nuova sintesi. Lì dove si trova il più grande dolore si trova anche l'opportunità del più grande amore, dell'amore più concreto ed effettivo. Perciò costituisce un imperativo per il cristiano in America Latina assumere la crisi della cultura a partire dalla povertà e dalla miseria, in modo che la trasformazione sia genuina e non soltanto un nuovo e infruttuoso «giro di vite» dell'attuale crisi.

Per il fatto che la nostra cultura è caratterizzata da una sovrapposizione di conflitti non risolti, il secondo atteggiamento deve essere la capacità di creare unità. Un superamento dei conflitti non può provenire da un nuovo conflitto. L'unica maniera di uscire dalla logica violenta del confronto è manifestare con radicalità la fraternità, che è patrimonio imprescindibile di una cultura cristiana. Poco servirebbe imporre contenuti di culture cristianizzate, se nei processi per arrivarci si contraddicesse questo punto essenziale della cultura cristiana.

 

a cura di Enrique Cambón